lunedì 18 novembre 2024

“Giurato numero 2”, Clint Eastwood (2024)

Justin Kemp (Nicholas Hoult) giornalista in Savannah (Georgia), ex-alcolista, viene convocato come giurato in un processo per l’omicidio di una giovane, Kendall Carter (Francesca Eastwood) di cui è accusato James Sythe (Gabriel Basso) con cui ella aveva una relazione burrascosa. Justin accetta malvolentieri l'incarico essendo sua moglie Allison (Zohey Deutch) alla fine di una gravidanza a rischio. Preoccupazione ed ansia aumentano poi nel corso del processo poiché Justin si rende presto conto di poter essere stato implicato nel caso di omicidio che è stato chiamato a giudicare e qui ci dobbiamo fermare per evitare uno spoiling. 

Tre aspetti ci guidano nell’analisi di questo film: la statua della giustizia che nella sequenza di apertura si presenta con la bilancia squilibrata, il nome di Justin che richiama “justice” (giustizia) e quello del pubblico ministero: Faith (Toni Collette) che significa fede, fiducia, lealtà. E questo perché due sono i problemi che Eastwood solleva: 1) Esiste la possibilità di una vera giustizia? 2) Può un essere umano sacrificare in modo irreversibile se stesso e quanto gli è più caro per far sì che giustizia venga fatta? All’inizio del film Faith è ben convinta che una vera giustizia esista, tant’è che ricorda ad Eric (Chris Messina), suo compagno di corso e avvocato difensore d’ufficio di Sythe, l'aforisma di un loro professore La giustizia è verità in azione e persegue la sua accusa con vigore anche perché, essendo candidata alla carica di procuratore distrettuale, sa bene che una vittoria le garantirebbe il successo alle elezioni. Ma in seguito, valutando la documentazione ottenuta da Harold, un giurato ex poliziotto (J.K. Simmons), inizia a nutrire dubbi sulla effettiva colpevolezza del giovane e si trova a dover decidere fra il successo alle elezioni, garantito dalla condanna di Sythe e la fedeltà (nome omen) al suo mandato ed alla regola aristotelica (Politica III) La legge è ragione senza passione. Ma anche Harold ha dovuto fare la sua scelta. Come giurato infatti non doveva svolgere indagini per suo conto ed invece, fedele al giuramento fatto come poliziotto, ha deciso di procedere per conto suo e per questo verrà allontanato dalla giuria. Ed infine Justin è chiamato alla scelta più difficile: farsi avanti e dire ciò che sa, rischiando grosso per il suo futuro e per quello della sua famiglia o stare zitto e lasciare che un probabile innocente vada all’ergastolo? All’inizio egli sceglie una via di mezzo, cioè cerca di convincere i giurati che le prove della colpevolezza di Sythe non sono adeguate e in questa fase il film ricorda (volutamente, come dichiarato dall’autore dello script J. Abrams in una intervista a GQ) “La parola alla giuria” (William Friedkin, 1997) nello svelare per ogni giurato colpevolista i motivi extragiudiziali che ne influenzano il parere. Ma rendendosi conto di non riuscire a convincere tutti i giurati, Justin cambierà tattica e si adatterà al giudizio della maggioranza. 

Torniamo ai due problemi sollevati dal regista e menzionati in apertura. Al primo, se sia possibile una vera giustizia, la risposta del film è no. D’altro canto, come sottolinea nel finale Eric, al sistema attuale non vi sono alternative migliori (almeno per quel che riguarda il sistema giudiziario americano, va aggiunto). Al secondo, se si debba sacrificare tutto se stesso e la propria famiglia per far trionfare la giustizia, Justin risponde no, contraddicendo l’imperativo categorico di Kant Agisci secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga legge universale. Ma calato nella realtà di Justin questo imperativo risulta ben difficile da seguire e se ci mettiamo nei suoi panni, come Eastwood con la collaborazione di Hoult riesce magistralmente a realizzare, dare una risposta al problema è difficile, se non impossibile. Difficile sì, ma, seppure in condizioni diverse da Nicholas, Faith, come ci mostra l’ultima scena, decide di adeguarsi a Kant e di tener fede al suo nome.


 

giovedì 24 ottobre 2024

“Joker: folie à deux”, Todd Phillips (2024)

Dopo l’arresto avvenuto in “Joker" (2019, Todd Phillips) Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) è stato chiuso in carcere ad Arkham e qui lo ritroviamo in questo film, in attesa di processo per gli omicidi compiuti. La narrazione ruota intorno ad un aspetto prevalente del suo disturbo psichiatrico e cioè il disturbo di personalità multipla, come già evidente dal cartoon che apre il film dove appare la sua ombra che si svincola da lui a forza e commette una serie di pessime azioni delle quali però è alla fine Arthur a pagare lo scotto. In chiave psicoanalitica Joker rappresenta, secondo il canone di Gustav Jung, il Doppelgänger di Arthur, l’aspetto negativo della personalità che esprime ciò che la coscienza non può o non vuole far affiorare. Perchè in Arthur compare questo scomodo compagno? I motivi nella storia della sua infanzia infelice, caratterizzata da maltrattamenti ed abusi di ogni genere, non mancano, ma forse quello che prevale è la sua sensazione di rappresentare un totale fallimento, un individuo che non è nulla nel mondo materiale, un invisibile. Ed infatti egli cerca l’attenzione e l’apprezzamento altrui raccontando storie umoristiche che però non fanno assolutamente ridere, evocando un ennesimo fallimento cui fa eco la sua risata terrificante che si tramuta in urlo di rabbia e dolore. Grazie al suo Doppelgänger Arthur riesce invece a realizzare il suo desiderio di fama ed attenzione, come già visto nel film precedente, riuscendo a personificare la rabbia feroce di tutti coloro che vivono ai margini della società. Ma il problema di Arthur si disvela nel corso della narrazione ed appare evidente durante la folle arringa che recita in sua difesa in tribunale: egli vuole liberarsi di Joker ed essere se stesso assumendo le sue responsabilità, ma non ci riesce, un po' come il buon Dr Jekill che a un certo punto non riesce più a liberarsi del malvagio Mr Hyde. Arthur non riesce a far prevalere la sua personalità anche perchè ormai è Joker a predominare come vediamo con chiarezza nell’incontro con Harley Quinn (Lady Gaga), nel cui nome risuona il malvagio Hellequin, leader della caccia selvaggia della mitologia nordica, nella cella di isolamento in cui Arthur è rinchiuso. Harley infatti porta con sé il necessario per truccarlo da Joker perchè è lui che essa vuole, lui rappresenta per Harley l’immaginazione, la fantasia, l’intrattenimento (lo dice chiaramente in una delle canzoni che accompagnano il film), Arthur non le interessa e lo dichiara esplicitamente più tardi, nel colloquio sulla famosa scala che porta a casa Fleck. Ancora un fallimento per Arthur che non riesce nemmeno a salire tutta la scala da cui era disceso danzando nel 2019 non raggiungendo quindi il cielo finalmente azzurro (per tutto il film piove) poiché viene ricacciato nel grigio di Arkham dalla polizia. Ed eccoci al finale, tema del quale è chi sarà l’erede di Joker: sarà il figlio del quale Harley Quinn (peraltro mentitrice spudorata) aveva precedentemente accennato di essere in attesa o il detenuto che pone fine alla vicenda e che vediamo a margine dell’immagine tagliarsi gli angoli della bocca per riprodurre il sorriso di Joker? 

lunedì 14 ottobre 2024

“Vermiglio”, Maura Delpero (2024)

