domenica 31 dicembre 2023

“Ferrari”, Michael Mann (2023)

Michael Mann ama giuocare con i colori, pensiamo ad esempio alla buia notte infinita di “Collateral” (2004) che fa da sfondo alla spietatezza del killer o al contrasto fra la luce abbagliante del sole che illumina la vita di tutti i giorni e la buia notte che vede svolgersi il malaffare in “Miami Vice” (2006). Ed anche in "Ferrari” il colore ha un ruolo importante: il rosso delle automobili ben esprime la passione che cova in Enzo Ferrari e che egli vuole a tutti i costi trasmettere ai suoi piloti e il nero della notte in cui partono i piloti della “Mille Miglia”, preludio di una tragedia.

Il film di Mann abbraccia un periodo di due mesi del 1957, forse il peggiore della tormentata vita di Enzo Ferrari, un periodo che inizia e finisce con la morte: inizia con quella di Eugenio Castellotti all’autodromo di Modena il 14 marzo e finisce con quella di 11 persone, fra cui Alfonso de Portago (Gabriel Leone), il suo co-pilota e 9 spettatori di cui 5 bambini, il 12 maggio durante la “Mille Miglia”.  Ma non finisce qui, questi mesi terribili erano stati preceduti nel 1956 dal più terribile dei drammi: la morte (sì, ancora lei) per distrofia muscolare del figlio Dino di 24 anni. La morte è quindi protagonista di quest’opera; oltre a quanto detto la sentiamo infatti ripetutamente menzionare da Ferrari quando ricorda gli amici Campari e Borzacchini morti a Monza nel 1933 e quando, durante una conversazione a tavola con i suoi piloti, ricorda loro la necessità di non considerare il rischio di morire durante una corsa e quindi di non frenare mai prima che lo faccia l'avversario. Ragionamento duro e spietato questo, ma la spietatezza sfuma poi nell’umanità quando Ferrari a chi, all’indomani della fatale "Mille Miglia", gli ricorda che il pensiero della morte è costantemente presente nella mente degli esseri umani, egli risponde che sì, è vero, ma ciò non vale per i bambini. Ed il pensiero dei bambini ci riporta al Ferrari-uomo, al suo vivere un’esistenza divisa fra la moglie Laura (Penélope Cruz) e l’amante Lina (Shailene Woodley) che gli ha dato il piccolo Piero (Giuseppe Festinese), un’esistenza che, oltre alle inevitabili crisi di una simile situazione famigliare, è tormentata anche dal pensiero del possibile disastro finanziario che minacciava la Ferrari in quel periodo. Se pensiamo alla filmografia di Mann non possiamo non ricordare a questo proposito il personaggio di un altro suo film, anch'egli tormentato ed in preda ad una crisi esistenziale che travolse lavoro e vita famigliare, il Jeffrey Wigand (Russel Crowe) di “Insider” (1999). Se poi consideriamo anche i protagonisti di “Heat” (1995), anch’essi tormentati dalle scelte imposte da vite private complesse e lavori rischiosi, arriviamo al nocciolo della filosofia filmografica di Mann, e cioè quello di rappresentare con esempi epici, adatti al mezzo cinematografico, e in una prospettiva decisamente pessimista le difficoltà che la vita impone in definitiva a tutti noi esseri umani.

Un’ultima considerazione personale. Sentir menzionare i nomi dei piloti di allora e vederli sfidare la morte in maglietta a maniche corte con una sigaretta in bocca, usando in scioltezza “doppietta” e “punta-tacco” e ricercando la miglior traiettoria con continue correzioni dello sterzo, riporta alla mente, non senza emozione, il romanticismo di quell'epoca.



 

lunedì 25 dicembre 2023

"Foglie al vento", Aki Kaurismäki (2023)

Quest’ultima opera di Kaurismäki tocca numerosi ed importanti temi quali solitudine, povertà, guerra, ingiustizia sociale, alcolismo con l’abituale apparente distacco, apparente perché egli riesce in realtà ad evocare nello spettatore empatia per i protagonisti, cosa che altri registi “distaccati”, come ad esempio Michael Haneke, non riescono ad evocare, limitandosi a svolgere il loro compito come un entomologo guarda gli insetti al microscopio. Vediamo ora di seguito quali sono alcuni dei messaggi che si possono ricavare da questo film.

La vicenda di Ansa (Alma Pöysti) e Holappa (Jussi Vatanen) sembra svolgersi fuori dal tempo: la radio trasmette notiziari sulla guerra in Ucraina, in particolare sui bombardamenti di Mariupol del 2022, ma nel bar in cui Ansa trova lavoro il calendario è del 2024, mentre al cinema dove lei va insieme a Holappa sono affissi, come se fossero in programmazione, manifesti di film di 30-40 anni fa. Infine, in uno dei bar in cui si svolge la narrazione vediamo in azione un juke-box Würlitzer che ormai rappresenta un oggetto di antiquariato. Per qual motivo il regista svolge il suo racconto nel contesto di questi salti temporali? Una possibile spiegazione è che in questo modo egli abbia voluto dirci che solitudine, povertà, ingiustizia sociale ed alcolismo, che vediamo sfilare sullo sfondo della follia della guerra trasmessa dalla radio, sono eterni e prevedibilmente non destinati a migliorare.

Perché Holappa perde il biglietto con l’indirizzo di Ansa al loro primo appuntamento ed inoltre verso la fine, uscendo di casa per correre da lei, viene investito da un tram? Così Kaurismäki ci insegna che possiamo fare tutto quello che vogliamo, ma quando il Fato ci mette lo zampino tutto va a gambe all’aria, nonostante la cura che possiamo aver messo nei nostri preparativi, come ha fatto Holappa prendendo in prestito una giacca per correre da Ansa. E se non ci si mette di mezzo il Fato ci pensa qualcuno, come l’occhiuto sorvegliante del supermercato dove lavorava Ansa il quale ne provoca l’ingiusto licenziamento dichiarando “Ho obbedito agli ordini” proprio come i dirigenti nazisti al processo di Norimberga, una motivazione la cui validità fu fermamente negata da Hanna Arendt quando scrisse “Nessuno ha il diritto di obbedire”.

 

Un’ultima annotazione in merito al titolo del film: in originale Kuolleet lehdet (Foglie morte), in italiano “Foglie al vento", in inglese Fallen leaves (Foglie cadute). Quale di questi titoli meglio si adatta al film? “Foglie al vento” sottolinea l’imprevedibilità degli eventi umani, dovuta appunto al Fato, che ci lascia in preda al vento come la piuma di “Forrest Gump” (Robert Zemeckis, 1994) e le nuvole in viaggio dell’omonimo film del 1996, sempre di Kaurismäki. Ma “Foglie morte” rispecchia il pessimismo del regista e risuona nelle immagini dei morti viventi che si trascinano nel film “I Morti non muoiono” (Jim Jarmusch, 2019) che Ansa e Holappa vedono al loro primo appuntamento. Anche loro due si trascinano passivamente nelle loro vite tristi e monotone, ma rispetto agli zombi almeno riescono a trovare un po’ di consolazione, lei nella compagnia di un cane e lui nella bottiglia. 

 

Alla fine della narrazione non possiamo forse sperare in uno spiraglio di ottimismo quando vediamo i due incamminarsi su un prato verso un orizzonte luminoso? Temo di no. Non può infatti essere un caso che il povero Holappa arranchi faticosamente sulle stampelle per stare dietro ad Ansa ed al suo cane che lo precedono; in questo modo il regista ci vuol dire che l’unione fra i due sarà meno solida di quella fra Ansa ed il cane.

 

sabato 9 dicembre 2023

“Dogman”, Luc Besson (2023)

In un momento in cui le sale cinematografiche sono inondate di produzioni prive di fantasia, perlopiù prequel, sequel, biopic, spin-off di fumetti o videogiochi, una pellicola come “Dogman” rappresenta una ventata di aria fresca. Besson riesce infatti a mixare più generi (poliziesco, commedia, sentimentale) in un film nato da una sua idea originale e che, pur essendo ricco di azione e quindi tutt’altro che noioso, contiene significati interessanti di cui vale la pena parlare.

Doug (un camaleontico Caleb Landry Jones) è quello che potremmo definire un misfit, cioè un soggetto inadatto ad inserirsi nella società, sulla scia dei protagonisti di altre opere di Besson come “Nikita” (1990) e “Léon" (1994). Questa sua condizione è dovuta ai danni psicologici e fisici riportati nell’infanzia in seguito alla ferocia del padre (Clemens Schick) e del fratello maggiore (Alexander Settineri), a causa della quale tra l’altro sua madre, incinta del terzo figlio, è stata costretta a fuggire, abbandonando Doug nelle loro grinfie. E quindi fra le amorevoli grinfie dei cani che il padre alleva per farli combattere Doug passa la sua infanzia, chiuso a chiave con loro in una gabbia. 

