venerdì 8 marzo 2024

"La zona di interesse", Jonathan Glazer (2023)


Jonathan Glazer si aggiunge alla lunga lista di registi che hanno narrato della Shoah. Queste narrazioni hanno per lo più avuto come oggetto la vita all'interno di un campo di concentramento con poco o nullo interesse per quanto avviene al di fuori di esso. Le eccezioni furono “Train de vie” (Radu Mihaileanu, 1998) e "Il bambino con il pigiama a righe" (Mark Herman, 2008), seguiti appunto ora da “La zona di interesse”.

Merito evidente di questo film è la capacità di ritrarre efficacemente il concetto di Banalità del Male (Hanna Arendt), dimostrando come gli esecutori delle atrocità della Shoah non fossero (purtroppo) mostri disumani, ma impiegatucci preoccupati solo di far carriera e di farsi raccomandare per non perdere i privilegi acquisiti (la loro "zona di interesse"). E sottolineo "purtroppo" perché, uscendo dal cinema, non possiamo non pensare che la persona che abbiamo a fianco al ristorante o in autobus, ciarliera e sorridente ed accompagnata da coniuge e figli altrettanto ciarlieri e sorridenti, potrebbe essere capace di compiere ciò che sentiamo, e mai vediamo, avvenire al di là del muro della casa di Rudolph Höss (Christian Friedel), a fianco del lager di Auschwitz. E qui emerge l’originalità del film di Glazer, cioè l'aver realizzato, in accordo con il suo passato di regista di videoclip musicali, uno spettacolo di son et lumière in cui appunto la vita del lager è ritratta nei colori, come nel grigio dell’inizio e nel rosso dell’intermezzo (rispettivamente cenere e fumo l’uno e fuoco il secondo, entrambi espressione della morte nel lager), e nei suoni a volte anonimi ma sempre terrificanti quando accompagnano i due colori e a volte invece ben identificabili come le urla e le fucilate incessanti. Solo la suocera di Höss percepisce questo orrore e decide di fuggire senza avvertire nessuno; per gli altri componenti della famiglia, a parte una delle bambine, tutto fa parte della vita di tutti i giorni, come lo è il rimproverare l’aiutante domestica ebrea con la minaccia di bruciarla e spargere le sue ceneri, il commentare ridacchiando gli errori di misura nella scelta degli abiti sottratti ai detenuti ebrei, addirittura il mettersi il rossetto trovato nella tasca della pelliccia sottratta a una detenuta ebrea o anche raccontare alle figlie per addormentarle la feroce punizione inflitta alla strega, gettata viva nel forno, nella fiaba di Hänsel e Gretel. Indifferenza, questa è la parola che meglio spiega questo atteggiamento altrimenti inspiegabile, diverso dalla verosimile non conoscenza di questi fatti da parte del popolo tedesco. E a proposito del popolo tedesco, è difficile non pensare che nelle scene finali del film che ci portano all’oggi, ai musei della Shoah, il mostrarceli mentre vi si fanno le pulizie non voglia significare un desiderio di “lavare via” il passato. 

Finita la proiezione restiamo indubbiamente angosciati da ciò che Glazer ci ha fatto non tanto vedere quanto intuire. Questa angoscia è però moderata dal sentirci migliori di Höss e dei suoi famigliari, dalla consapevolezza che mai e poi mai potremmo per indifferenza comportarci come loro. Ma un dubbio a questo punto dovrebbe farsi strada nella nostra mente: siamo poi così attenti al nostro prossimo in difficoltà? Non siamo in realtà indifferenti verso nostri simili in condizioni di sofferenza che ci passano accanto? Facciamo tutto ciò che potremmo fare per aiutare chi vive nel disagio? Un grande merito di questa pellicola, al di là dei premi che ha vinto e vincerà, è proprio quello di costringerci a guardarci nello specchio e rispondere a queste domande.

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