sabato 29 giugno 2024

"The Animal Kingdom", Thomas Cailley (2023)

In tutto il mondo si verificano mutazioni senza causa apparente che trasformano gli esseri umani in soggetti mostruosi, di aspetto animalesco. Lena, moglie e madre rispettivamente di François (Romain Duris) ed Émile (Paul Kircher), è ricoverata in un ospedale dedicato al trattamento di queste metamorfosi, ma in occasione di un incidente stradale verificatosi durante il trasferimento in un'altra sede, riesce a fuggire dall'ambulanza insieme ad un numero imprecisato di altri mutanti. François ed Émile si mettono alla ricerca di Lena, il primo più convinto del secondo; nel corso della narrazione Émile inizia a presentare i segni di una lenta metamorfosi, verosimilmente in un lupo. Questa è in sintesi la trama del film che potrebbe far pensare ad un horror-fantasy come tanti, mentre in realtà offre lo spunto per considerazioni interessanti.

In primo luogo consideriamo le metamorfosi nel mondo antico ed in particolare per qual motivo gli dei provocavano questi fenomeni negli esseri umani. I motivi erano in genere due: punizione/invidia o salvataggio da un pericolo; un esempio del primo è la trasformazione della ninfa Callisto in orsa da parte di Artemide poiché era rimasta incinta contravvenendo alle regole imposte dalla sua condizione e del secondo la trasformazione di Dafne, insidiata da Apollo, in cespuglio di lauro. È possibile trovare un rapporto causa-effetto di questo tipo anche nel film? Il regista ce lo suggerisce inserendo nella narrazione frequenti osservazioni di François in merito alla pessima qualità dei prodotti alimentari che consumiamo, spinti da una pubblicità pervasiva. Le mutazioni potrebbero essere correlate agli alimenti che consumiamo e rappresentare quindi una punizione nei confronti del genere umano per i disastri da esso provocati nella catena alimentare dal desiderio di guadagni sempre maggiori.   

Non mancano evidenti allusioni alla paura nei confronti del diverso, in questo caso i mutanti, sempre considerato un potenziale e verosimile pericolo, come già visto molti anni fa sia nel cinema con "Freaks" (Todd Browning, 1932) che in letteratura con "Frankenstein" (Mary Shelley, 1818). Il motivo di questa paura è presto detto: il diverso rappresenta un cambiamento ed il cambiamento è istintivamente contrario alla natura umana, di per sé portata alla conservazione dello status quo che conferisce sicurezza; chi può infatti garantire a priori che un cambiamento sarà sicuramente per il meglio e non per il peggio? Va detto che i mutanti del film non hanno un atteggiamento proprio amichevole nei confronti degli umani, ma questo è dovuto a come essi vengono trattati, cioè rinchiudendoli con la forza e sottoponendoli a trattamenti di dubbia utilità contro il loro volere. In effetti il diverso, si pensi ad esempio agli immigrati dei nostri tempi, si trova molto frequentemente in condizioni di difficoltà economica, di isolamento sociale, di disoccupazione per cui un comportamento non propriamente ortodosso da parte sua non deve stupire.  

Un ultimo commento sul titolo. Si potrebbe essere portati a pensare che il “Regno Animale" sia quello dei mutanti, ma non è così. Esseri umani ed animali fanno infatti biologicamente tutti parte del “Regno Animale" e quindi forse questo titolo è un messaggio di integrazione fra di essi che il regista ci ha voluto dare. Più pessimisticamente potremmo invece pensare che gli animali del titolo siano in realtà gli esseri umani, così definiti per la ferocia che essi dimostrano nei confronti dei mutanti, essendo la ferocia spesso definita un comportamento "da animali".

martedì 4 giugno 2024

“I Dannati”, Roberto Minervini (2024)

Quest'opera di Roberto Minervini si aggiunge ad una lunga lista di film sulla guerra spesso caratterizzati da una particolare prospettiva in merito al tema. Pensiamo ad esempio a “Orizzonti di gloria" (Stanley Kubrick, 1957) che narra la follia delle decisioni prese dagli alti comandi con le relative conseguenze catastrofiche per i soldati, a “Salvate il soldato Ryan" (Steven Spielberg, 1998) che sottolinea l'importanza della vita del singolo individuo nella massa informe della truppa e che va ricordato anche per il terrificante realismo con cui rende lo sbarco in Normandia, o a “1917” (Sam Mendes, 2019) che utilizza la trama bellica per raccontare una storia di formazione, narrando come l'esperienza della guerra cambi radicalmente (in positivo) il modo di un singolo soldato di vivere la vita.