Il tema principale del film è l’identità. Della propria Doug non può essere sicuro: a causa sia del terribile trattamento che ha ricevuto dagli esseri umani che della convivenza con i cani egli potrebbe infatti sentirsi più cane che uomo e non è certo casuale a questo proposito l’assonanza fra “Doug" e “dog". Egli sfoga questa sua incertezza identitaria nella passione per i travestimenti, preferibilmente di soggetti femminili (richiamo evidente all’abbandono da parte della madre) e si esibisce con successo a teatro nei panni di Edith Piaf e Marlène Dietrich. Un teatro, tra l’altro, dove recitano esclusivamente Drag Queen, nel quale quindi il travestimento e l’incertezza identitaria sono la regola. Doug è cosciente dei motivi della sua passione per il travestimento e apertamente controbatte l’ipotesi di Evelyn (Jonica T. Gibbs), la psichiatra che lo prende in cura, nel momento in cui lei gli ricorda che il travestimento può anche essere un modo per nascondersi allo scopo di compiere atti inconfessabili. Evelyn rappresenta per Doug l’unico essere umano con cui si crea un clima di confidenza (a parte l’attrice teatrale Salma - Grace Palma - di cui egli si invaghisce da bambino ma che poi lo delude sposandosi) ed il motivo ce lo dice lui stesso: anche Evelyn è vittima degli esseri umani, ha dovuto infatti divorziare da un marito violento che la stalkerizza ed ha avuto un padre violento. In definitiva, il nocciolo del problema è quindi la caratteristica degli esseri umani di poter scegliere fra il Bene ed il Male, caratteristica che i cani non hanno poiché non conoscono la differenza fra i due e quindi non possono sapere cosa sia la cattiveria. E per questo motivo Doug sceglie senza esitazione alcuna i cani. 

 

giovedì 16 novembre 2023

“Anatomia di una caduta”, Justine Triet (2023)

Cosa ci dice il titolo di questo film? Di primo acchito possiamo pensare ad un'analisi tecnica dei motivi della caduta dal balcone che ha causato il decesso di Samuel (Samuel Theis). Forse però c’è un altro significato più sottile, forse la regista ha voluto implicare nel titolo l'analisi, approfondita come una vera e propria dissezione anatomica, del deterioramento (e quindi della caduta) dei rapporti fra moglie e marito che emerge gradualmente nel corso del processo intentato contro Sandra (Sandra Hüller), imputata dell’omicidio del marito Samuel. In quest’ottica definire il film un thriller è fuorviante, si tratta in effetti di un'accurata analisi psicologica dei rapporti fra i due coniugi, orchestrata dal pubblico ministero (Antoine Reinartz) cui si contrappone l’avvocato di Sandra, Vincent (Swann Arlaud). Il quadro che emerge da questa analisi rivela un rapporto fra i due coniugi estremamente difficile a causa di una totale incapacità reciproca di rinunciare a qualche propria necessità per venire incontro alle necessità dell'altra/o. Qualsiasi unione si regge infatti criticamente su un compromesso fra le proprie esigenze e quelle della/del partner, se ciò non avviene la simbiosi necessaria alla durata dell’unione è inevitabilmente compromessa. E nel corso dell'audizione in aula di una registrazione fatta da Samuel all'insaputa di Sandra di una loro discussione assai burrascosa (già questo sotterfugio la dice lunga sullo stato dei rapporti fra i due) questo problema emerge con chiarezza attraverso una serie di accuse dell'uno all'altra e viceversa in merito a scelte di vita (vivere a Londra o nelle Alpi francesi, in città o isolati fra i monti, decidere chi segue il figlio, ecc.) che avrebbero di volta in volta impattato sulla vita dell'uno o dell'altra. Inoltre, se è vero che la scelta di Samuel di registrare la discussione è stata molto scorretta, va però riconosciuto che Sandra, oltre ad una breve, pregressa e riconosciuta relazione omosessuale, con ogni probabilità nutre un'attrazione per Vincent, il suo avvocato, intessendo con lui una relazione probabilmente già in fieri prima della morte di Samuel. E una metafora che sottolinea l'incomunicabilità presente fra i due è il necessario ricorso nei loro colloqui all'inglese, lingua che non appartiene nè a lei (tedesca) nè a lui (francese).
Abbiamo detto in precedenza che definire questo film un thriller è fuorviante, ma in realtà vi è un cadavere la cui causa di morte (omicidio o suicidio) va definita. Due personaggi che si trovavano in zona al momento dell'evento fatale potrebbero chiarirne la causa però uno può parlare ma non vedere mentre l'altro può vedere ma non parlare. Si tratta rispettivamente di Daniel (Milo Machado Graner), giovane figlio della coppia reso cieco da un trauma della strada, e di Snoop, il cane-guida di Daniel. Nomen omen nel caso del cane: to snoop significa infatti curiosare in inglese e questa qualifica poteva farne un valido testimone. Così ce lo presenta infatti il piano-sequenza iniziale quando gira scodinzolando e curiosando per tutta la casa. Forse la regista con questa scelta ha voluto esprimere in modo metaforico la totale impossibilità di giungere a un giudizio definitivo in merito al quesito se si sia trattato di suicidio o omicidio, gettando quindi l'ombra del dubbio sulla decisione ultima della giuria, che qui non sveliamo. 

venerdì 27 ottobre 2023

“Killers of the Flower Moon”, Martin Scorsese (2023)

Martin Scorsese ci offre un secondo episodio, dopo “Gangs of New York” del 2002, dedicato alla nascita della nazione americana, ancora una volta condito da violenza, avidità e prevaricazione. Al di là di questa tematica un'analisi dei tre personaggi principali, riportati nel poster a fianco: Molly Burkhart (Lily Gladstone), il marito Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio) e suo zio William “King” Hale (Robert De Niro), offre ulteriori spunti di interesse.
Molly è una nativa pellerossa della nazione degli Osage; dal suo modo di comportarsi traspare il pessimismo di fondo che la anima e che riflette quello di tutti gli Osage, come l’incipit del film evidenzia: essi sanno di essere destinati nel tempo ad essere completamente assorbiti nel mondo dei bianchi, perdendo quindi la loro cultura, le loro tradizioni. E, pur essendo un popolo di guerrieri, sanno anche bene che è inutile combattere per salvaguardare la loro identità. Mantengono, è vero, alcune loro usanze come la preghiera rituale al sorgere del sole o le mele poste sulla bara dei defunti, ma d’altro canto seppelliscono i loro morti nel cimitero dei bianchi e partecipano alle funzioni religiose della chiesa cattolica. A questo motivo di pessimismo si aggiunge in Molly la consapevolezza che il diabete da cui è affetta non le permetterà una lunga sopravvivenza. William Hale è invece aggressivo tanto quanto Molly è remissiva: egli è un businessman che non si ferma di fronte a nulla pur di fare affari, utilizzando spesso e volentieri le Sacre Scritture per giustificare il suo agire. Questo ricorrere alla Bibbia per giustificare le malefatte legate alla propria avidità non è infrequente, pensiamo ad esempio al predicatore di “La morte corre sul fiume” (Charles Laughton, 1955) che ammazza ricche vedove citando passi biblici e parlando con il Signore. Questo intreccio fra religione e capitalismo è stato ben spiegato già nel 1905 dal sociologo Max Weber (L’etica protestante e lo spirito del capitalismo) secondo il quale l'idea calvinista del Beruf, cioè della vocazione (in questo caso la capacità di arricchirsi) che Dio concede solo ad alcuni e che è grave peccato non coltivare, se portata agli estremi degenera in un capitalismo selvaggio e senza regole. E William Hale non smentisce questo concetto: dopo aver fatto sposare Molly al nipote Ernest, organizza una trama diabolica che prevede l’eliminazione di tutti membri della famiglia di Molly allo scopo di far sì che Ernest rimanga erede unico delle quote derivanti dallo sfruttamento del petrolio, presente in abbondanza nel territorio degli Osage e fonte per loro di una enorme ricchezza. 
Ed infine Ernest, reduce di guerra (siamo nel 1920), un personaggio psicologicamente complesso: vi è in lui una disonestà di fondo, lo dimostrano le rapine che commette, e sembra anche essere scarsamente dotato sul piano intellettivo (non dimentichiamo però che gli orrori della guerra possono aver lasciato in lui un segno permanente). Oltre a ciò, appare privo di una sua volontà: per tutta la narrazione è ad esempio succubo dello zio, salvo alla fine lasciarsi facilmente convincere dagli agenti federali a testimoniare contro di lui al processo. Se c’è in lui un lato positivo è l'amore per Molly, sentimento che sembra reale, egli non pare in effetti rendersi conto che i medici che la curano, spinti dallo zio William la stanno in realtà avvelenando. 
In sintesi, il Cattivo (Hale) mira a distruggere i Buoni (gli Osage, nella persona di Molly), usando come arma lo Sciocco (Ernest). Lo schema non è nuovo; fortunatamente almeno questa volta arriva la cavalleria nei panni dei Federali di John E. Hoover. 
  