La famiglia Graziadei ci viene presentata all’inizio della narrazione come una delle tante famiglie rurali italiane (siamo in una sperduta frazione del Trentino) verso la fine della Seconda Guerra Mondiale: tanti figli, difficoltà economiche, padre-padrone che dirige severamente l’andazzo famigliare, con atteggiamento da semidio che richiede obbedienza indiscussa. Gradualmente però e con l’aiuto dei dialoghi che si svolgono fra le  tre sorelle Ada (Rachele Potrich), Lucia (Martina Scrinzi) e Flavia (Anna Thaler) nel lettone in cui passano le notti insieme, veniamo a scoprire che sotto la patina di questo ambiente stereotipato da piccolo mondo antico ribollono passioni insospettate che coinvolgono buona parte della famiglia. Il padre-padrone (Tommaso Ragno), in apparenza integerrimo, nasconde un album di fotografie pornografiche, la figlia Ada lacerata fra autoerotismo e possibile attrazione verso Agata, la ribelle del paese, da un lato  e l'esigenza di autosomministrarsi punizioni disgustose per questi suoi peccati dall'altro, Lucia che rimane incinta di un soldato siciliano (Giuseppe De Domenico) che i Graziadei nascondono dai tedeschi e lo sposa per poi scoprire che questi era già sposato quando si saprà che è stato ucciso dalla prima moglie, con la conseguenza che Lucia dovrà dare in adozione il figlioletto. Infine il figlio Dino (Patrick Gardener), unico che osa ribellarsi apertamente al padre ed annega le sue frustrazioni in un bicchiere di vino. Solo una figura, apparentemente in retroguardia per tutto il film, rappresenta l'elemento di stabilità della famiglia: la madre (Roberta Rovelli) che, seppure massacrata da una decina di gravidanze con il correlato di neonati che non riescono a sopravvivere, mantiene lucidamente le redini dell’organizzazione famigliare e addirittura osa rimproverare al marito l’acquisto di dischi costosi quando ella stessa fatica a far quadrare il bilancio famigliare. E quanto suona melensa la risposta di quest’ultimo: ”La musica è il cibo dell’anima”..., quando è stato proprio lui a negare ad Ada per motivi economici, nonostante il parere contrario della moglie, la possibilità di continuare gli studi, cosa che la ragazza ardentemente desiderava. La madre è quindi il punto di equilibrio della famiglia e non a caso tocca a lei porre la parola fine alle vicende famigliari cui abbiamo assistito quando nella splendida scena finale del film la vediamo rassettare la stanza con il lettone dove avevano dormito Ada, Lucia e Flavia, accarezzare furtivamente la coperta sul letto e chiudere le finestre e la porta facendo calare il buio nella stanza, a significare che ciò che doveva avvenire è avvenuto ed ora bisogna riprendere in mano le redini della famiglia e guardare al futuro.

venerdì 27 settembre 2024

"Campo di battaglia", Gianni Amelio (2024)

Quale è il campo di battaglia di cui ci parla Amelio in questo film? È forse uno dei tanti campi in cui si è combattuto nel corso della Prima Guerra Mondiale, verso la fine della quale si svolge la narrazione? Ebbene no, il campo di battaglia è un ospedale militare del Friuli Venezia Giulia dove si combatte per due visioni opposte del modo di praticare la professione di medico e di concepire il valore della vita. Da una parte il capitano medico Stefano (Gabriel Montesi), discendente di una importante e ricca famiglia, strenuo difensore del senso del dovere e quindi convinto di dover a tutti i costi rimandare al fronte i feriti che giornalmente giungono dai campi di battaglia veri e propri, convinto che la maggior parte di essi siano dei simulatori procuratisi le lesioni per sfuggire alla guerra. Dall'altra Giulio, ufficiale medico del cui passato conosciamo solo l'amicizia d'infanzia con Stefano, che arriva a procurare, con il loro consenso e di nascosto durante la notte, lesioni anche gravi ai soldati per assecondare il loro desiderio di non tornare al fronte. Entrambi sono innamorati della stessa donna, Anna (Federica Rosellini), infermiera che non ha potuto proseguire gli studi per diventare medico.  

La decisione fra obbedire al dovere e tutelare la vita, seppure a prezzo di menomazioni, non è certo facile e presenta sfumature soggettive che giustamente Amelio registra nel presentarci un soldato che, invece di voler evitare ad ogni costo il ritorno alla guerra, chiede con insistenza di essere rimandato al fronte perché i suoi commilitoni sono la sua famiglia. Un giudizio fra queste due opzioni non viene quindi espresso. Ciò che ci mostra con chiarezza il film è che la visione rigida di Stefano, ligio al dovere, gli permette di vivere e lavorare se non tranquillo (la sua preoccupazione è l'epidemia di spagnola che inizia a diffondersi e rischia dal suo punto di vista non tanto di mietere vite umane, ma di sottrarre carne da cannone ai generali) almeno senza nutrire dubbi. La visione umanitaria di Giulio lo porta invece a dubitare delle sue azioni, soprattutto dopo che un soldato cui egli aveva procurato lesioni oculari per risparmiargli il fronte viene per questo fucilato come traditore. Nella scena della fucilazione è ben visibile la scritta "Per la Patria e per l’Umanità”, ispirata alla concezione mazziniana dei doveri dell’uomo, concezione cui si ispira Stefano nel compiere il suo lavoro. I dubbi di Giulio diventano sempre più pressanti dopo questo episodio e certo non lo aiuta il trasferimento in un forte dove sono ricoverati i soldati affetti dalla spagnola. A questo punto il carico emotivo diviene per lui intollerabile fino a rendergli impossibile continuare a vivere, nonostante la vicinanza di Anna.  

“Campo di battaglia” non è un film di guerra, ma un film sulla guerra, cioè sugli effetti che questa evoca in chi la vive, effetti che in definitiva sono una amplificazione nel singolo individuo di idee e concetti, frutto della genetica e dell’ambiente, già in esso presenti. 

sabato 24 agosto 2024

"Civil War", Alex Garland (2024)

 