Il film di Minervini narra la storia di un battaglione di soldati confederati (siamo nel 1862, durante la guerra civile americana) mandati ad esplorare territori ad ovest. Un tema rilevante della narrazione è la fatica del "lavoro" quotidiano della guerra, aspetto già evidente nel poster a fianco che ci mostra di spalle soldati in colonna che procedono ingobbiti sotto un cielo grigio e nuvoloso verso un orizzonte senza fine, destinati ad una fatica di Sisifo di cui non è a loro del tutto chiaro il senso. E che il senso non sia chiaro, o comunque non uguale per tutti, è evidente dai dialoghi fra questi soldati, dialoghi scarni ed essenziali, che ci spiegano perché essi, ragazzi e adulti, hanno deciso di arruolarsi. C’è chi cercava un'occupazione, chi ha voluto seguire il padre, chi ritiene di aver fatto una scelta eticamente giusta, chi adduce una motivazione religiosa. Minervini insiste inoltre, ed è anche questa una caratteristica di quest'opera, sul freddo e la sporcizia che questi uomini sembrano dare per scontati, da essi non sentiamo mai infatti un lamento, come se sapessero di essere condannati a questa vita (ma il regista li definisce giustamente dannati cioè destinati a ciò che vivono e non condannati, termine che implicherebbe invece una punizione con conseguente possibilità di redenzione). Insieme a queste tematiche, la guerra anche qui compare, con una lunga sequenza su uno scontro a fuoco della quale vale la pena sottolineare due aspetti. In primo luogo il diverso atteggiamento dei vari soldati: chi si getta all'attacco, chi sta al riparo e da lì spara, chi si rifugia in una buca finché tutto finisce, il tutto per dirci che in condizioni estreme, nonostante la comune appartenenza, riemerga l'individualismo. L’altro aspetto importante è l'anonimità del nemico: i soldati sparano verso fiammate che provengono dai cespugli ma non hanno la minima idea di chi siano le persone cui stanno sparando, un’altra assurdità della guerra: uccidere sconosciuti che nella vita normale potrebbero esserci indifferenti o addirittura essere nostri cari amici. Fortunatamente il regista ci lascia alla fine con una nota di ottimismo, quando in chiusura uno dei due soldati mandati in avanscoperta alza lo sguardo al cielo sotto una nevicata mista ad un tenue raggio di sole ed esclama: "Che serenità!" per farci ricordare che la speranza, ultima dea, non deve mai essere abbandonata poiché anche la guerra, come il tempo gelido e nuvoloso che ha accompagnato i protagonisti per tutto il film, passerà. 

giovedì 30 maggio 2024

"Mr Ripley: variazioni sul tema fra 1960 e 2024"

La saga di Tom Ripley, ispirata ai 5 romanzi scritti da Patricia Highsmith a partire dagli anni ’50, è costituita da tre produzioni principali, oltre ad alcuni sequel opera di registi importanti fra cui Wim Wenders e Liliana Cavani, rappresentate in ordine cronologico da due film, “Delitto in pieno sole” (René Clément 1960) e “Il talento di Mr Ripley” (Anthony Minghella, 1999) e dalla recente serie Netflix “Ripley” (Steven Zaillian, 2024).

Il nocciolo della storia è lo stesso nelle tre opere: Tom Ripley è un ladruncolo di mezza tacca che viene fortuitamente incaricato da un ricco americano, Mr Greenleaf, di riportare a casa il figlio che vive in Italia insieme alla fidanzata Marge nell’ozio e negli agi a carico del padre. Una volta giunto in Italia e introdottosi con l'inganno nell’ambiente di Greenleaf junior, Ripley si rende ben presto conto di poter manipolare la situazione a proprio vantaggio quindi lo uccide e, sfruttando la propria abilità di falsario, ne assume l'identità, passando il resto della narrazione a sfuggire alla polizia. Se è vero che la struttura della vicenda è la stessa nelle tre produzioni, vi sono dei particolari più o meno evidenti che le distinguono, in particolare per quel che riguarda la figura di Ripley. 