 

martedì 5 settembre 2023

"Oppenheimer", Christopher Nolan (2023)

L'analisi di questo film può essere effettuata secondo diverse linee: la figura di Oppenheimer come uomo, la sua attività di scienziato, le ricadute di questa sul mondo, i suoi rapporti con la politica. Nella narrazione questi aspetti sono strettamente correlati, grazie anche all'impiego di piani temporali intersecantisi, secondo lo stile del regista, per cui l'analisi può svolgersi in modo unitario.

Robert J. Oppenheimer (Cillian Murphy) è al di fuori di ogni dubbio un genio della fisica teorica; non è certo un genio schivo, timido e misantropo, anzi riconosce senza problemi il proprio valore, apprezza la socialità, non disdegna i rapporti con l'altro sesso ed ama anche ricorrere alla battuta sarcastica, il che si ritorcerà contro di lui, come vedremo, a proposito dei rapporti con il presidente della commissione per l'energia atomica Lewis Strauss (Robert Downey jr). Dopo questa descrizione si potrebbe pensare a questo scienziato come a un uomo freddo, calcolatore, senza troppi scrupoli ed invece così non è: il suicidio (o omicidio? nel film appare fugacemente una mano guantata di nero che le spinge la testa sott’acqua) della sua amante Jean Tatlock (Florence Pugh), membro del partito comunista, lo segna profondamente riempiendolo di dubbi angosciosi in merito a sue possibili responsabilità morali nella determinazione dell’evento. Ma di scrupoli Oppenheimer se ne pone in particolare per quanto attiene alla sua creatura, la bomba atomica. Scrupoli che egli ha sempre nutrito, in particolare in merito alla possibilità che la deflagrazione della bomba possa creare una reazione a catena inarrestabile che finisca per distruggere il pianeta (non a caso vediamo fugacemente fra le sue mani in una inquadratura il poema di T.S. Eliot The Wasteland), ma che diventano sempre più assillanti man mano che si avvicina il completamento dell’arma. E ciononostante, bizzarrie della natura umana, alla vigilia della prova cruciale con il prototipo di bomba, parlando con il generale Groves (Matt Damon) della probabilità del verificarsi di questa letale reazione a catena nel corso della prova, egli afferma con noncuranza che le probabilità che ciò avvenga sono "quasi zero" cioè che è "quasi" impossibile che l'esperimento distrugga la Terra. Questo argomento viene comunque da lui seriamente affrontato nel corso di un dialogo con Albert Einstein (Tom Conti) a Princeton. Alla preoccupazione di Oppenheimer per il possibile scatenamento di una reazione a catena inarrestabile Einstein risponde “E allora?”. E la risposta di Oppenheimer, che chiude il film, è agghiacciante “Credo che lo abbiamo già fatto” alludendo non tanto ai possibili esiti dell'esplosione, ma alla proliferazione di armi nucleari che ad essa sarebbe seguita, in un effetto a catena senza fine, fra le nazioni del mondo.

In chiusura vi è un aspetto che vale la pena sollevare e cioè il peso dell’emozione, e quindi dell’irrazionalità, nelle decisioni degli esseri umani. Prendiamo ad esempio la persecuzione di Oppenheimer per presunte attività comuniste da parte di Strauss, attraverso una commissione d'inchiesta appositamente creata ed orchestrata. Tutto ciò dipese solo da una questione personale, una vendetta per essere stato Strauss pubblicamente ridicolizzato ed umiliato da Oppenheimer. D'altro canto Strauss pagherà la sua azione con la mancata conferma a segretario del commercio del Senato nel corso di una serie di udienze che il regista decide di girare in bianco e nero. È interessante chiedersi il perché di questa decisione; può darsi che essa sia dipesa dal desiderio di sottolineare il ruolo dell'udienza come sintesi degli eventi che vengono riportati analiticamente a colori nel resto del film.  Per restare nel campo del ruolo dell'emotività nelle decisioni umane è inoltre possibile che desiderio di vendetta e punizione per l'attacco a Pearl Harbor abbia contribuito alla decisione americana di bombardare Hiroshima e Nagasaki con l'atomica il 6 ed il 9 agosto 1945, nonostante la resa della Germania avvenuta tre mesi prima, L'emotività giuoca quindi brutti scherzi, ma se l'Umanità agisse solo razionalmente non sarebbe composta da esseri umani, ma da macchine. E allora? (per richiamare Einstein), allora dobbiamo sempre rifarci nel nostro agire al katà métron, cioè secondo misura, come gli antichi Greci secoli fa ci hanno insegnato.     

 

giovedì 31 agosto 2023

Ma i creatori di "Matrix" hanno letto Dostoevskij?

Può sembrare bizzarro accostare i fratelli Wachowski, creatori della saga di "Matrix", a Fëdor M. Dostoevskij, ma i motivi per farlo non mancano, come vedremo tra breve. 
Tema centrale di "Matrix" è l'esistenza o meno del libero arbitrio, cioè in altre parole se esista per gli esseri umani la possibilità di scegliere, o se la loro condotta sia predeterminata sotto forma di destino. Si tratta di una questione di vitale importanza dal punto di vista della narrazione perché, se fosse vera la seconda ipotesi, verrebbe a cadere una delle più importanti differenze fra l'Umanità e le Macchine. Questo tema riaffiora frequentemente nei quattro film che compongono la saga, rimanendo spesso senza risposta. Il Merovingio (Lambert Wilson, episodio 2: "Matrix Reloaded”, 2003) affronta il tema partendo da un'angolatura diversa: egli sostiene che nulla accade per caso, che non esistono coincidenze e che tutto è il frutto di una catena infinita di cause e relativi effetti nella quale la possibilità di scelta degli Umani è assai limitata o addirittura inesistente. Ma nello stesso episodio, quando Neo (Keanu Reeves), posto di fronte alla scelta fra salvare la vita dell'amata Trinity (Carrie-Ann Moss) e quella di salvare il popolo degli Umani, decide per la prima opzione, i registi mostrano di propendere per il libero arbitrio. In effetti Neo opera in quella occasione una scelta particolarmente forte essendo egli "l'Eletto", colui che è predestinato a salvare l'Umanità (e qui non mancano analogie. con la figura di Gesù Cristo, come appare soprattutto nel finale del terzo episodio ("Matrix Revolutions”, 2003) e quindi obbligato al buon fine di questa missione. E proprio l'analogia con la figura di Gesù Cristo ci porta a Dostoevskij, in particolare a "I fratelli Karamazov” (1880).  Nel contesto di questo romanzo Dostoevskij inserisce un racconto lungo che Ivàn Karamazov narra al fratello Alëša. Questo racconto parla del ritorno in terra di Gesù Cristo in Spagna ai tempi dell'Inquisizione e di come egli venga subito arrestato per ordine del Grande Inquisitore e condotto alla sua presenza. Questi in sostanza espone a Cristo la sua tesi, in base alla quale l'Umanità non vorrebbe essere dotata del diritto di scelta, preferirebbe vivere senza la necessità di prendere decisioni, affidando questo compito ad una sorta di aristocrazia, nella fattispecie l'ordine religioso, che decida per lei. Ed alla fine l'Inquisitore ordina a Gesù di andarsene e di non ritornare mai più per non turbare con i suoi insegnamenti questo ordine costituito. Ecco ricreato nel romanzo di Dostoevskij il doppio mondo di Matrix, da una parte quello virtuale, creato e controllato dalle Macchine (o dalla classe dei religiosi), nel quale gli esseri umani sono dei semplici fantocci che conducono le loro esistenze eterodiretti e dall'altra quello delle Macchine (o della classe dei religiosi) che hanno in mano il destino dell'Umanità attraverso una stretta programmazione. In mezzo abbiamo i pochi umani ribelli che vedono in Neo il loro liberatore. Nel primo episodio della saga ("The Matrix, 1999) a rinforzare l'analogia con la tesi dell'Inquisitore, assistiamo alla decisione di uno dei ribelli, Cypher (Joe Pantoliano), di tradire i compagni pur di assicurarsi un' esistenza comoda e priva di preoccupazioni nel mondo di "Matrix”.  
Le analogie con le narrazioni di Dostoevskij non finiscono qui; se passiamo a considerare un altro suo romanzo, “L’Idiota” (1869), verso la fine viene descritta una riunione dell'alta società russa nel salotto della famiglia Epančìn. Tutti i personaggi (eccezion fatta ovviamente per il principe Myškin) si atteggiano nei confronti degli altri con una falsità clamorosa, fingendo simpatia ed ammirazione per persone che in realtà disprezzano e ritengono socialmente inferiori. Ecco descritta un'altra "Matrix" nella quale, prigionieri non delle Macchine nè dell’aristocrazia religiosa ma del condizionamento sociale, i personaggi recitano una parte predefinita che non corrisponde al loro pensiero creando così una realtà a parte.  
In conclusione, questo accostamento fra i Wachowski e Dostoevskij che all'inizio ho definito bizzarro ritengo sia utile a dimostrare che possono passare secoli e possono cambiare drasticamente le tecniche dell'espressione artistica, ma i temi affrontati sono assai spesso gli stessi.     