Gli Stati Uniti d'America sono in preda ad una guerra fra stati dell'occidente e governo federale. Due fotografe, Jessie Cullen (Cailee Spaeny) giovane alle prime armi, e Lee Smith (Kirsten Dunst) famosa ed esperta fotografa di guerra, e due giornalisti, Joel (Wagner Moura) e Sammy (Stephen McKinley Henderson), decidono di recarsi da New York a Washington D.C. per tentare di ottenere un'intervista in esclusiva dal Presidente. Garland utilizza la narrazione di questo viaggio che si svolge in una terra devastata dalla guerra per sviluppare due tematiche. La più evidente è il rischio cui anche una grande democrazia si espone nel momento in cui si verifica una polarizzazione eccessiva del dibattito politico, con conseguente spaccatura in due del paese, incapacità di dialogo fra i due poli opposti, mutazione dello status dell'avversario politico a nemico da combattere fino alla morte. Tema questo estremamente attuale in un momento in cui la polarizzazione sembra essere il minimo comun denominatore di tante democrazie da entrambe le parti dell'Atlantico. Il secondo tema, di carattere più personale, riguarda il percorso di formazione della giovane Jessie sotto la tutela dei colleghi più anziani.  È interessante in particolare vedere il mutamento che interviene con il tempo nell'atteggiamento delle due fotografe. Lee è inizialmente cinica e concentrata esclusivamente sul lavoro, senza pagare la minima attenzione ai drammi che va ritraendo con la sua macchina fotografica. Jessie al contrario non riesce a non vedere il lato umano, la sofferenza di coloro che fotografa e ne è fortemente scossa. Ma più ci si addentra nel contesto bellico più appare evidente che la sicurezza di Lee è di facciata, si capisce da alcuni flashback che gli orrori che ha fotografato nel corso della sua carriera la hanno segnata profondamente fino a provocare una crisi di panico nel momento cruciale dell'ingresso nella Casa Bianca al seguito dei soldati del Fronte Occidentale. Al contrario Jessie diviene sempre meno emotiva e sempre più concentrata nell'ottenere immagini efficaci senza badare all'aspetto umano. Questa inversione di atteggiamenti giunge al suo apice quando, nei corridoi della Casa Bianca e sotto il fuoco incrociato delle parti in lotta, Lee salva la vita di Jessie gettandola a terra e tutto quello che Jessie sa fare in cambio è fotografare da terra Lee che si accascia colpita alle spalle, senza nemmeno tentare di aiutarla. Al termine della vicenda quindi Jessie è diventata una fotografa di guerra formata, ma questo obiettivo è stato raggiunto a discapito della sua umanità.
Le considerazioni che si possono trarre da questo film sono in definitiva esclusivamente negative? Con un piccolo sforzo si potrebbe trovare un qualcosa di non così negativo, vale a dire l'ambientazione di questa guerra negli Stati Uniti, cioè in un paese che fra il 1861 e il 1865 è stato effettivamente preda di una feroce guerra civile (50.000 morti solo nei tre giorni della battaglia di Gettysburg, un dato impressionante se paragonato ad esempio ai 58.000 morti americani nel corso dei vent'anni della guerra in Vietnam). Ebbene nonostante questo macello la nazione è riuscita a rimettersi in piedi diventando la più potente del mondo. Forse Garland ha voluto dirci che anche in una condizione così disperata ed apparentemente priva di vie d'uscita vi possono essere le risorse per rialzare la testa.

    

giovedì 15 agosto 2024

"La Sala Professori", Ilker Çatak (2023)

Una giovane insegnante di una scuola media di Amburgo, Carla Nowac (Leonie Benesch), si rende conto che nel suo istituto si verificano piccoli furti. Decide quindi di procedere a un'indagine personale e, attraverso un video da lei stessa girato, ritiene di aver identificato almeno uno dei responsabili. Il confronto con la sospetta autrice del furto ritratta nel video ed il successivo interessamento delle autorità scolastiche, di alunni e genitori causa un effetto-valanga da cui Carla rimane psicologicamente travolta.
Nel corso della narrazione vengono affrontati alcuni aspetti interessanti ed attuali quali il razzismo strisciante fra gli alunni e l'atteggiamento assurdamente inquisitorio del personale insegnante nei confronti dei rappresentanti di classe, indici di una inadeguatezza formativa dei ragazzi (non certo responsabilità unica della scuola, ma in modo importante anche della famiglia) e di una inadeguatezza del personale scolastico nell'affrontare tematiche piuttosto delicate come quella descritta. Ma un altro aspetto significativo è espresso dal personaggio di Carla. Già dalla telefonata fra lei ed uno sconosciuto interlocutore, che apre il film, emerge un aspetto del suo carattere e cioè la volontà di rappresentare sempre la soluzione e non il problema, di caricarsi di responsabilità e di impegnarsi in prima persona pur di risolvere ogni questione nella giusta maniera. In merito a questo atteggiamento emergono due problemi importanti: la capacità, una volta intrapresa un'azione, di condurla fino in fondo e come si possa definire la giusta maniera per farlo. A prima vista Carla appare sicura di sé, lo si capisce da come cammina decisa e spedita nei corridoi della scuola. Ma quando iniziano le difficoltà, vedi ad esempio durante il difficile colloquio con i genitori, tutta la sua sicurezza crolla, interrompe bruscamente il colloquio e corre in bagno a vomitare. E sulla stessa linea si svolge l'altrettanto difficile intervista con i ragazzi che curano il giornale della scuola. Va detto per completezza che in entrambe le occasioni gli interlocutori non si dimostrano certo amichevoli nei suoi confronti. Cosa ci ha voluto comunicare il regista attraverso il personaggio di Carla? In primo luogo che prima di intraprendere un'azione ci si dovrebbe domandare se si hanno le risorse per portarla a termine. In secondo luogo che non esiste il bianco e nero, ogni situazione ha tante sfaccettature che vanno esaminate prima di prendere una decisione. Non è quindi il caso di ergersi a giudice monocratico in base alle sole proprie opinioni, le decisioni vanno condivise. Carla avrebbe dovuto parlare almeno con la preside prima di girare il video, trattandosi oltretutto di un'azione illecita se i possibili protagonisti non sono preavvertiti ed hanno dato il loro consenso, eccetto ovviamente nelle indagini di polizia. In terzo luogo, mai compiere un'azione senza averne prima soppesato le conseguenze: anche dalle azioni condotte a fin di bene possono infatti scaturire esiti imprevisti e possibilmente negativi, come dimostra il film. In definitiva l'aforisma attribuito al ministro francese Talleyrand (1754-1838) "Surtout pas trop de zèl" (Soprattutto non troppo zelo) è l'avvertimento che Carla avrebbe dovuto tener presente nell'organizzare la sua caccia al ladro. 

domenica 4 agosto 2024

“Utama”, Alejandro Loayza Grisi (2022)

Sisa (Luisa Quispe) e Virginio (José Calcina), anziani coniugi Quechua, vivono in un altipiano delle Ande, isolati nella loro fattoria. La loro fonte di reddito è una mandria di lama che giornalmente Virginio porta a pascolare, mentre Sisa pensa alle faccende domestiche ed a procurare l’acqua, compito quest’ultimo sempre più problematico perché una grave siccità sta trasformando l’altopiano in un arido deserto. Virginio è malato ma non vuole dare ascolto al nipote Clever (Santos Choque) che vorrebbe portare i nonni a vivere in città per poterne aver cura e fornire a Virginio cure adeguate.

“Utama” è un film importante perché attira l’attenzione sul cambiamento climatico e sui disastri irreversibili che la penuria di acqua da esso derivante può comportare. C'è però un altro aspetto altrettanto importante del film che va sottolineato e cioè l’amore, amore che ha diverse sfaccettature. Vediamo il rapporto fra Virginio e Sisa. Egli ha un atteggiamento patriarcale, ma il rapporto fra i due è di una dolcezza commovente ed è soprattutto espresso con maestria con sguardi e gesti semplici come prendersi la mano o scambiarsi una fugace carezza; le parole non servono in questo contesto. E poi l’amore per la propria terra e per le proprie tradizioni, testimoniato dalla incrollabile volontà di Virginio di non andare a vivere in città e farsi curare (non a caso "utama" significa in lingua quechua"la nostra casa"). Vi è poi l'attaccamento alle tradizioni, evidente nel ricorso al sacrificio di animali per implorare l'arrivo della pioggia, nonostante segni evidenti di adesione ad un credo cristiano. L'amore si manifesta anche fra generazioni, ce lo dimostra il nipote Clever che si stabilisce nella casa dei nonni per aiutarli e per cercare di convincere, invano, Virginio a curarsi. Mentre Sisa esprime apertamente l'affetto per il nipote, lo stesso non si può dire di Virginio che inizialmente ha nei suoi riguardi un atteggiamento piuttosto duro, forse perché gli ricorda la decisione di suo figlio di abbandonare l'altopiano per andare a vivere in città. Ma quando viene a sapere che Clever diventerà padre, Virginio gli dimostra a modo suo tutto il suo affetto regalandogli i suoi beni più preziosi: una scatoletta con alcune vecchie foto di famiglia e alcuni frammenti d'oro nonché il suo cappello. Dopo l'incontro con un vecchio condor, ulteriore richiamo alle tradizioni, Virginio muore tranquillo nel sonno e viene seppellito nel piccolo cimitero locale. Il film si chiude come si era aperto: all'inizio infatti avevamo visto l'immagine folgorante, degna di un'opera di Anselm Kiefer, di Virginio che cammina verso uno sfondo montuoso apparentemente infinito ed alla fine lo stesso tipo di inquadratura ci mostra Sisa che conduce al pascolo i lama mentre tuoni rimbombano in cielo. Ed è difficile non pensare che la morte di Virginio possa aver rappresentato l'estremo sacrificio che ha convinto la divinità a far venire la tanto attesa pioggia.