L’aspetto comune alle tre versioni è il desiderio mimetico nella definizione di René Girard; in sintesi, il filosofo francese propone che ogni essere umano provi il desiderio di qualcosa perché la vede in possesso di altri; ciò implica in qualche misura il desiderio di essere come colui che possiede la cosa, da cui il termine “mimetico”. In aggiunta al desiderio mimetico interviene in un secondo tempo l’odio per colui che possiede la cosa desiderata, se non si riesce ad ottenerla. Ripley ambisce ad ottenere lo status socio-economico di Greenleaf jr (a dimostrazione di ciò vedi il tentativo puerile di imitarlo contemplandosi allo specchio con addosso i suoi abiti), ma non ha modo di farlo a meno di ucciderlo e prendere la sua identità; in questo modo la mimesi diviene perfetta. Iniziamo a questo punto a vedere qualche differenza fra le tre versioni. In quella di Clément Ripley si rende conto, ascoltando una conversazione fra Greenleaf jr e Marge, che il primo si è stancato di averlo fra i piedi, in quella di Minghella Ripley è sessualmente attratto da Greenleaf jr, ma viene da lui bruscamente respinto, mentre in quella di Zaillian Greenleaf jr sbeffeggia platealmente i gusti di Ripley (vedi la vestaglia da lui scelta). Si tratta ovviamente in ognuno di questi casi di motivi che aumentano l'odio di quest’ultimo per il primo. 

Altre due differenze significative le troviamo nella scelta dell’attore per la parte di Tom e nell’ambientazione. Clément e Minghella optano per attori di bell’aspetto (Alain Delon e Matt Damon, rispettivamente), allegri e ciarlieri e per una ambientazione estiva e soleggiata, mentre Zaillian sceglie un attore di aspetto dimesso (Andrew Scott), quasi impiegatizio, ed una ambientazione invernale, esaltata dall’impiego del bianco e nero. Sicuramente la scelta di Zaillian è la più audace, non potendo contare sull’attrazione esercitata da splendidi e soleggiati paesaggi italiani (soprattutto per il pubblico estero) e su protagonisti fascinosi, ma è anche la più efficace nel rendere quella che Hannah Arendt, a proposito dei gerarchi nazisti, definì la banalità del male cioè la mancanza di grandiosità che spesso caratterizza chi compie azioni efferate ed i processi mentali di Ripley, mai allegro e ciarliero, ma sempre concentrato nel programmare le prossime mosse di una vita pericolosa in fuga perenne, non a caso paragonata a quella di Caravaggio, anch’egli assassino e fuggitivo, per le cui opere Ripley nutre un’attrazione ossessiva.





 

giovedì 16 maggio 2024

“Delta”, Michele Vannucci (2022)

Questa storia drammatica, dura come l’ambiente in cui si svolge vale a dire le nebbie del delta del Po d'inverno, ha contenuti molto interessanti che vale la pena considerare.

Sullo sfondo prevale la disperazione dettata dalla miseria. I pescatori di frodo rumeni, costretti a trasferirsi nel delta perché braccati in patria dalla polizia, Anna (Emilia Scarpati) che, alla disperata ricerca di un rapporto d’amore dopo il fallimento del matrimonio con Osso (Luigi Lo Cascio), si getta d'impulso nelle braccia di Elia (un ottimo Alessandro Borghi), pescatore di frodo locale del cui passato nulla sappiamo e che ora vive e lavora (“Sono la mia famiglia” dice) in una baracca sul fiume con i pescatori rumeni. E la miseria porta alla rabbia, in preda alla quale alcuni pescatori italiani incitano amici e colleghi all’eliminazione fisica dei rumeni. 

In questo mondo di gente che non ha nulla è paradossalmente forte il valore della proprietà. Quante volte sentiamo il capo dei rumeni esclamare “Questa è la mia casa”, casa in cui peraltro si era installato abusivamente, quante volte i pescatori italiani affermano che il Po è il loro fiume, anche questa una affermazione priva di senso. Queste dichiarazioni di possesso ci fanno capire come sia molto difficile, se non impossibile, soprattutto in condizioni di depressione economica, realizzare condivisione ed integrazione. È questo un tema di grande attualità, basti pensare alle difficoltà legate ai fenomeni migratori.

Un ultimo aspetto da sottolineare è quello morale, che possiamo ricavare dal comportamento di Osso. Per tutta la prima parte del film egli svolge il suo ruolo di guardia ittica volontaria con estremo rigore e rispetto delle leggi, cercando in modo ossessivo di essere obiettivo, fino a ritenere che la morìa di pesci non sia dovuta alla pesca di frodo ma agli scarichi delle industrie. Egli si oppone quindi alla combattiva sorella Nina (Greta Esposito) che parteggia per chi vuol farsi giustizia da solo. Ma nel finale drammatico tutto cambia. L’uccisione di Nina da parte di Elia ad un posto di blocco stravolge le convinzioni di Osso che arriva ad uccidere Elia per pura vendetta, per di più sparandogli alle spalle. Questa è la conclusione pessimistica: nessuno è in grado di dominare gli istinti peggiori, conclusione che Elia sintetizza prima di morire in una  frase semplice ma densa di significato “Passiamo la vita a combattere contro noi stessi per diventare migliori, ma siamo quello che siamo”. A queste parole sembra fare eco il paesaggio, per buona parte del film cupo e nebbioso, ma che in una breve sequenza viene ravvivato dal volo dei fenicotteri in una giornata di sole, come per volerci dire in metafora che anche la natura combatte contro se stessa per essere migliore.     