giovedì 29 giugno 2023

"Le immagini che curano"


L’ordine di citazione nel testo è da sinistra a destra, dall’alto in basso

Le immagini non sono la realtà: o sono una astrazione, frutto di pura fantasia, o imitano la realtà; dal fatto di non essere reali nasce la scarsa considerazione che i filosofi greci, alla ricerca perenne della verità, avevano per esse.

D’altro canto, l’Umanità è da sempre alla ricerca di una via di fuga dal mondo materiale di tutti i giorni, con i suoi affanni, preoccupazioni, ansie e dolori e le immagini, grazie alla loro irrealtà, rappresentano uno dei modi di rifugiarsi in quella zona a metà strada fra trascendenza ed immanenza, fra divino ed umano, fra spirito e corpo, che Platone definiva “metaxù” e che costituisce un rifugio per tutti noi, per allontanarci almeno temporaneamente dai demòni che ci affliggono e trovare un po’ di ristoro spirituale. 

L’immagine ha quindi in sé un potenziale di cura, esercitata attraverso il distacco dalla vita materiale, un potenziale che si può articolare in tre diverse modalità:

  • In un senso più propriamente terapeutico le immagini possono aiutare nella cura di malattie, siano esse del corpo o della mente.
  • Non tanto l’osservare, ma il produrre immagini può fornire un sollievo al disagio psicologico arrecato da precedenti traumi o esperienze negative (come d’altro canto può fare anche la scrittura).
  • Anche a chi non soffre di malattie del corpo, degli esiti di traumi o di disagio psicologico, l’immagine fornisce comunque una cura per le fatiche e i dispiaceri della vita di tutti i giorni.

A partire dal tardo Medio Evo troviamo molti esempi dell’impiego delle immagini come terapia, ad esempio nei polittici di Rogier van Der Weyden all’Hôpital Dieu di Beaune (1443-1451) e di Matthias Grünewald all’ospizio di Issenheim (1505-1515). Nel primo, attraverso la metafora del Giudizio Universale, si sottolineava l’importanza di essere buoni cristiani sia per andare in Paradiso che, in senso traslato, per ottenere la guarigione e nel secondo la rappresentazione realistica e brutale delle sofferenze di Cristo in croce doveva essere di consolazione a chi stava soffrendo per una malattia del corpo, facendolo sentire simile a Cristo nella sofferenza. Anche la Madonna (figura materna per definizione) rientra in questo ambito di sollievo della sofferenza, in particolare nell’immagine che la raffigura con il mantello aperto per accogliere sotto di esso, e quindi proteggere, i suoi fedeli, anche dalle malattie. Prendiamo ad esempio il polittico della Misericordia di Pier della Francesca a San Sepolcro (1445) o anche un affresco in S. Maria della Scala a Siena (Domenico di Bartolo, 1444), dove la metafora della Madonna con il mantello aperto è chiaramente spiegata nella didascalia che così inizia Haec Beatae Mariae Virginis Imago sub Amictu suo Populum Christianum Protegens.

Nel Rinascimento l’aiuto a tollerare e guarire le malattie viene affidato non tanto ad immagini di Gesù Cristo o della Madonna, quanto ai Santi, forse un modo per essere più vicini a chi soffre poiché i Santi sono esseri umani. Vediamo allora il Tintoretto che dipinge per la scuola di S. Rocco a Venezia l’immagine di San Rocco che risana gli appestati (1564-1567) imponendo le mani sui loro bubboni, e quindi toccandoli, un modo appunto per essere anche fisicamente più vicino a chi si trova in condizioni di sofferenza.

Ai nostri giorni non manca l’attenzione al benessere psicologico dei ricoverati in ospedale, anche perché è ben definito che stati di depressione portano ad una ridotta attività del sistema immunitario, necessario per difendersi dalle malattie. È infatti molto frequente che in reparti particolari come quelli di Oncologia o di Pediatria si provveda a dipingere o adornare le pareti con immagini e colori che possano ispirare serenità, in generale non a tema religioso e questo sia per la secolarizzazione che caratterizza i nostri tempi che per la presenza sempre più frequente di ricoverati di diversi tipi di credo religioso. Questi ornamenti non vengono considerati oggi opere d’arte e forse non lo saranno nemmeno nei secoli a venire, ma l’importante è ottenere lo scopo di aiutare chi si trova in condizioni da sofferenza. 

L’immagine cinematografica svolge un ruolo importante nel produrre sollievo psicologico; vi sono evidenze scientifiche che ne sottolineano il ruolo come integratore della cura di malattie oncologiche, oltreché della mente. Un esempio classico ed usato correntemente in cinematerapia è “Momenti di Gloria” di Hugh Hudson (1981). La trama è nota, si tratta della storia di due atleti dilettanti che riescono a partecipare alle olimpiadi di Parigi del 1924 dopo aver superato difficoltà di ogni genere. Coadiuvato dalla colonna sonora di Vangelis (indimenticabile la scena iniziale del gruppo di giovani atleti che corrono lungo la spiaggia), questo film induce senso di fiducia in se stessi, nella propria capacità di superare gli ostacoli (e quindi anche le malattie), sottolineando anche il ruolo dell’amicizia nello svolgere questo compito. Va detto che l’efficacia del cinema non si limita solo ad aiutare gli ammalati, chiunque infatti si trovi in condizioni di sconforto non può non riportare un sollievo dalla visione di questa, come anche di numerose altre, opere cinematografiche.

Produrre immagini per alleviare le proprie sofferenze rientra, come detto in precedenza, nell’ambito dell’immagine come cura. Di esempi ve ne sono diversi, fra i quali molto noto quello di Magritte. Una caratteristica di molte opere di questo artista è la rappresentazione di figure umane con il volto coperto da un panno bianco. È vero che in alcuni casi, per esempio “Gli Amanti” (1928) che raffigura una figura maschile ed una femminile che si baciano con i volti appunto coperti da un panno bianco, si può pensare ad una metafora dell’esistenza di una incomunicabilità fra gli esseri umani tale da impedire di stabilire un rapporto anche con un semplice bacio, ma sta di fatto che Magritte quattordicenne assistette al recupero del cadavere della madre morta suicida nel fiume Sambre e ripescata con il volto coperto da un panno bianco. È quindi estremamente probabile che per il pittore belga la creazione di queste immagini abbia rappresentato un modo per esorcizzare questo terribile ricordo. 

Abbiamo detto che l’immagine può essere di aiuto anche a chi non è affetto da malattie o dal ricordo di traumi. Un primo esempio di questo utilizzo delle immagini ci viene dai “Tronfi della Morte”, di cui in Italia abbiamo tre splendidi esempi, a Clusone in val Seriana (riportato in figura), a Pisa nel Camposanto Monumentale e a palazzo Abatellis a Palermo, tutti risalenti alla seconda metà del ‘400. Il tema è sempre lo stesso: vi è la Morte, rappresentata come uno scheletro, che, coadiuvata da altri scheletri, trafigge chi le capita a tiro, senza badare se si tratti di ricchi, poveri, nobili, religiosi. Il fatto che la Morte colpisca tutti indistintamente doveva essere un messaggio di consolazione per le fasce più povere della popolazione facendo sì che si sentissero sullo stesso piano dei ricchi e potenti di fronte ad essa. Nel caso di Clusone alla base dell’affresco è dipinta anche una Danza Macabra nella quale il messaggio di uguaglianza viene rinforzato dalla presenza di una schiera di scheletri che camminano insieme a rappresentanti delle varie fasce della popolazione, tutti messi appunto sullo stesso piano.