sabato 29 giugno 2024

"The Animal Kingdom", Thomas Cailley (2023)

In tutto il mondo si verificano mutazioni senza causa apparente che trasformano gli esseri umani in soggetti mostruosi, di aspetto animalesco. Lena, moglie e madre rispettivamente di François (Romain Duris) ed Émile (Paul Kircher), è ricoverata in un ospedale dedicato al trattamento di queste metamorfosi, ma in occasione di un incidente stradale verificatosi durante il trasferimento in un'altra sede, riesce a fuggire dall'ambulanza insieme ad un numero imprecisato di altri mutanti. François ed Émile si mettono alla ricerca di Lena, il primo più convinto del secondo; nel corso della narrazione Émile inizia a presentare i segni di una lenta metamorfosi, verosimilmente in un lupo. Questa è in sintesi la trama del film che potrebbe far pensare ad un horror-fantasy come tanti, mentre in realtà offre lo spunto per considerazioni interessanti.

In primo luogo consideriamo le metamorfosi nel mondo antico ed in particolare per qual motivo gli dei provocavano questi fenomeni negli esseri umani. I motivi erano in genere due: punizione/invidia o salvataggio da un pericolo; un esempio del primo è la trasformazione della ninfa Callisto in orsa da parte di Artemide poiché era rimasta incinta contravvenendo alle regole imposte dalla sua condizione e del secondo la trasformazione di Dafne, insidiata da Apollo, in cespuglio di lauro. È possibile trovare un rapporto causa-effetto di questo tipo anche nel film? Il regista ce lo suggerisce inserendo nella narrazione frequenti osservazioni di François in merito alla pessima qualità dei prodotti alimentari che consumiamo, spinti da una pubblicità pervasiva. Le mutazioni potrebbero essere correlate agli alimenti che consumiamo e rappresentare quindi una punizione nei confronti del genere umano per i disastri da esso provocati nella catena alimentare dal desiderio di guadagni sempre maggiori.   

Non mancano evidenti allusioni alla paura nei confronti del diverso, in questo caso i mutanti, sempre considerato un potenziale e verosimile pericolo, come già visto molti anni fa sia nel cinema con "Freaks" (Todd Browning, 1932) che in letteratura con "Frankenstein" (Mary Shelley, 1818). Il motivo di questa paura è presto detto: il diverso rappresenta un cambiamento ed il cambiamento è istintivamente contrario alla natura umana, di per sé portata alla conservazione dello status quo che conferisce sicurezza; chi può infatti garantire a priori che un cambiamento sarà sicuramente per il meglio e non per il peggio? Va detto che i mutanti del film non hanno un atteggiamento proprio amichevole nei confronti degli umani, ma questo è dovuto a come essi vengono trattati, cioè rinchiudendoli con la forza e sottoponendoli a trattamenti di dubbia utilità contro il loro volere. In effetti il diverso, si pensi ad esempio agli immigrati dei nostri tempi, si trova molto frequentemente in condizioni di difficoltà economica, di isolamento sociale, di disoccupazione per cui un comportamento non propriamente ortodosso da parte sua non deve stupire.  

Un ultimo commento sul titolo. Si potrebbe essere portati a pensare che il “Regno Animale" sia quello dei mutanti, ma non è così. Esseri umani ed animali fanno infatti biologicamente tutti parte del “Regno Animale" e quindi forse questo titolo è un messaggio di integrazione fra di essi che il regista ci ha voluto dare. Più pessimisticamente potremmo invece pensare che gli animali del titolo siano in realtà gli esseri umani, così definiti per la ferocia che essi dimostrano nei confronti dei mutanti, essendo la ferocia spesso definita un comportamento "da animali".

martedì 4 giugno 2024

“I Dannati”, Roberto Minervini (2024)

Quest'opera di Roberto Minervini si aggiunge ad una lunga lista di film sulla guerra spesso caratterizzati da una particolare prospettiva in merito al tema. Pensiamo ad esempio a “Orizzonti di gloria" (Stanley Kubrick, 1957) che narra la follia delle decisioni prese dagli alti comandi con le relative conseguenze catastrofiche per i soldati, a “Salvate il soldato Ryan" (Steven Spielberg, 1998) che sottolinea l'importanza della vita del singolo individuo nella massa informe della truppa e che va ricordato anche per il terrificante realismo con cui rende lo sbarco in Normandia, o a “1917” (Sam Mendes, 2019) che utilizza la trama bellica per raccontare una storia di formazione, narrando come l'esperienza della guerra cambi radicalmente (in positivo) il modo di un singolo soldato di vivere la vita.

Il film di Minervini narra la storia di un battaglione di soldati confederati (siamo nel 1862, durante la guerra civile americana) mandati ad esplorare territori ad ovest. Un tema rilevante della narrazione è la fatica del "lavoro" quotidiano della guerra, aspetto già evidente nel poster a fianco che ci mostra di spalle soldati in colonna che procedono ingobbiti sotto un cielo grigio e nuvoloso verso un orizzonte senza fine, destinati ad una fatica di Sisifo di cui non è a loro del tutto chiaro il senso. E che il senso non sia chiaro, o comunque non uguale per tutti, è evidente dai dialoghi fra questi soldati, dialoghi scarni ed essenziali, che ci spiegano perché essi, ragazzi e adulti, hanno deciso di arruolarsi. C’è chi cercava un'occupazione, chi ha voluto seguire il padre, chi ritiene di aver fatto una scelta eticamente giusta, chi adduce una motivazione religiosa. Minervini insiste inoltre, ed è anche questa una caratteristica di quest'opera, sul freddo e la sporcizia che questi uomini sembrano dare per scontati, da essi non sentiamo mai infatti un lamento, come se sapessero di essere condannati a questa vita (ma il regista li definisce giustamente dannati cioè destinati a ciò che vivono e non condannati, termine che implicherebbe invece una punizione con conseguente possibilità di redenzione). Insieme a queste tematiche, la guerra anche qui compare, con una lunga sequenza su uno scontro a fuoco della quale vale la pena sottolineare due aspetti. In primo luogo il diverso atteggiamento dei vari soldati: chi si getta all'attacco, chi sta al riparo e da lì spara, chi si rifugia in una buca finché tutto finisce, il tutto per dirci che in condizioni estreme, nonostante la comune appartenenza, riemerga l'individualismo. L’altro aspetto importante è l'anonimità del nemico: i soldati sparano verso fiammate che provengono dai cespugli ma non hanno la minima idea di chi siano le persone cui stanno sparando, un’altra assurdità della guerra: uccidere sconosciuti che nella vita normale potrebbero esserci indifferenti o addirittura essere nostri cari amici. Fortunatamente il regista ci lascia alla fine con una nota di ottimismo, quando in chiusura uno dei due soldati mandati in avanscoperta alza lo sguardo al cielo sotto una nevicata mista ad un tenue raggio di sole ed esclama: "Che serenità!" per farci ricordare che la speranza, ultima dea, non deve mai essere abbandonata poiché anche la guerra, come il tempo gelido e nuvoloso che ha accompagnato i protagonisti per tutto il film, passerà. 

giovedì 30 maggio 2024

"Mr Ripley: variazioni sul tema fra 1960 e 2024"

La saga di Tom Ripley, ispirata ai 5 romanzi scritti da Patricia Highsmith a partire dagli anni ’50, è costituita da tre produzioni principali, oltre ad alcuni sequel opera di registi importanti fra cui Wim Wenders e Liliana Cavani, rappresentate in ordine cronologico da due film, “Delitto in pieno sole” (René Clément 1960) e “Il talento di Mr Ripley” (Anthony Minghella, 1999) e dalla recente serie Netflix “Ripley” (Steven Zaillian, 2024).