 

giovedì 25 aprile 2024

Il Bene contro il Male nel cinema moderno di fantascienza: Psiche vs Techne


La lotta fra il Bene e il Male è un tema comune a tutte le manifestazioni artistiche di ogni genere e di ogni epoca. Credo sia interessante valutare come esso viene affrontato nell’ambito di quattro saghe cinematografiche di fantascienza uscite nell’arco degli ultimi 50 anni: Guerre stellari (1977), Dune (1984), Terminator (1984), Matrix (1999).

Il tema comune delle quattro saghe è la minaccia di una distruzione dell’Umanità, o di un suo totale asservimento ad un regime totalitario, ad opera di esseri umani (Guerre stellari, Dune) o macchine (Terminator, Matrix). In tutti i quattro casi citati la difesa dell'Umanità è affidata ad un Eletto le cui caratteristiche sono costanti: si tratta invariabilmente di un giovane maschio (rispettivamente Luke Skywalker, Paul Atreides, John Connor, Thomas Anderson) del tutto ignaro di essere predestinato a svolgere un ruolo salvifico per l’Umanità e che addirittura fatica ad accettarlo sia perché non vuole convincersi di essere l’Eletto sia poiché teme di non essere all’altezza di questo compito. E per convincere questo giovane del suo destino ed allenarlo al compimento della sua missione è sempre presente la figura del Mentore (rispettivamente Yoda, Duncan Idaho, il robot della serie T, Morpheus).  

Questi Eletti hanno tutti evidenti caratteri trascendenti, essi sono infatti dotati di caratteristiche che, opportunamente sviluppate, li rendono superiori agli esseri umani. Ad esempio, Luke Skywalker, come tutti i cavalieri Jedi, è dotato della Forza, una caratteristica che va sì perfezionata con un adeguato allenamento ma che non si può acquisire, essendo necessaria per possederla una misteriosa predisposizione. Paul Atreides riesce a non morire dopo aver bevuto l’Acqua della Vita, contrariamente a tutti i maschi che compivano questo tentativo. Dopo questa impresa egli acquisisce la capacità di vedere il futuro, caratteristica fino ad allora esclusivo appannaggio delle Madri Reverende Bene Gesserit. Thomas Anderson può essere definito addirittura una figura cristologica poiché alla fine del terzo episodio di Matrix muore per salvare il genere umano, per poi resuscitare nel quarto. Sembra quindi che la presenza di una figura trascendente che riporti all’Età dell’Oro di una Umanità quasi divina sia necessaria per opporsi al Male che regolarmente utilizza tecnologie belliche raffinate. E questo stato di quasi-divinità degli Eletti  è ulteriormente sottolineato da un evidente richiamo alla religione: proprio come avviene nelle tre religioni monoteistiche tutti gli Eletti sono infatti maschi. 

Si potrebbe dire, parafrasando il titolo del libro di Umberto Galimberti, che nella lotta eterna fra il Bene e il Male, la nostra società, che il cinema rispecchia, sente lesigenza di fare appello alla sua componente spirituale (Psiche) per far fronte  al potenziale pericolo rappresentato dalla componente materiale (Techne). Va però aggiunto che la necessità di un Eletto che risolva i problemi probabilmente non è un buon segno. Da un lato infatti è espressione di una società i cui componenti non hanno sufficienti risorse per affrontare le difficoltà con le proprie forze e dall'altro, attraverso il culto della personalità e dell'"Uno solo al comando", può in linea di principio aprire la strada al totalitarismo. 

venerdì 8 marzo 2024

"La zona di interesse", Jonathan Glazer (2023)


Jonathan Glazer si aggiunge alla lunga lista di registi che hanno narrato della Shoah. Queste narrazioni hanno per lo più avuto come oggetto la vita all'interno di un campo di concentramento con poco o nullo interesse per quanto avviene al di fuori di esso. Le eccezioni furono “Train de vie” (Radu Mihaileanu, 1998) e "Il bambino con il pigiama a righe" (Mark Herman, 2008), seguiti appunto ora da “La zona di interesse”.