Se ci spostiamo in avanti di 400 anni abbiamo come esempio di dipinto atto ad evocare sensazioni di pace e tranquillità la “Domenica pomeriggio all’isola della Grande Jatte” (1884-1886) di George Seurat. Nel guardare questo quadro non si può non essere presi da queste sensazioni, a causa dell’immobilità dei personaggi, loro stessi talmente estraniati dalla vita materiale da portare anche l’osservatore sulle rive della Senna. Seurat raggiunge questo effetto di immobilità grazie all’uso sapiente della tecnica del “pointillisme”, intensificando questa immobilità, per contrasto, con un effetto-movimento affidato a due soli personaggi, peraltro estranei al mondo degli adulti: una bambina e un cagnolino che saltellano. 

Per quanto riguarda infine la fotografia, senza considerare le immagini volutamente comiche che per loro natura evocano una immediata e fugace reazione di riso, i meccanismi attraverso i quali questo mezzo può influenzare la mente in senso positivo sono sostanzialmente due. Da un lato abbiamo immagini fotografiche che instillano un senso di tranquillità e serenità, come ad esempio nei paesaggi in bianco e nero del fotografo marchigiano Mario Giacomelli in cui all’idea di un movimento fluido espressa dai solchi sinuosi dell’aratro sulla terra, simili ad onde, fa da contrasto, in modo inverso rispetto a Seurat, l’immobilità dei gruppi di alberi. Dall’altro vi sono immagini fotografiche che stimolano l’immaginazione dell’osservatore a “creare” una storia: ad esempio in un prato coperto di neve fotografato di notte con uno sfondo di rocce ed alberi, illuminato dalla luna piena velata dalle nuvole cosa potrebbe essere successo o cosa potrebbe succedere? O ancora un uccello che spicca il volo verso il sole basso sull’orizzonte: se immaginiamo un’alba potremmo pensare ad un’anima che inizia il nuovo giorno spiegando fiduciosamente le ali, se invece immaginiamo un tramonto, questa stessa anima potrebbe essere stata ripresa nell’atto di spiccare serenamente il volo verso l’eterno riposo. 

In conclusione si può dire che la capacità di cura delle immagini è strettamente dipendente, a prescindere dal mezzo impiegato per produrle, dalla capacità della mente umana, se opportunamente stimolata con metafore ed allegorie, di creare mondi diversi da quello abituale in cui viviamo tutti i giorni.


sabato 3 giugno 2023

"Rapito", Marco Bellocchio (2023)


Vi sono per un'opera d'arte due livelli di valutazione, uno puramente estetico ed un altro riguardante il messaggio che l'opera vuole trasmettere, quella che Arthur C. Danto definisce aboutness, cioè l'essere l'opera a proposito di qualcosa. Quest'ultima categoria di giudizio ha ovviamente particolare rilevanza quando l'opera in oggetto è ispirata a fatti realmente avvenuti, nel qual caso va valutato anche come i fatti vengono riportati.

Tenendo presenti questi presupposti veniamo all'analisi del film. Visto che abbiamo parlato di valutazione estetica, pur non rientrando negli scopi di questo blog l'esprimere giudizi in questo ambito, ritengo che "Rapito" sia da questo punto di vista un'opera valida sui piani canonici quali regia, fotografia, sceneggiatura, ecc; la narrazione è nel suo insieme sopra le righe ed i personaggi tagliati con l’accetta, ma questo aspetto rientra nello stile del regista e può quindi piacere o non piacere.

Oggetto della narrazione è la vicenda, realmente avvenuta, del piccolo Edgardo Mortara (Enea Sala da bambino e Leonardo Maltese da ragazzo), forzatamente allontanato dalla sua famiglia di ebrei bolognesi ad opera della gendarmeria vaticana nel 1858 all'età di 7 anni poiché, essendo stato battezzato di nascosto da una domestica, non poteva rimanere in una famiglia ebraica. La giovinezza di Edgardo trascorre quindi a Roma nella scuola dei catecumeni del Vaticano. In questo periodo si verifica la metamorfosi di Edgardo: inizialmente, e comprensibilmente, terrorizzato, in seguito, con la malleabilità tipica dei bambini, si adatta presto alla nuova situazione, facilitato in ciò dalla convivenza con suoi coetanei. Questo processo di adattamento presenta però alcune falle; a parte la visita della madre che avviene poco dopo il rapimento ed è comprensibile quindi che abbia scatenato una reazione di rivolta del bambino nei confronti dei religiosi, dopo una decina d’anni, durante una cerimonia religiosa Edgardo si getta a baciare la mano del papa che lo ha fatto rapire, Pio IX (Paolo Pierobon), con una foga tale da farlo cadere a terra: eccesso di amore o desiderio inconscio di aggredire il rapitore? Non lo sapremo mai per certo, ma in un’altra occasione vi sono ben pochi dubbi nell’interpretazione della reazione di Edgardo. Quando all’età di 27 anni, nell’accompagnare il feretro del Papa alla sepoltura in S. Lorenzo, egli rimane coinvolto in un'aggressione al corteo funebre da parte di ribelli al potere temporale che vogliono gettare il cadavere nel Tevere (lo spirito di piazzale Loreto non rappresenta quindi una novità), Edgardo dapprima si ribella all'aggressione e poi, come in trance, si unisce urlando ai rivoltosi. Questo episodio rappresenta il punto nodale del film e cioè che la religione è solo una patina verniciata sull’individuo, ma al di sotto di questa patina rimangono le pulsioni autonome, pronte a scatenarsi nel momento opportuno. Si tratta di un evidente attacco al concetto di fede,  piedistallo delle religioni monoteiste. Tutte, ma non l'ebraismo. La madre di Edgardo (Barbara Ronchi), che vediamo disperata per tutto il film per la perdita del figlio, riceve la visita di Edgardo mentre è in punto di morte e in questa occasione egli cerca di battezzarla, come fece con lui la domestica, allo scopo di evitarle la permanenza eterna nel Limbo, ma essa gli ferma la mano dicendo “Sono nata e morirò ebrea" contrastando quindi il desiderio del figlio la cui perdita aveva segnato tutta la sua vita. Ma l’ebraismo è diverso da tutte le altre religioni perché, oltre alla fede, in esso vi è il senso di appartenenza a un’etnia, cosa che le altre religioni non possiedono. Non è quindi la fede ma il senso di appartenenza, sembra dirci Bellocchio, che porta ad aderire a un credo.

sabato 20 maggio 2023

“Creature di Dio”, Saela Davis e Anna Rose Holmer (2022)