Il nocciolo della storia è lo stesso nelle tre opere: Tom Ripley è un ladruncolo di mezza tacca che viene fortuitamente incaricato da un ricco americano, Mr Greenleaf, di riportare a casa il figlio che vive in Italia insieme alla fidanzata Marge nell’ozio e negli agi a carico del padre. Una volta giunto in Italia e introdottosi con l'inganno nell’ambiente di Greenleaf junior, Ripley si rende ben presto conto di poter manipolare la situazione a proprio vantaggio quindi lo uccide e, sfruttando la propria abilità di falsario, ne assume l'identità, passando il resto della narrazione a sfuggire alla polizia. Se è vero che la struttura della vicenda è la stessa nelle tre produzioni, vi sono dei particolari più o meno evidenti che le distinguono, in particolare per quel che riguarda la figura di Ripley. 

L’aspetto comune alle tre versioni è il desiderio mimetico nella definizione di René Girard; in sintesi, il filosofo francese propone che ogni essere umano provi il desiderio di qualcosa perché la vede in possesso di altri; ciò implica in qualche misura il desiderio di essere come colui che possiede la cosa, da cui il termine “mimetico”. In aggiunta al desiderio mimetico interviene in un secondo tempo l’odio per colui che possiede la cosa desiderata, se non si riesce ad ottenerla. Ripley ambisce ad ottenere lo status socio-economico di Greenleaf jr (a dimostrazione di ciò vedi il tentativo puerile di imitarlo contemplandosi allo specchio con addosso i suoi abiti), ma non ha modo di farlo a meno di ucciderlo e prendere la sua identità; in questo modo la mimesi diviene perfetta. Iniziamo a questo punto a vedere qualche differenza fra le tre versioni. In quella di Clément Ripley si rende conto, ascoltando una conversazione fra Greenleaf jr e Marge, che il primo si è stancato di averlo fra i piedi, in quella di Minghella Ripley è sessualmente attratto da Greenleaf jr, ma viene da lui bruscamente respinto, mentre in quella di Zaillian Greenleaf jr sbeffeggia platealmente i gusti di Ripley (vedi la vestaglia da lui scelta). Si tratta ovviamente in ognuno di questi casi di motivi che aumentano l'odio di quest’ultimo per il primo. 

Altre due differenze significative le troviamo nella scelta dell’attore per la parte di Tom e nell’ambientazione. Clément e Minghella optano per attori di bell’aspetto (Alain Delon e Matt Damon, rispettivamente), allegri e ciarlieri e per una ambientazione estiva e soleggiata, mentre Zaillian sceglie un attore di aspetto dimesso (Andrew Scott), quasi impiegatizio, ed una ambientazione invernale, esaltata dall’impiego del bianco e nero. Sicuramente la scelta di Zaillian è la più audace, non potendo contare sull’attrazione esercitata da splendidi e soleggiati paesaggi italiani (soprattutto per il pubblico estero) e su protagonisti fascinosi, ma è anche la più efficace nel rendere quella che Hannah Arendt, a proposito dei gerarchi nazisti, definì la banalità del male cioè la mancanza di grandiosità che spesso caratterizza chi compie azioni efferate ed i processi mentali di Ripley, mai allegro e ciarliero, ma sempre concentrato nel programmare le prossime mosse di una vita pericolosa in fuga perenne, non a caso paragonata a quella di Caravaggio, anch’egli assassino e fuggitivo, per le cui opere Ripley nutre un’attrazione ossessiva.





 

giovedì 16 maggio 2024

“Delta”, Michele Vannucci (2022)

Questa storia drammatica, dura come l’ambiente in cui si svolge vale a dire le nebbie del delta del Po d'inverno, ha contenuti molto interessanti che vale la pena considerare.

Sullo sfondo prevale la disperazione dettata dalla miseria. I pescatori di frodo rumeni, costretti a trasferirsi nel delta perché braccati in patria dalla polizia, Anna (Emilia Scarpati) che, alla disperata ricerca di un rapporto d’amore dopo il fallimento del matrimonio con Osso (Luigi Lo Cascio), si getta d'impulso nelle braccia di Elia (un ottimo Alessandro Borghi), pescatore di frodo locale del cui passato nulla sappiamo e che ora vive e lavora (“Sono la mia famiglia” dice) in una baracca sul fiume con i pescatori rumeni. E la miseria porta alla rabbia, in preda alla quale alcuni pescatori italiani incitano amici e colleghi all’eliminazione fisica dei rumeni. 

In questo mondo di gente che non ha nulla è paradossalmente forte il valore della proprietà. Quante volte sentiamo il capo dei rumeni esclamare “Questa è la mia casa”, casa in cui peraltro si era installato abusivamente, quante volte i pescatori italiani affermano che il Po è il loro fiume, anche questa una affermazione priva di senso. Queste dichiarazioni di possesso ci fanno capire come sia molto difficile, se non impossibile, soprattutto in condizioni di depressione economica, realizzare condivisione ed integrazione. È questo un tema di grande attualità, basti pensare alle difficoltà legate ai fenomeni migratori.

Un ultimo aspetto da sottolineare è quello morale, che possiamo ricavare dal comportamento di Osso. Per tutta la prima parte del film egli svolge il suo ruolo di guardia ittica volontaria con estremo rigore e rispetto delle leggi, cercando in modo ossessivo di essere obiettivo, fino a ritenere che la morìa di pesci non sia dovuta alla pesca di frodo ma agli scarichi delle industrie. Egli si oppone quindi alla combattiva sorella Nina (Greta Esposito) che parteggia per chi vuol farsi giustizia da solo. Ma nel finale drammatico tutto cambia. L’uccisione di Nina da parte di Elia ad un posto di blocco stravolge le convinzioni di Osso che arriva ad uccidere Elia per pura vendetta, per di più sparandogli alle spalle. Questa è la conclusione pessimistica: nessuno è in grado di dominare gli istinti peggiori, conclusione che Elia sintetizza prima di morire in una  frase semplice ma densa di significato “Passiamo la vita a combattere contro noi stessi per diventare migliori, ma siamo quello che siamo”. A queste parole sembra fare eco il paesaggio, per buona parte del film cupo e nebbioso, ma che in una breve sequenza viene ravvivato dal volo dei fenicotteri in una giornata di sole, come per volerci dire in metafora che anche la natura combatte contro se stessa per essere migliore.     