Merito evidente di questo film è la capacità di ritrarre efficacemente il concetto di Banalità del Male (Hanna Arendt), dimostrando come gli esecutori delle atrocità della Shoah non fossero (purtroppo) mostri disumani, ma impiegatucci preoccupati solo di far carriera e di farsi raccomandare per non perdere i privilegi acquisiti (la loro "zona di interesse"). E sottolineo "purtroppo" perché, uscendo dal cinema, non possiamo non pensare che la persona che abbiamo a fianco al ristorante o in autobus, ciarliera e sorridente ed accompagnata da coniuge e figli altrettanto ciarlieri e sorridenti, potrebbe essere capace di compiere ciò che sentiamo, e mai vediamo, avvenire al di là del muro della casa di Rudolph Höss (Christian Friedel), a fianco del lager di Auschwitz. E qui emerge l’originalità del film di Glazer, cioè l'aver realizzato, in accordo con il suo passato di regista di videoclip musicali, uno spettacolo di son et lumière in cui appunto la vita del lager è ritratta nei colori, come nel grigio dell’inizio e nel rosso dell’intermezzo (rispettivamente cenere e fumo l’uno e fuoco il secondo, entrambi espressione della morte nel lager), e nei suoni a volte anonimi ma sempre terrificanti quando accompagnano i due colori e a volte invece ben identificabili come le urla e le fucilate incessanti. Solo la suocera di Höss percepisce questo orrore e decide di fuggire senza avvertire nessuno; per gli altri componenti della famiglia, a parte una delle bambine, tutto fa parte della vita di tutti i giorni, come lo è il rimproverare l’aiutante domestica ebrea con la minaccia di bruciarla e spargere le sue ceneri, il commentare ridacchiando gli errori di misura nella scelta degli abiti sottratti ai detenuti ebrei, addirittura il mettersi il rossetto trovato nella tasca della pelliccia sottratta a una detenuta ebrea o anche raccontare alle figlie per addormentarle la feroce punizione inflitta alla strega, gettata viva nel forno, nella fiaba di Hänsel e Gretel. Indifferenza, questa è la parola che meglio spiega questo atteggiamento altrimenti inspiegabile, diverso dalla verosimile non conoscenza di questi fatti da parte del popolo tedesco. E a proposito del popolo tedesco, è difficile non pensare che nelle scene finali del film che ci portano all’oggi, ai musei della Shoah, il mostrarceli mentre vi si fanno le pulizie non voglia significare un desiderio di “lavare via” il passato. 

Finita la proiezione restiamo indubbiamente angosciati da ciò che Glazer ci ha fatto non tanto vedere quanto intuire. Questa angoscia è però moderata dal sentirci migliori di Höss e dei suoi famigliari, dalla consapevolezza che mai e poi mai potremmo per indifferenza comportarci come loro. Ma un dubbio a questo punto dovrebbe farsi strada nella nostra mente: siamo poi così attenti al nostro prossimo in difficoltà? Non siamo in realtà indifferenti verso nostri simili in condizioni di sofferenza che ci passano accanto? Facciamo tutto ciò che potremmo fare per aiutare chi vive nel disagio? Un grande merito di questa pellicola, al di là dei premi che ha vinto e vincerà, è proprio quello di costringerci a guardarci nello specchio e rispondere a queste domande.

domenica 25 febbraio 2024

"Past Lives", Celine Song (2023)


Quali sono le Past Lives (Vite Passate) cui allude il titolo del bel film d'esordio di Celine Song? Da ciò che apprendiamo nel corso della narrazione si può trattare delle molteplici vite che il credo buddista prevede con l'incarnazione dell'anima in corpi diversi (il buddismo in realtà preferisce il termine "rinascita" poiché l'anima, immortale, rinasce ogni volta che entra in un nuovo corpo). A questo concetto però la protagonista femminile Nora Moon (Greta Lee) accosta la parola-chiave 인연 (In-Yun) che in coreano significa a grandi linee "destino" indicando però anche il legame che si crea quando due persone anche semplicemente si sfiorano senza nemmeno conoscersi, legame che rimane nel corso delle molteplici rinascite. Ma vi è anche un secondo significato per questa espressione, "Vite Passate", che si riferisce al passato di ogni singolo individuo, passato che costituisce una vita a sé stante. Ce lo dice chiaramente Nora quando, parlando con il protagonista maschile Hae Sung (Teo Yoo), gli chiede e si chiede se la realtà sia quella di quando da bambini erano così strettamente legati oppure quella dell'hic et nunc, del qui ed ora, con lei sposata ed un oceano che li separa. Queste stesse domande se le pone anche Marcel Proust nella sua ricerca del tempo perduto, senza darsi una risposta. Ma il colloquio fra i due si svolge sì nel presente, nel parco del ponte di Brooklyn, avendo però come sfondo il Jane's Carousel, una giostra che rimanda all'infanzia; passato e presente quindi convivono, misteriosamente amalgamandosi e confondendosi, sembra volerci dire la regista, come se la realtà fosse un tutt'uno.