La vita nel paesino di pescatori sperduto sulla costa dell’Irlanda dove si svolge la narrazione, è dura. Sotto un cielo perennemente plumbeo gli uomini lavorano sul mare, plumbeo anch'esso, e le donne alla catena di montaggio nell’industria di trasformazione del pesce, gli uni esposti ai rischi della natura (per una curiosa tradizione non viene loro insegnato a nuotare), le altre in mezzo al puzzo di pesce da mattina a sera. Unico momento di svago è costituito dalla serata al pub, fra birra, whisky e battute fra amici. È questa in effetti la classica triade lavoro, pub, casa (in ordine decrescente di frequentazione) che abbiamo visto in altri film irlandesi, come ad esempio ultimamente ne “Gli Spiriti dell’Isola” (Martin McDonagh, 2022). In questo contesto seguiamo la vicenda dei tre personaggi principali: Aileen (Emily Watson), il figlio Brian (Paul Mescal) e Sarah (Aisling Franciosi).
Siamo tutti creature di Dio nel buio dice Sarah ad Aileen durante una breve interruzione dal lavoro, intendendo dire con queste poche, semplici parole che danno il titolo al film che buoni o cattivi gli esseri umani, seppur tutti figli di Dio, si trovano spesso e volentieri a brancolare nel buio nel tentativo di fare le giuste scelte. E presto abbiamo un esempio di questo concetto, quando Sarah viene violentata da Brian dopo una serata al pub. A questo punto Aileen deve scegliere fra mentire alle autorità, fornendo al figlio un falso alibi, e dir loro la verità, permettendo alla giustizia di fare il suo corso. Essa sceglie la prima opzione e la denuncia di Sarah all’autorità giudiziaria cadrà di conseguenza nel vuoto. È stata quella di Aileen una giusta scelta? Il suo sguardo (vedi il manifesto del film) ci fa capire con chiarezza sia il tormento che accompagna questo dubbio che non riesce a sciogliere che la rabbia che cova nei confronti del figlio per averla con il suo comportamento messa in una situazione così difficile. Ed alla fine Aileen, anche se in preda alla disperazione, decide che la giustizia debba prevalere e lo fa a modo suo, sulla traccia di un dramma shakespeariano o di una tragedia greca. Durante un'uscita in barca con il figlio che lavora in un allevamento di ostriche, lascia infatti che l’arrivo dell’alta marea abbia la meglio sull'incapacità di nuotare di Brian non facendo nulla in risposta alle sue disperate richieste di aiuto. L’ultimo e doveroso atto di Aileen è una visita a Sarah, per chiederle, in modo indiretto, scusa del falso alibi fornito a Brian. Quest’ultima aveva già deciso di lasciare per sempre il paese non tanto, o non solo, per la vicenda dello stupro, ma per l’incapacità di scrollarsi di dosso i ricordi, che come il vento di notte le tolgono il sonno, nessuno dei quali è piacevole, a partire da quello del pianto della madre dopo aver messo a letto il marito ubriaco fradicio. Ed il film si chiude sul profilo di Sarah al volante della sua auto che si allontana sotto un cielo non più plumbeo ma finalmente sereno, mentre lentamente affiora sul suo volto un timido sorriso. Evidentemente, ci suggeriscono le registe, riuscirà ad applicare la formula greca della riconciliazione promulgata dagli Ateniesi dopo la deposizione dei Trenta Tiranni (403 a.C.): mé mnesikakéin, “Non ricordare il male”.
 
 

venerdì 19 maggio 2023

“La quattordicesima domenica del tempo ordinario”, Pupi Avanti (2023)

Ancora una volta, dopo “Lei mi parla ancora” (2020), Pupi Avati ritorna sul tema dell’amore e della memoria e lo fa scegliendo come sfondo la sua amata Bologna negli anni che vanno dal 1950 ad oggi. 
La struttura del film è basata sull’eterno triangolo: lei è Sandra (Camilla Ciraolo da giovane, poi Edwige Fenech) e loro sono Marzio (Lodo Guenzi da giovane, poi Gabriele Lavia) e Samuele (Nick Russo da giovane, poi Massimo Lopez), due amici per la pelle, fondatori del duo musicale i “Leggenda” che tentano di partecipare a Sanremo con la loro canzone il cui titolo è quello del film. 
Avati indaga con abilità, come se usasse il bisturi del chirurgo, le sfaccettature di questa relazione a tre, i meccanismi attraverso i quali da un lato Sandra prima sposa Marzio e poi lo lascia cedendo alla corte di Samuele e come si svolge il rapporto fra i due amici. A questo proposito una frase in particolare rimane impressa ed è quella che viene rivolta a Marzio per spiegargli perché Samuele si innamorò di Sandra (che Marzio aveva sposato) portandogliela via: Samuele si è innamorato di lei perché è innamorato di te. Cosa ci dice la sceneggiatura con questa frase? Non che Samuele nutrisse una attrazione sessuale per Marzio, ma semplicemente che la profondità dell’amicizia fra i due uomini è tale che ciò che ama l’uno è amato anche dall’altro (non dimentichiamo che l’etimologia della parola amicizia è la stessa di amore) a tal punto che non deve stupire che due (veri) amici amino la stessa donna. 
Questo per ciò che attiene il rapporto fra Marzio e Samuele, cosa possiamo dire di Sandra? Perché decide di lasciare Marzio? L’interpretazione è qui più lineare. Marzio e Samuele sono come i due cavalli della biga alata nel mito platonico: Marzio è il cavallo nero, teso alla pura emozione, e Samuele il cavallo bianco, teso alla razionalità delle idee. È evidente che il cavallo nero può essere più divertente di quello bianco per un po’, ma la convivenza a lungo termine è tutt’altra cosa e qui il cavallo bianco può giuocare bene le sue carte. 
Finisce tutto qui? No, Avati ci porta ai giorni nostri e fa incontrare di nuovo, dopo l’uscita di scena di Samuele, Marzio e Sandra, invecchiati e delusi dalle rispettive esistenze, lasciandoci, con l’ultima sequenza, con la speranza che essi possano ritrovare da anziani il rapporto che persero da giovani. È solo una speranza perché se Sandra lo vorrebbe, come testimoniato dalla sua decisione di tinteggiare la casa di Marzio di blu come quando erano novelli sposi, l’espressione di lui nel vedere il colore rimane indifferente e non sapremo mai se è così perché Sandra non gli interessa o per gli esiti del recente importante trauma cranico che aveva da poco subito.


sabato 13 maggio 2023

“The Fabelmans”, Steven Spielberg (2022)

 

In questo film Steven Spielberg  si narra e narra il suo rapporto con il cinema. Rapporto complesso, come viene ribadito sia dallo zio Boris (Judd Hirsch) che dal grande regista John Ford (cameo di David Lynch) che spiegano al giovane Sam (Gabriel Labelle), alter ego di Spielberg, che l’Arte gli spezzerà il cuore e manderà in crisi il suo rapporto con gli altri ed in particolare con la famiglia. E qui sta il nocciolo di questo film: la separazione cartesiana fra Anima e Corpo, fra res cogitans e res extensa e quindi in senso lato fra Anima, cioè  l’amore per l’Arte e specificamente il cinema, e Materia, cioè la vita di tutti i giorni. Probabilmente lo stesso titolo del film ce lo vuole suggerire: Fabel si pronuncia in inglese come Fable cioè “Favola” e Man significa “Uomo" (la s finale indica il nucleo familiare e non un plurale). È difficile pensare che non fosse nelle intenzioni più o meno consce di Spielberg il rappresentare già nel titolo questo contrasto fra Anima (la Favola) e il Corpo (l’Uomo). Ma non finisce qui. Guardiamo i genitori di Sam: la madre Mitzi (Michelle Williams) vive in una realtà che ha poco di reale, ama seguire i suoi sogni e, nonostante quanto dice, poco si cura di coloro che la circondano, non esita molto infatti a lasciare il marito e i figli (per il vero le tre figlie la seguono, solo Sam resta con il padre) per seguire zio Bennie (Seth Rogen), amico di famiglia. E si badi, quando spiega i motivi del divorzio a Sam, Mitzi usa questa frase "Bennie ha bisogno di me...ed io di lui" cioè antepone l’interesse di Bennie al suo proprio, come se stesse compiendo una buona azione nei suoi confronti. Per spiegare questo comportamento è facile, e probabilmente giusto, invocare il vecchio topos "genio e sregolatezza" (Mitzi è in effetti una pianista di successo, come la madre di Spielberg che era anche pittrice) però si può avere l’impressione che di fondo vi sia in questo personaggio una patologia psichiatrica sul tipo del disturbo narcisistico di personalità. Il padre di Sam, Burt (Paul Dano), è l'opposto di sua moglie: ingegnere elettronico con i piedi saldamente piantati a terra, indirizza la vita della famiglia secondo le necessità del suo lavoro e si ostina a definire l’amore di Sam per il cinema un “hobby”, cosa che disturba molto il ragazzo. Viene spontaneo alla fine del film chiedersi che influsso possa aver avuto sulla formazione di Sam (e quindi di Spielberg) questa drastica differenza fra madre e padre nel modo di vedere e vivere la vita. Si può pensare che egli riesca nel corso della sua vita ad operare una sintesi (aristotelica) fra Anima e Corpo che gli permetta di vivere felicemente la sua esistenza. E in effetti, che anche il cinema stesso rappresenti una sintesi di aspetti contrastanti emerge chiaramente nel corso della narrazione: Sam vede il cinema inizialmente come un sogno che egli realizzerà da bambino nel suo primo film, The Last Train Wreck, che Spielberg effettivamente girò a 11 anni, poi si rende conto di come esso possa svelare situazioni reali che nella realtà non sono riconoscibili (il rapporto sentimentale fra sua madre e Bennie) e come infine possa far vedere la realtà in un  modo diverso a seconda dello spettatore, come emerge dal dialogo con il compagno di scuola Logan (Sam Rechner) in merito al film girato alla fine dell’anno scolastico con il quale Sam voleva fare un piacere a Logan il quale invece lo interpreta come un’offesa. Ed è questa la vera magia del cinema.