 

giovedì 25 aprile 2024

Il Bene contro il Male nel cinema moderno di fantascienza: Psiche vs Techne


La lotta fra il Bene e il Male è un tema comune a tutte le manifestazioni artistiche di ogni genere e di ogni epoca. Credo sia interessante valutare come esso viene affrontato nell’ambito di quattro saghe cinematografiche di fantascienza uscite nell’arco degli ultimi 50 anni: Guerre stellari (1977), Dune (1984), Terminator (1984), Matrix (1999).

Il tema comune delle quattro saghe è la minaccia di una distruzione dell’Umanità, o di un suo totale asservimento ad un regime totalitario, ad opera di esseri umani (Guerre stellari, Dune) o macchine (Terminator, Matrix). In tutti i quattro casi citati la difesa dell'Umanità è affidata ad un Eletto le cui caratteristiche sono costanti: si tratta invariabilmente di un giovane maschio (rispettivamente Luke Skywalker, Paul Atreides, John Connor, Thomas Anderson) del tutto ignaro di essere predestinato a svolgere un ruolo salvifico per l’Umanità e che addirittura fatica ad accettarlo sia perché non vuole convincersi di essere l’Eletto sia poiché teme di non essere all’altezza di questo compito. E per convincere questo giovane del suo destino ed allenarlo al compimento della sua missione è sempre presente la figura del Mentore (rispettivamente Yoda, Duncan Idaho, il robot della serie T, Morpheus).  

Questi Eletti hanno tutti evidenti caratteri trascendenti, essi sono infatti dotati di caratteristiche che, opportunamente sviluppate, li rendono superiori agli esseri umani. Ad esempio, Luke Skywalker, come tutti i cavalieri Jedi, è dotato della Forza, una caratteristica che va sì perfezionata con un adeguato allenamento ma che non si può acquisire, essendo necessaria per possederla una misteriosa predisposizione. Paul Atreides riesce a non morire dopo aver bevuto l’Acqua della Vita, contrariamente a tutti i maschi che compivano questo tentativo. Dopo questa impresa egli acquisisce la capacità di vedere il futuro, caratteristica fino ad allora esclusivo appannaggio delle Madri Reverende Bene Gesserit. Thomas Anderson può essere definito addirittura una figura cristologica poiché alla fine del terzo episodio di Matrix muore per salvare il genere umano, per poi resuscitare nel quarto. Sembra quindi che la presenza di una figura trascendente che riporti all’Età dell’Oro di una Umanità quasi divina sia necessaria per opporsi al Male che regolarmente utilizza tecnologie belliche raffinate. E questo stato di quasi-divinità degli Eletti  è ulteriormente sottolineato da un evidente richiamo alla religione: proprio come avviene nelle tre religioni monoteistiche tutti gli Eletti sono infatti maschi. 

Si potrebbe dire, parafrasando il titolo del libro di Umberto Galimberti, che nella lotta eterna fra il Bene e il Male, la nostra società, che il cinema rispecchia, sente lesigenza di fare appello alla sua componente spirituale (Psiche) per far fronte  al potenziale pericolo rappresentato dalla componente materiale (Techne). Va però aggiunto che la necessità di un Eletto che risolva i problemi probabilmente non è un buon segno. Da un lato infatti è espressione di una società i cui componenti non hanno sufficienti risorse per affrontare le difficoltà con le proprie forze e dall'altro, attraverso il culto della personalità e dell'"Uno solo al comando", può in linea di principio aprire la strada al totalitarismo. 

venerdì 8 marzo 2024

"La zona di interesse", Jonathan Glazer (2023)


Jonathan Glazer si aggiunge alla lunga lista di registi che hanno narrato della Shoah. Queste narrazioni hanno per lo più avuto come oggetto la vita all'interno di un campo di concentramento con poco o nullo interesse per quanto avviene al di fuori di esso. Le eccezioni furono “Train de vie” (Radu Mihaileanu, 1998) e "Il bambino con il pigiama a righe" (Mark Herman, 2008), seguiti appunto ora da “La zona di interesse”.

Merito evidente di questo film è la capacità di ritrarre efficacemente il concetto di Banalità del Male (Hanna Arendt), dimostrando come gli esecutori delle atrocità della Shoah non fossero (purtroppo) mostri disumani, ma impiegatucci preoccupati solo di far carriera e di farsi raccomandare per non perdere i privilegi acquisiti (la loro "zona di interesse"). E sottolineo "purtroppo" perché, uscendo dal cinema, non possiamo non pensare che la persona che abbiamo a fianco al ristorante o in autobus, ciarliera e sorridente ed accompagnata da coniuge e figli altrettanto ciarlieri e sorridenti, potrebbe essere capace di compiere ciò che sentiamo, e mai vediamo, avvenire al di là del muro della casa di Rudolph Höss (Christian Friedel), a fianco del lager di Auschwitz. E qui emerge l’originalità del film di Glazer, cioè l'aver realizzato, in accordo con il suo passato di regista di videoclip musicali, uno spettacolo di son et lumière in cui appunto la vita del lager è ritratta nei colori, come nel grigio dell’inizio e nel rosso dell’intermezzo (rispettivamente cenere e fumo l’uno e fuoco il secondo, entrambi espressione della morte nel lager), e nei suoni a volte anonimi ma sempre terrificanti quando accompagnano i due colori e a volte invece ben identificabili come le urla e le fucilate incessanti. Solo la suocera di Höss percepisce questo orrore e decide di fuggire senza avvertire nessuno; per gli altri componenti della famiglia, a parte una delle bambine, tutto fa parte della vita di tutti i giorni, come lo è il rimproverare l’aiutante domestica ebrea con la minaccia di bruciarla e spargere le sue ceneri, il commentare ridacchiando gli errori di misura nella scelta degli abiti sottratti ai detenuti ebrei, addirittura il mettersi il rossetto trovato nella tasca della pelliccia sottratta a una detenuta ebrea o anche raccontare alle figlie per addormentarle la feroce punizione inflitta alla strega, gettata viva nel forno, nella fiaba di Hänsel e Gretel. Indifferenza, questa è la parola che meglio spiega questo atteggiamento altrimenti inspiegabile, diverso dalla verosimile non conoscenza di questi fatti da parte del popolo tedesco. E a proposito del popolo tedesco, è difficile non pensare che nelle scene finali del film che ci portano all’oggi, ai musei della Shoah, il mostrarceli mentre vi si fanno le pulizie non voglia significare un desiderio di “lavare via” il passato. 