Da queste considerazioni si ricava come questo film, delicato e intelligente, vada al di là della storia dei due protagonisti, narrata con una freschezza e una spontaneità non frequenti, coinvolgendo appunto tematiche di ampio respiro. Pensiamo anche a come risponde la madre di Nora (Ji Hye Yoon) a un'amica che le chiede perché intenda lasciare per sempre la Corea: "Quando lasci qualcosa, trovi qualcosa d'altro" ricordandoci come nella vita non si debba temere il cambiamento. O ancora a come le prospettive della vita cambino: Nora bambina a 12 anni vuole vincere un Nobel, a 24 anni ripiega su un Pulitzer e a 36, scherzando, si accontenterebbe di un Tony, premio dedicato ad artisti di teatro. Ma tornando alla storia personale dei due protagonisti è inevitabile chiedersi, all'uscita dal cinema, quale possa essere il rapporto fra Hae Sung, Nora ed il marito Arthur (John Magaro) dopo la visita del primo a New York. A questo proposito la regista ci lascia dei segni inequivocabili: quando i due da bambini giuocano nel parco del Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Seul li vediamo arrampicarsi sulla statua di Ilho Lee "Un nuovo sguardo sull'essere", dove due profili stilizzati si guardano fissamente; al contrario, quando si incontrano a New York dopo 24 anni al parco di Madison Avenue, fa da sfondo al loro incontro la statua dell'ammiraglio Farragut (Stanford White, 1881) alla base della quale sono presenti in bassorilievo due figure che guardano in direzioni opposte, significando vicinanza nell'infanzia e separazione nell'età adulta. Ma due sequenze, quella in metropolitana (v. manifesto) e quella dell'attesa della macchina che porterà Hae Sung all'aeroporto, ci fanno capire senza necessità di parole il sentimento che li lega, come pure l'abbraccio di Arthur e Nora dopo la partenza di Hae Sung, con lui che la cinge affettuosamente e lei che rimane rigida e piangente con le braccia distese lungo i fianchi. Insomma, l'In-Yun ancora lega Nora e Hae Sung, ma il loro destino terreno è di seguire vie diverse come ci ricorda il flashback del loro addio da bambini a Seul, ognuno per la sua strada.  

giovedì 8 febbraio 2024

“The Holdovers”, Alexander Payne (2023)

Con questo film Alexander Payne riprende l’analisi a lui cara della vita di tutti i giorni di persone comuni ed anche questa volta, come in “Election” (1999) ed in “Nebraska" (2013), decide di utilizzare un microcosmo, questa volta decisamente claustrofobico, composto da tre personaggi costretti a passare soli soletti due settimane delle vacanze natalizie al college Barton nel New England. Paul Hanham (Paul Giamatti), insegnante, e Mary Lamb (Da’Vine Joy Randolph), cuoca, sono in veste di custodi e Angus Tully (Dominic Sessa), studente, in veste di ospite forzato. Ciò che accomuna questi tre soggetti (ben definiti dal titolo, azzeccato ma non facilmente traducibile, forse “I lasciati indietro” riesce a rendere l’idea) è una vita tragica: il primo ha avuto la carriera irrimediabilmente rovinata per una falsa accusa di plagio durante gli studi ad Harvard ed ora insegna storia antica avendo come superiore un suo ex-allievo, la seconda ha appena perso il figlio ventenne Curtis verosimilmente in Vietnam (siamo alla fine del 1970), il cui cognome, Lamb (agnello in inglese), lo caratterizza come innocente vittima sacrificale di quella guerra, e l’ultimo abbandonato dalla madre che preferisce andare in vacanza con il neo-marito, mentre il precedente, padre di Angus, è ricoverato in una struttura psichiatrica per una grave psicosi schizofrenica. 
Come reagiscono questi personaggi a queste sventure, come riescono ad arrampicarsi sulla scala da pollaio della vita, per usare una metafora cara a Paul? 
Quest’ultimo si rifugia nello studio e nutre un non celato disprezzo nei confronti degli allievi, considerati tutti ricchi, aristocratici ed ignoranti (proprio come colui che lo accusò falsamente ad Harvard e fu creduto grazie al suo status economico-sociale); non a caso ha un particolare interesse per il pessimismo stoico di Marco Aurelio, di cui regala ai colleghi di reclusione il libro “Colloqui con se stesso”, summa del pensiero dell’imperatore-filosofo. 
La seconda esibisce un cinismo sarcastico che non le appartiene e si nasconde dietro una nuvola di fumo e whisky con la quale cerca di nascondersi la verità: se fosse stata benestante come i genitori dei ragazzi del college avrebbe potuto iscrivere Curtis all’università evitandogli la partenza per il Vietnam e quindi lo avrebbe ancora con sé. 
Il terzo invece, da buon adolescente, sfoga apertamente la sua rabbia nei confronti del mondo. 
E il miracolo che Payne riesce a compiere nel corso della narrazione, svolta come sua abitudine senza usare toni alti o effetti speciali un po’ come un quadro di Edward Hopper, è quello di riuscire a trasformare questi tre iceberg che sembrano appunto destinati a distruggersi cozzando l’un contro l’altro in esseri umani che si aiutano a vicenda, che soffrono e ridono insieme, che si capiscono e in definitiva, finalmente, si amano. Certo, è un’operazione faticosa per questi piccoli ma grandi uomini (+ una donna) cui il regista dedica appunto uno spezzone dell’omonimo film di Arthur Penn del 1970. Tutti e tre quindi escono trasformati da queste due settimane: Paul rompe il guscio di algida dignità che si era costruito e ricorre metaforicamente al suo occhio buono (ha un forte strabismo) mentendo per salvare Angus dall’espulsione dal college, Mary ritrova la gioia di vivere pensando al nipotino in arrivo, per il quale mette da parte il corredino che era stato del figlio, e Angus riprende la sua carriera scolastica, grato a Paul del salvataggio e pronto ad affrontare la scala da pollaio della vita con la dovuta fermezza ed energia.  