giovedì 27 aprile 2023

“Passeggeri della Notte”, Mikhaël Hers (2022)

Elisabeth (Charlotte Gainsbourg) si trova in un momento difficile della sua vita: operata di un tumore al seno, lasciata dal marito, non ha un lavoro e deve mantenere due figli (apprendiamo durante la narrazione che non riceve con regolarità gli alimenti). Vive nel quartiere di Beaugrenelle nella periferia di Parigi, un agglomerato di palazzi enormi, giganteschi alveari o formicai che hanno come sfondo l’immancabile torre Eiffel. Il film ci mostra Elisabeth alla non facile ricerca di un lavoro. Alla fine troverà due impieghi, uno diurno come bibliotecaria ed uno notturno nell’ambito di una trasmissione radiofonica (“Passeggeri della notte”, appunto) che accoglie telefonate di anonimi insonni in vena di confessione (la metafora della notte come l’interiorità di cui abitualmente, cioè durante il giorno, non parliamo con nessuno è molto calzante). É quindi Elisabeth una donna infelice? La risposta è no e ce lo dimostrano le riprese all’interno del suo piccolo appartamento dove la presenza dei figli e le visite del padre, nonostante le non rare discussioni peraltro comuni ad ogni nucleo famigliare, sprigionano un clima di calore e serenità che il regista sapientemente fa risaltare contrapponendo, alle riprese degli interni, frequenti riprese aeree della fredda e spersonalizzante periferia circostante. Questo è il punto cui Hers vuole arrivare, e cioè a sottolineare che sono le relazioni con i nostri simili che ci salvano nei momenti più difficili della nostra vita. E per sottolineare con maggior forza questo aspetto egli introduce nella narrazione la figura di Talulah (Noée Abita), una giovane priva del tutto di queste relazioni, priva di una famiglia e di amici (da quel che capiamo frequenta solo spacciatori). Elisabeth e Talulah si conoscono grazie alla trasmissione radiofonica. Elisabeth offre a Talulah, che non ha fissa dimora e porta con sé tutti i suoi scarsi averi in uno zaino, la possibilità di dormire presso il suo appartamento; ben presto si crea un legame di amicizia con i figli di Elisabeth ed anzi Matthias (Quito Rayon-Richter) se ne innamora. Ma purtroppo le cicatrici del passato non si rimarginano e la dipendenza dalle droghe non perdona; Talulah quindi non riuscirà a mantenere il legame salvifico con la famiglia di Elisabeth e se ne andrà, lasciando di sé solo un ricordo nel fotogramma di chiusura del film (v. sotto) che ci mostra i quattro protagonisti uniti, sereni e sorridenti.





 

domenica 2 aprile 2023

“Armageddon Time - Il tempo dell’Apocalisse", James Gray (2023)

Fin dalla sua prima opera, “Little Odessa” (1994), James Gray dimostra una particolare attenzione per le dinamiche famigliari, in particolare nelle famiglie ebree di New York. Non stupisce quindi che anche in questo film, la storia si dipani nell’ambito del panorama abituale, vale a dire il quartiere del Queens, e in una famiglia di ebrei di origine ucraina, i Graff, in un momento della storia degli Stati Uniti, il passaggio fra gli anni '79 e '80, caratterizzato dalla campagna elettorale che porterà Ronald Reagan alla presidenza (di Reagan è in effetti la citazione che dà il titolo al film, da lui spesso utilizzata per instillare di volta in volta la paura di un crack economico della nazione o di un prevalere della Russia nella gara per la supremazia mondiale politico-militare). 

È utile, come spesso accade nell'analisi di un film, partire dal manifesto, riportato a sinistra, nel quale non può non colpire la suddivisione a scacchi, tipo puzzle, delle immagini. Ed il motivo di questa raffigurazione è che ogni famiglia è in effetti un puzzle composto dai singoli componenti che creano un quadro comune interagendo fra di loro ed influenzandosi a vicenda, una evidente analogia con la nota XVII meditazione di John Donne (1572-1631) che invece del puzzle utilizzava una metafora geografica. Fra gli elementi della famiglia l’attenzione è richiamata dal nonno materno Aaron (Anthony Hopkins) che riveste il ruolo di saggio consigliere e garante dell’unità della famiglia. E la famiglia Graff ha in effetti bisogno di questa figura. Papà Graff, Irving (Jeremy Strong), è infatti un uomo debole che vuole sembrare forte, il che porta a risultati disastrosi nei rapporti con i figli; la sua debolezza, oltre che costituzionale, deriva da un complesso di inferiorità essendo egli un semplice idraulico, mentre ad esempio la suocera aveva svolto un ruolo di rilievo presso le Nazioni Unite e glielo fa pesare. Mamma Graff, Esther (Anne Hathaway), non svolge un ruolo di spicco nella vita famigliare, quando è in casa si dà alla cucina e preferisce evidentemente realizzarsi all’esterno, nel mondo della scuola, pur tentando di ammorbidire il difficile rapporto fra Irving ed il figlio minore Paul (Michael Banks Repeta). Questi è in effetti un figlio problematico, che oltre a disobbedire per sistema e sfacciatamente ai genitori, non esita a rubare il contante di famiglia e a ideare il furto di un computer della scuola per pagare a sé ed all’amico nero Johnny una fuga in Florida. E quando Paul, dimentico di tutto quello che gli aveva insegnato nonno Aaron in merito al vivere una vita eticamente corretta, si sottrae alle sue responsabilità durante l'interrogatorio alla stazione di polizia negando di aver svolto un ruolo nel furto del computer, lasciando che tutto ricada sulle spalle di Johnny, nero, povero, orfano e privo delle conoscenze di cui egli si può avvantaggiare grazie al padre, eccolo andare incontro al suo Armageddon, alla sua sconfitta personale. Scopo di Gray è quindi di stigmatizzare la sopraffazione del diverso, soprattutto se si trova in una condizione di debolezza, e di invitarci a vivere la vita a schiena diritta, secondo principi etici ineludibili nei rapporti con il prossimo. Temi ben diversi dall’individualismo che Maryanne Trump (Jessica Chastain), sorella del più noto Donald, esalta durante un discorso agli alunni della scuola di Paul, rispecchiando l’individualismo reaganiano. La conclusione di Gray è quindi che l’avvento del repubblicano Ronald Reagan dopo il quadriennio del democratico Jimmy Carter abbia rappresentato un Armageddon Time per gli Stati Uniti? È probabile ma non del tutto condivisibile: il doppio mandato presidenziale che gli americani affidarono a Reagan infatti ebbe sì ombre ma non vi mancarono le luci.

venerdì 10 marzo 2023

“Empire of light”, Sam Mendes (2023)