Finita la proiezione restiamo indubbiamente angosciati da ciò che Glazer ci ha fatto non tanto vedere quanto intuire. Questa angoscia è però moderata dal sentirci migliori di Höss e dei suoi famigliari, dalla consapevolezza che mai e poi mai potremmo per indifferenza comportarci come loro. Ma un dubbio a questo punto dovrebbe farsi strada nella nostra mente: siamo poi così attenti al nostro prossimo in difficoltà? Non siamo in realtà indifferenti verso nostri simili in condizioni di sofferenza che ci passano accanto? Facciamo tutto ciò che potremmo fare per aiutare chi vive nel disagio? Un grande merito di questa pellicola, al di là dei premi che ha vinto e vincerà, è proprio quello di costringerci a guardarci nello specchio e rispondere a queste domande.

domenica 25 febbraio 2024

"Past Lives", Celine Song (2023)


Quali sono le Past Lives (Vite Passate) cui allude il titolo del bel film d'esordio di Celine Song? Da ciò che apprendiamo nel corso della narrazione si può trattare delle molteplici vite che il credo buddista prevede con l'incarnazione dell'anima in corpi diversi (il buddismo in realtà preferisce il termine "rinascita" poiché l'anima, immortale, rinasce ogni volta che entra in un nuovo corpo). A questo concetto però la protagonista femminile Nora Moon (Greta Lee) accosta la parola-chiave 인연 (In-Yun) che in coreano significa a grandi linee "destino" indicando però anche il legame che si crea quando due persone anche semplicemente si sfiorano senza nemmeno conoscersi, legame che rimane nel corso delle molteplici rinascite. Ma vi è anche un secondo significato per questa espressione, "Vite Passate", che si riferisce al passato di ogni singolo individuo, passato che costituisce una vita a sé stante. Ce lo dice chiaramente Nora quando, parlando con il protagonista maschile Hae Sung (Teo Yoo), gli chiede e si chiede se la realtà sia quella di quando da bambini erano così strettamente legati oppure quella dell'hic et nunc, del qui ed ora, con lei sposata ed un oceano che li separa. Queste stesse domande se le pone anche Marcel Proust nella sua ricerca del tempo perduto, senza darsi una risposta. Ma il colloquio fra i due si svolge sì nel presente, nel parco del ponte di Brooklyn, avendo però come sfondo il Jane's Carousel, una giostra che rimanda all'infanzia; passato e presente quindi convivono, misteriosamente amalgamandosi e confondendosi, sembra volerci dire la regista, come se la realtà fosse un tutt'uno.

Da queste considerazioni si ricava come questo film, delicato e intelligente, vada al di là della storia dei due protagonisti, narrata con una freschezza e una spontaneità non frequenti, coinvolgendo appunto tematiche di ampio respiro. Pensiamo anche a come risponde la madre di Nora (Ji Hye Yoon) a un'amica che le chiede perché intenda lasciare per sempre la Corea: "Quando lasci qualcosa, trovi qualcosa d'altro" ricordandoci come nella vita non si debba temere il cambiamento. O ancora a come le prospettive della vita cambino: Nora bambina a 12 anni vuole vincere un Nobel, a 24 anni ripiega su un Pulitzer e a 36, scherzando, si accontenterebbe di un Tony, premio dedicato ad artisti di teatro. Ma tornando alla storia personale dei due protagonisti è inevitabile chiedersi, all'uscita dal cinema, quale possa essere il rapporto fra Hae Sung, Nora ed il marito Arthur (John Magaro) dopo la visita del primo a New York. A questo proposito la regista ci lascia dei segni inequivocabili: quando i due da bambini giuocano nel parco del Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Seul li vediamo arrampicarsi sulla statua di Ilho Lee "Un nuovo sguardo sull'essere", dove due profili stilizzati si guardano fissamente; al contrario, quando si incontrano a New York dopo 24 anni al parco di Madison Avenue, fa da sfondo al loro incontro la statua dell'ammiraglio Farragut (Stanford White, 1881) alla base della quale sono presenti in bassorilievo due figure che guardano in direzioni opposte, significando vicinanza nell'infanzia e separazione nell'età adulta. Ma due sequenze, quella in metropolitana (v. manifesto) e quella dell'attesa della macchina che porterà Hae Sung all'aeroporto, ci fanno capire senza necessità di parole il sentimento che li lega, come pure l'abbraccio di Arthur e Nora dopo la partenza di Hae Sung, con lui che la cinge affettuosamente e lei che rimane rigida e piangente con le braccia distese lungo i fianchi. Insomma, l'In-Yun ancora lega Nora e Hae Sung, ma il loro destino terreno è di seguire vie diverse come ci ricorda il flashback del loro addio da bambini a Seul, ognuno per la sua strada.  

giovedì 8 febbraio 2024

“The Holdovers”, Alexander Payne (2023)

Con questo film Alexander Payne riprende l’analisi a lui cara della vita di tutti i giorni di persone comuni ed anche questa volta, come in “Election” (1999) ed in “Nebraska" (2013), decide di utilizzare un microcosmo, questa volta decisamente claustrofobico, composto da tre personaggi costretti a passare soli soletti due settimane delle vacanze natalizie al college Barton nel New England. Paul Hanham (Paul Giamatti), insegnante, e Mary Lamb (Da’Vine Joy Randolph), cuoca, sono in veste di custodi e Angus Tully (Dominic Sessa), studente, in veste di ospite forzato. Ciò che accomuna questi tre soggetti (ben definiti dal titolo, azzeccato ma non facilmente traducibile, forse “I lasciati indietro” riesce a rendere l’idea) è una vita tragica: il primo ha avuto la carriera irrimediabilmente rovinata per una falsa accusa di plagio durante gli studi ad Harvard ed ora insegna storia antica avendo come superiore un suo ex-allievo, la seconda ha appena perso il figlio ventenne Curtis verosimilmente in Vietnam (siamo alla fine del 1970), il cui cognome, Lamb (agnello in inglese), lo caratterizza come innocente vittima sacrificale di quella guerra, e l’ultimo abbandonato dalla madre che preferisce andare in vacanza con il neo-marito, mentre il precedente, padre di Angus, è ricoverato in una struttura psichiatrica per una grave psicosi schizofrenica. 
Come reagiscono questi personaggi a queste sventure, come riescono ad arrampicarsi sulla scala da pollaio della vita, per usare una metafora cara a Paul? 
Quest’ultimo si rifugia nello studio e nutre un non celato disprezzo nei confronti degli allievi, considerati tutti ricchi, aristocratici ed ignoranti (proprio come colui che lo accusò falsamente ad Harvard e fu creduto grazie al suo status economico-sociale); non a caso ha un particolare interesse per il pessimismo stoico di Marco Aurelio, di cui regala ai colleghi di reclusione il libro “Colloqui con se stesso”, summa del pensiero dell’imperatore-filosofo. 
La seconda esibisce un cinismo sarcastico che non le appartiene e si nasconde dietro una nuvola di fumo e whisky con la quale cerca di nascondersi la verità: se fosse stata benestante come i genitori dei ragazzi del college avrebbe potuto iscrivere Curtis all’università evitandogli la partenza per il Vietnam e quindi lo avrebbe ancora con sé. 
Il terzo invece, da buon adolescente, sfoga apertamente la sua rabbia nei confronti del mondo. 
E il miracolo che Payne riesce a compiere nel corso della narrazione, svolta come sua abitudine senza usare toni alti o effetti speciali un po’ come un quadro di Edward Hopper, è quello di riuscire a trasformare questi tre iceberg che sembrano appunto destinati a distruggersi cozzando l’un contro l’altro in esseri umani che si aiutano a vicenda, che soffrono e ridono insieme, che si capiscono e in definitiva, finalmente, si amano. Certo, è un’operazione faticosa per questi piccoli ma grandi uomini (+ una donna) cui il regista dedica appunto uno spezzone dell’omonimo film di Arthur Penn del 1970. Tutti e tre quindi escono trasformati da queste due settimane: Paul rompe il guscio di algida dignità che si era costruito e ricorre metaforicamente al suo occhio buono (ha un forte strabismo) mentendo per salvare Angus dall’espulsione dal college, Mary ritrova la gioia di vivere pensando al nipotino in arrivo, per il quale mette da parte il corredino che era stato del figlio, e Angus riprende la sua carriera scolastica, grato a Paul del salvataggio e pronto ad affrontare la scala da pollaio della vita con la dovuta fermezza ed energia.  

sabato 3 febbraio 2024

“Povere creature!”, Yorgos Lanthimos (2023)

 