sabato 3 febbraio 2024

“Povere creature!”, Yorgos Lanthimos (2023)

 

Per sviluppare le tematiche trattate nel suo ultimo film Yorgos Lanthimos utilizza una triade di personaggi che impersona il diverso modo dell’Umanità di atteggiarsi nei confronti della vita e del mondo. 
Il dott. Godwin Baxter (Willem Defoe) vive per la scienza e la ricerca, si situa quindi all’estremo più razionale del modo di vivere. 
A Bella Baxter/Victoria Blessington (Emma Stone) Godwin ha trapiantato nel cranio il  cervello del feto che essa portava in grembo, dopo averla ripescata quasi morta dal fiume dove si era gettata per un assoluto rifiuto della maternità; Bella rappresenta quindi l’estremo emotivo ed irrazionale della Weltanschauung umana, anche perché si comporta ovviamente in tutto e per tutto come un bambino, al cui sviluppo mentale, con conseguente modificazione comportamentale, assistiamo nel corso della narrazione. 
Ed infine, fra i due estremi si situa il dott. Max McCandles (Ramy Youssef), allievo di Godwin, in cui convivono le passioni e quindi l’amore in particolare per Bella e l’interesse per la scienza e quindi la razionalità. 
Collateralmente abbiamo altri personaggi che impersonano particolari atteggiamenti nei confronti della vita, ad esempio Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), dedito esclusivamente ai piaceri del sesso e della buona tavola, e Harry Astley (Jerrod Carmichael), cinico e pessimista in merito alle possibilità di redenzione dell’Umanità. 
Nel descrivere questa Comedie Humaine il regista focalizza l’attenzione sul progressivo sviluppo mentale di Bella che si trasforma da bambina capricciosa incapace di sentir ragioni e dedita senza scrupoli ai piaceri del corpo (mangiare e, più tardi, autoerotismo) a un essere raziocinante, interessato alla cultura  e alle pratiche scientifiche di Godwin, in cui ella vede sia un Dio vincente (God-win) che un padre, piegandole alle sue necessità ed ai suoi voleri. Ecco quindi che in Bella, una volta maturata sul piano cerebrale, compaiono tutti gli aspetti che abbiamo visto descritti negli altri personaggi, ad evidenziare il mix di atteggiamenti nei confronti della vita e del mondo che caratterizza gli esseri umani. Un mix in cui possono prevalere aspetti negativi, ad esempio la vendetta che Bella esercita nei confronti del marito (Christopher Abbott), con un intervento di trapianto cerebrale da una capra. E che il mondo sia fatto a scale (chi le scende e chi le sale) è anche dimostrato dall’atteggiamento sprezzantemente imperioso della domestica Prim (Vicki Pepperdine) nei confronti di Felicity (Margaret Qualley), anch’essa vittima di un trapianto di cervello ad opera di Godwin, quando alla fine del film le ordina di andare a prendere l’acqua per l’uomo-capra. A conti fatti dobbiamo dare quindi ragione al cinismo di Harry Astley.
Per completezza va citato anche il tema per cui questo film è universalmente acclamato e cioè la libertà, libertà di liberarsi del marito tirannico e di annientare Wedderburn, libertà di emanciparsi attraverso la lettura (non a caso Bella legge Ralph Waldo Emerson) e di iscriversi alla facoltà di Medicina. Libertà letta quindi al femminile, un tema molto (forse troppo) trattato, probabilmente anche per correttezza politica.



