Tre aspetti ci guidano nell’analisi di questo film: la statua della giustizia che nella sequenza di apertura si presenta con la bilancia squilibrata, il nome di Justin che richiama “justice” (giustizia) e quello del pubblico ministero: Faith (Toni Collette) che significa fede, fiducia, lealtà. E questo perché due sono i problemi che Eastwood solleva: 1) Esiste la possibilità di una vera giustizia? 2) Può un essere umano sacrificare in modo irreversibile se stesso e quanto gli è più caro per far sì che giustizia venga fatta? All’inizio del film Faith è ben convinta che una vera giustizia esista, tant’è che ricorda ad Eric (Chris Messina), suo compagno di corso e avvocato difensore d’ufficio di Sythe, l'aforisma di un loro professore La giustizia è verità in azione e persegue la sua accusa con vigore anche perché, essendo candidata alla carica di procuratore distrettuale, sa bene che una vittoria le garantirebbe il successo alle elezioni. Ma in seguito, valutando la documentazione ottenuta da Harold, un giurato ex poliziotto (J.K. Simmons), inizia a nutrire dubbi sulla effettiva colpevolezza del giovane e si trova a dover decidere fra il successo alle elezioni, garantito dalla condanna di Sythe e la fedeltà (nome omen) al suo mandato ed alla regola aristotelica (Politica III) La legge è ragione senza passione. Ma anche Harold ha dovuto fare la sua scelta. Come giurato infatti non doveva svolgere indagini per suo conto ed invece, fedele al giuramento fatto come poliziotto, ha deciso di procedere per conto suo e per questo verrà allontanato dalla giuria. Ed infine Justin è chiamato alla scelta più difficile: farsi avanti e dire ciò che sa, rischiando grosso per il suo futuro e per quello della sua famiglia o stare zitto e lasciare che un probabile innocente vada all’ergastolo? All’inizio egli sceglie una via di mezzo, cioè cerca di convincere i giurati che le prove della colpevolezza di Sythe non sono adeguate e in questa fase il film ricorda (volutamente, come dichiarato dall’autore dello script J. Abrams in una intervista a GQ) “La parola alla giuria” (William Friedkin, 1997) nello svelare per ogni giurato colpevolista i motivi extragiudiziali che ne influenzano il parere. Ma rendendosi conto di non riuscire a convincere tutti i giurati, Justin cambierà tattica e si adatterà al giudizio della maggioranza.
Torniamo ai due problemi sollevati dal regista e menzionati in apertura. Al primo, se sia possibile una vera giustizia, la risposta del film è no. D’altro canto, come sottolinea nel finale Eric, al sistema attuale non vi sono alternative migliori (almeno per quel che riguarda il sistema giudiziario americano, va aggiunto). Al secondo, se si debba sacrificare tutto se stesso e la propria famiglia per far trionfare la giustizia, Justin risponde no, contraddicendo l’imperativo categorico di Kant Agisci secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga legge universale. Ma calato nella realtà di Justin questo imperativo risulta ben difficile da seguire e se ci mettiamo nei suoi panni, come Eastwood con la collaborazione di Hoult riesce magistralmente a realizzare, dare una risposta al problema è difficile, se non impossibile. Difficile sì, ma, seppure in condizioni diverse da Nicholas, Faith, come ci mostra l’ultima scena, decide di adeguarsi a Kant e di tener fede al suo nome.
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