Per sviluppare le tematiche trattate nel suo ultimo film Yorgos Lanthimos utilizza una triade di personaggi che impersona il diverso modo dell’Umanità di atteggiarsi nei confronti della vita e del mondo. 
Il dott. Godwin Baxter (Willem Defoe) vive per la scienza e la ricerca, si situa quindi all’estremo più razionale del modo di vivere. 
A Bella Baxter/Victoria Blessington (Emma Stone) Godwin ha trapiantato nel cranio il  cervello del feto che essa portava in grembo, dopo averla ripescata quasi morta dal fiume dove si era gettata per un assoluto rifiuto della maternità; Bella rappresenta quindi l’estremo emotivo ed irrazionale della Weltanschauung umana, anche perché si comporta ovviamente in tutto e per tutto come un bambino, al cui sviluppo mentale, con conseguente modificazione comportamentale, assistiamo nel corso della narrazione. 
Ed infine, fra i due estremi si situa il dott. Max McCandles (Ramy Youssef), allievo di Godwin, in cui convivono le passioni e quindi l’amore in particolare per Bella e l’interesse per la scienza e quindi la razionalità. 
Collateralmente abbiamo altri personaggi che impersonano particolari atteggiamenti nei confronti della vita, ad esempio Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), dedito esclusivamente ai piaceri del sesso e della buona tavola, e Harry Astley (Jerrod Carmichael), cinico e pessimista in merito alle possibilità di redenzione dell’Umanità. 
Nel descrivere questa Comedie Humaine il regista focalizza l’attenzione sul progressivo sviluppo mentale di Bella che si trasforma da bambina capricciosa incapace di sentir ragioni e dedita senza scrupoli ai piaceri del corpo (mangiare e, più tardi, autoerotismo) a un essere raziocinante, interessato alla cultura  e alle pratiche scientifiche di Godwin, in cui ella vede sia un Dio vincente (God-win) che un padre, piegandole alle sue necessità ed ai suoi voleri. Ecco quindi che in Bella, una volta maturata sul piano cerebrale, compaiono tutti gli aspetti che abbiamo visto descritti negli altri personaggi, ad evidenziare il mix di atteggiamenti nei confronti della vita e del mondo che caratterizza gli esseri umani. Un mix in cui possono prevalere aspetti negativi, ad esempio la vendetta che Bella esercita nei confronti del marito (Christopher Abbott), con un intervento di trapianto cerebrale da una capra. E che il mondo sia fatto a scale (chi le scende e chi le sale) è anche dimostrato dall’atteggiamento sprezzantemente imperioso della domestica Prim (Vicki Pepperdine) nei confronti di Felicity (Margaret Qualley), anch’essa vittima di un trapianto di cervello ad opera di Godwin, quando alla fine del film le ordina di andare a prendere l’acqua per l’uomo-capra. A conti fatti dobbiamo dare quindi ragione al cinismo di Harry Astley.
Per completezza va citato anche il tema per cui questo film è universalmente acclamato e cioè la libertà, libertà di liberarsi del marito tirannico e di annientare Wedderburn, libertà di emanciparsi attraverso la lettura (non a caso Bella legge Ralph Waldo Emerson) e di iscriversi alla facoltà di Medicina. Libertà letta quindi al femminile, un tema molto (forse troppo) trattato, probabilmente anche per correttezza politica.



domenica 7 gennaio 2024

Passato e presente in “One Life” (James Hawes, 2023) e “Perfect Days” (Wim Wenders, 2023)



È difficile pensare a due persone così diverse come il Signor Hirayama (Kōjy Yakusho), protagonista di “Perfect Days”, e Sir Nicholas Winton (Anthony Hopkins), protagonista di “One Life”. Vero, ma vi è un punto di contatto fra le loro vicende, pur se ambientate in contesti radicalmente diversi, di non poco rilievo.

Hirayama vive felicemente in un eterno presente fatto di gesti e situazioni uguali, ma non identiche: non a caso fotografa tutti i giorni lo stesso albero alla stessa ora, a dimostrare che nulla è identico da un giorno all’altro, un evidente richiamo al film “Smoke” (Wayne Wang, 1995). Il suo passato è oscuro, ma qualcosa si può intravedere dalle sue abitudini, ad esempio legge un autore non facile come William Faulkner ed è quindi persona colta. Inoltre, apprendiamo gradualmente di un distacco probabilmente traumatico dalla famiglia di origine, ma tutto ciò non lo turba e tutte le mattine lo vediamo uscire con un sorriso sulle labbra per pulire i bagni pubblici di Tokyo, possibile metafora della sua capacità di scrostarsi di dosso il passato. Ma, come dice appunto Faulkner, Il passato non è morto, anzi non è mai passato (Requiem per una monaca, 1951) e così avviene ad Hirayama, con la comparsa della nipote Nina che incrina la sue abitudini, ulteriormente incrinate dall’abbandono del suo collaboratore al lavoro e dall’incontro fra la proprietaria del bar che abitualmente frequenta e l’ex marito, come se il fatto di vederla abbracciata ad un uomo e non dietro il banco fosse un drastico cambiamento. E il film si chiude su una lunga inquadratura di Hirayama al volante del suo furgoncino mentre sul suo volto si alternano il sorriso ed il pianto, a significare che, volente o nolente, egli è tornato nelle vesti di un essere umano. Che la sua felicità perenne fosse fittizia ce lo dice in effetti anche l’assonanza fra il titolo del film e la canzone di Lou Reed che Hirayama ascolta, “Perfect Day”, il cui testo parla di un giorno appunto perfetto, ma solo grazie alla compagnia dell’eroina.  In definitiva, l’utopia di vivere un eterno presente si disvela con estrema chiarezza.

Nicholas Winton vive invece in preda al ricordo del passato che anche in questo caso non passa. Egli non riesce infatti a dimenticare di non essere riuscito a completare il suo tentativo di portare in salvo in Inghilterra tutti i bambini ebrei di Praga, minacciati dall’incombente invasione della Cecoslovacchia da parte dei nazisti, nonostante fosse riuscito a salvarne più di 600. Per sua fortuna la vicenda viene a conoscenza dei conduttori di un programma della BBC (non a caso intitolato “That’s Life”: Questa è la Vita) che riescono a fargli incontrare in una puntata gran parte degli (ex)bambini da lui salvati, ora adulti felicemente sposati e con figli. Questo incontro rappresenta per Winton la presa di coscienza del bene che è riuscito a fare nell’unica vita ("One Life") che gli è stata concessa e lo riconcilia con i fantasmi del passato.

Come possiamo allora rapportarci con il passato ed il presente? A parte le ovvie differenze nella vita dei singoli individui, il presente, seppur fugace o addirittura inesistente come insegna Henri Bergson, è l’aspetto più importante della vita; se non si vive bene l’hic et nunc il qui ed ora, non si può essere felici, come ricorda Wislawa Szymborska nell’incipit della sua poesia “Disattenzione”:

Ieri mi sono comportata male nel cosmo

Ho passato tutto il giorno senza fare domande

Senza stupirmi di niente.

Ho svolto attività quotidiane

Come se ciò fosse tutto dovuto...

Ma il passato è necessario, senza di esso non è possibile interpretare il presente e costruire un futuro ed ecco infatti come Søren Kierkegaard ce lo ricorda Vivere nel ricordo è il modo più compiuto di vita che si possa immaginare; il ricordo sazia più di tutta la realtà e ha una certezza che nessuna realtà possiede. E quindi sta a noi trovare il giusto equilibrio nel vedere il passato, vivere il presente e naturalmente programmare il futuro.