domenica 7 gennaio 2024

Passato e presente in “One Life” (James Hawes, 2023) e “Perfect Days” (Wim Wenders, 2023)



È difficile pensare a due persone così diverse come il Signor Hirayama (Kōjy Yakusho), protagonista di “Perfect Days”, e Sir Nicholas Winton (Anthony Hopkins), protagonista di “One Life”. Vero, ma vi è un punto di contatto fra le loro vicende, pur se ambientate in contesti radicalmente diversi, di non poco rilievo.

Hirayama vive felicemente in un eterno presente fatto di gesti e situazioni uguali, ma non identiche: non a caso fotografa tutti i giorni lo stesso albero alla stessa ora, a dimostrare che nulla è identico da un giorno all’altro, un evidente richiamo al film “Smoke” (Wayne Wang, 1995). Il suo passato è oscuro, ma qualcosa si può intravedere dalle sue abitudini, ad esempio legge un autore non facile come William Faulkner ed è quindi persona colta. Inoltre, apprendiamo gradualmente di un distacco probabilmente traumatico dalla famiglia di origine, ma tutto ciò non lo turba e tutte le mattine lo vediamo uscire con un sorriso sulle labbra per pulire i bagni pubblici di Tokyo, possibile metafora della sua capacità di scrostarsi di dosso il passato. Ma, come dice appunto Faulkner, Il passato non è morto, anzi non è mai passato (Requiem per una monaca, 1951) e così avviene ad Hirayama, con la comparsa della nipote Nina che incrina la sue abitudini, ulteriormente incrinate dall’abbandono del suo collaboratore al lavoro e dall’incontro fra la proprietaria del bar che abitualmente frequenta e l’ex marito, come se il fatto di vederla abbracciata ad un uomo e non dietro il banco fosse un drastico cambiamento. E il film si chiude su una lunga inquadratura di Hirayama al volante del suo furgoncino mentre sul suo volto si alternano il sorriso ed il pianto, a significare che, volente o nolente, egli è tornato nelle vesti di un essere umano. Che la sua felicità perenne fosse fittizia ce lo dice in effetti anche l’assonanza fra il titolo del film e la canzone di Lou Reed che Hirayama ascolta, “Perfect Day”, il cui testo parla di un giorno appunto perfetto, ma solo grazie alla compagnia dell’eroina.  In definitiva, l’utopia di vivere un eterno presente si disvela con estrema chiarezza.

Nicholas Winton vive invece in preda al ricordo del passato che anche in questo caso non passa. Egli non riesce infatti a dimenticare di non essere riuscito a completare il suo tentativo di portare in salvo in Inghilterra tutti i bambini ebrei di Praga, minacciati dall’incombente invasione della Cecoslovacchia da parte dei nazisti, nonostante fosse riuscito a salvarne più di 600. Per sua fortuna la vicenda viene a conoscenza dei conduttori di un programma della BBC (non a caso intitolato “That’s Life”: Questa è la Vita) che riescono a fargli incontrare in una puntata gran parte degli (ex)bambini da lui salvati, ora adulti felicemente sposati e con figli. Questo incontro rappresenta per Winton la presa di coscienza del bene che è riuscito a fare nell’unica vita ("One Life") che gli è stata concessa e lo riconcilia con i fantasmi del passato.

Come possiamo allora rapportarci con il passato ed il presente? A parte le ovvie differenze nella vita dei singoli individui, il presente, seppur fugace o addirittura inesistente come insegna Henri Bergson, è l’aspetto più importante della vita; se non si vive bene l’hic et nunc il qui ed ora, non si può essere felici, come ricorda Wislawa Szymborska nell’incipit della sua poesia “Disattenzione”:

Ieri mi sono comportata male nel cosmo

Ho passato tutto il giorno senza fare domande

Senza stupirmi di niente.

Ho svolto attività quotidiane

Come se ciò fosse tutto dovuto...

Ma il passato è necessario, senza di esso non è possibile interpretare il presente e costruire un futuro ed ecco infatti come Søren Kierkegaard ce lo ricorda Vivere nel ricordo è il modo più compiuto di vita che si possa immaginare; il ricordo sazia più di tutta la realtà e ha una certezza che nessuna realtà possiede. E quindi sta a noi trovare il giusto equilibrio nel vedere il passato, vivere il presente e naturalmente programmare il futuro.