Dalla commedia di Shakespeare “Pene d’amor perdute” viene la frase Find where light in darkness lies, “Trova la luce nell’oscurità” che vediamo incisa all’ingresso del cinema Empire sito sul lungomare di Margate nell’Inghilterra meridionale, ove si svolge, fra il 1980 e il 1981, la narrazione. Questa frase ha un significato importante ai fini dell'interpretazione del film. Pensiamo, per capirlo, alla serie di dipinti intitolata L’Empire des lumières di René Magritte (che probabilmente il regista ha avuto presente) che rappresenta paesaggi notturni sovrastati per contrasto da un cielo diurno, a sottolineare che la luce c’è anche nel buio, basta cercarla, proprio come intendeva Shakespeare. Ed eccola la luce che attraversa il buio della sala cinematografica e proietta sullo schermo “Oltre il giardino” (Hal Ashby, 1979) evocando in Hilary (Olivia Colman) un pianto gioioso e liberatorio. Il potere terapeutico dell’immagine filmica nel lenire la tragedia della vita, questo ci vuole comunicare il regista. Concetto questo che troviamo ampliato nel finale dell’ultimo romanzo di Michel Houllebecq “Annientare” (2022): Nous aurions eu besoin de merveilleux mensonges, “Avremmo avuto bisogno di meravigliose menzogne”, le meravigliose menzogne che l’arte e l’immaginazione ci forniscono per dimenticare il terribile grido che il satiro Sileno, nel dialogo con re Mida ricordato da Nietzsche ne “La nascita della tragedia” (1872), rivolge alla stirpe umana. Grido che riverbera identico in Death’s echo (1936) di W.J. Auden, poesia che Hilary recita durante una importante prima al cinema e nella quale la Morte ricorda letteralmente: “non esser nato è il meglio per l’uomo" ed esorta quindi nel verso finale a cercare un rimedio nella follia: “Balla, balla, balla finché non crollerai”. Ma tornando alla luce, ve n’è un’altra, questa volta metaforica, che illumina la triste vita di Hilary, vicedirettrice dell’Empire, donna di mezza età, sola, un rapporto difficile con i genitori alle spalle, preda delle voglie del viscido direttore Donald Ellis (Colin Firth) e verosimilmente affetta da sindrome bipolare, ed è l’arrivo di Stephen (Micheal Ward), giovane di colore, neo-assunto al cinema, con il quale instaura una relazione dapprima amichevole e poi amorosa, quest’ultima, come prevedibile data la differenza di età, destinata a non durare. La fine di questo amore porta Hilary ad un crollo psicologico profondo che culmina nel ricovero in un istituto psichiatrico. E a questo proposito fa riflettere la facilità con cui soggetti con disagio psicologico potevano essere emarginati attraverso l’internamento coatto, nel desiderio più o meno manifesto di "spazzare la polvere sotto il tappeto", cioè di nascondere il diverso, come ben spiega Michel Foucalt nella “Storia della Follia nell’età classica” (1961). E pensare che con un po’ di umanità ed un approccio fenomenologico al problema, come ha insegnato Karl Jaspers, tante situazioni di disagio si sarebbero potute risolvere senza ricorrere alla soluzione disumana dell'internamento. Ma dopo la crisi il passato deve morire, come muore l’anno vecchio ogni 31 dicembre, concetto che Hilary ricorda attraverso le parole della poesia di Tennyson Ring out wild bells (1850). E una volta morto il passato tutto ricomincia e Hilary lo fa presente a Stephen regalandogli una raccolta di poesie di Philip Larkin in cui gli segnala The trees  (1967) che canta la rinascita della vegetazione all’arrivo della primavera, una metafora dell’inizio della nuova vita di Stephen come studente di architettura, cosa che, oltre a rappresentare la realizzazione di un suo sogno, lo allontana presumibilmente dalle violente manifestazioni di razzismo sopportate a Margate. E questa poesia ritorna nelle parole di Hilary nel finale, mentre sorseggia una tazza di the sul lungomare insieme al proiezionista Norman (Toby Jones) e all’impiegato Neil (Tom Brooke): “Ancora la chioma [degli alberi] s'agita nell’esuberanza di ogni maggio. L’anno passato è morto, sembran dire, orsù inizia di nuovo, di nuovo, di nuovo”, e sorride guardando all’orizzonte e progettando, ci piace immaginare, un futuro più felice. 

giovedì 23 febbraio 2023

"The quiet girl", Colm Bairéad (2023)

 

Cáit (una perfetta Catherine Clinch) vive in ristrettezze economiche con la numerosa e problematica famiglia (tre sorelle, un fratello neonato ed un altro in arrivo, padre bevitore che getta i soldi scommettendo sui cavalli e madre comprensibilmente devastata) in una fattoria irlandese negli anni '80. Perché Cáit è una "ragazza quieta"? Non ha una sindrome psichiatrica, per esempio dello spettro autistico, tutt'altro, è una bambina dotata di una sensibilità acutissima che mal tollera il disagio della vita in quel tipo di famiglia. E quindi non parla, si nasconde (nell'erba, quasi invisibile, rannicchiata in posizione fetale nella bella immagine iniziale, o sotto il letto) e fugge il rapporto con le compagne di scuola e le sorelle, rozze e sgradevoli. 

La svolta nella vita di Cáit avviene quando i genitori, stanchi di avere fra i piedi questa "musona", decidono di mandarla a passare l'estate da lontani parenti della madre in un'altra fattoria. Qui Cáit viene accolta con affetto materno da Eibhlín (Carrie Crowley), mentre il marito Seán (Andrew Bennett) dimostra nei suoi confronti un atteggiamento inizialmente distaccato che poi però gradualmente diviene sempre più affettuoso. Ed è in questo contesto che Cáit si rende conto dell'esistenza di una serie di antitesi, in linea con il pensiero strutturalista, esistenti fra la sua famiglia e quella di Eibhlín e Seán: famiglia numerosissima/famiglia a due membri, disordine e sporco/ordine e pulizia, menefreghismo/attenzione per gli altri. Ella capisce in altre parole che può esistere un altro mondo contrapposto al suo di origine. Pensiamo ad esempio alla cucina, dove si svolge buona parte delle riprese: quella di Eibhlín e Seán è un luogo dove ci si sente protetti, riparati dai pericoli come metaforicamente il vento che squassa gli alberi fuori dalla finestra. Ed è un posto dove si chiacchiera tranquilli, mentre la cucina della casa di Cáit è un antro lercio e inospitale dove si litiga e il cibo scarseggia. Ma perché Seán appare inizialmente indifferente alla presenza della bambina? Ebbene, anche in questa casa felice esiste una macchia: la morte dell'unico figlio, annegato in una vasca di liquami. E quindi Eibhlín riversa immediatamente su Cáit tutto il suo amore, vedendo in lei l'immagine del figlio perduto, mentre Seán teme più o meno inconsciamente di tradire il ricordo del figlio nel dimostrare affetto per la bambina. Ma con il tempo Seán diventa per Cáit un padre nel senso non solo affettivo ma anche di guida, le insegna infatti il valore ed il peso delle parole e l'importanza di tacere al momento opportuno ed ha l'intelligenza di capire l'importanza di incoraggiare questa creatura, frustrata nell'anima, esortandola a correre e mostrandole, cronometro alla mano, i suoi miglioramenti. Tutto nella vita ha però una fine e Cáit in autunno deve tornare a casa. Un ritorno imbarazzante e triste cui Cáit cerca di sottrarsi questa volta senza nascondersi, ma correndo verso Eibhlín e Seán. Saggiamente il regista non ci mostra fino in fondo l’epilogo della vicenda (vediamo solo il padre della bambina che si affretta per recuperarla) e nei nostri occhi rimane solamente l'immagine struggente dell'intenso abbraccio fra Cáit e Seán.  

sabato 11 febbraio 2023

“Le otto montagne”, Felix van Gröningen e Charlotte Vandermeersch (2022)

 

Il manifesto del film, riportato qui a fianco e che ci mostra il tetto della baita costruita da Bruno (Alessandro Borghi) e Pietro (Luca Marinelli) per volontà del primo di esaudire il desiderio di Giovanni (Filippo Timi), padre del secondo, riassume in modo esemplare i temi principali del film. Il tetto della casa rispecchia infatti la montagna retrostante, come per dire che la montagna è la casa, è il posto dove ci si rifugia e si ritrova se stessi, un posto da cui Bruno non riuscirà mai a staccarsi, al prezzo di abbandonare la figlia e la moglie. Ed è il posto dove Giovanni dopo una vita intera di lavoro accanito e non amato, circondato dal fumo della città e delle innumerevoli sigarette, avrebbe desiderato trasferirsi. E Bruno, dall’alto, guarda l’amico di una vita Pietro, in basso; egli è in alto perché è lui il vero uomo della montagna, in cui si muove con maestria e al di fuori della quale non riesce a vivere, mentre Pietro vive in una sorta di terra di mezzo, a suo agio sia nella città che nella montagna. Giovanni, come abbiamo visto, rappresenta una terza categoria, la più infelice: vive e lavora malvolentieri in città riuscendo a strappare pochi momenti fra le amate montagne ed il fato gli impedirà di esaudire il suo desiderio di soggiornarvi a lungo alla fine della vita lavorativa. La montagna è quindi un veicolo che permette di addentrarsi nelle storie di vita dei protagonisti, storie che possono essere approfondite come ad esempio il rapporto che i due giovani hanno con il loro padri, un rapporto difficile per entrambi. Apprendiamo però dalla narrazione che Giovanni ha instaurato con Bruno, l'amico del figlio, un buon rapporto di tipo paterno-filiale, sempre grazie all’ambiente montano. Ed è interessante anche studiare la personalità di Bruno, in particolare la sua testardaggine nel sacrificare ogni cosa alla montagna fino a rinunciare alla moglie ed alla figlia pur di non accettare un impiego stagionale in un impianto di risalita perché lo avrebbe allontanato dalle sue vette. Il solo ambiente non può spiegare questo comportamento, devono esserci delle motivazioni, forse genetiche, ma più probabilmente legate al pessimo rapporto con il padre, personaggio quasi inesistente che però quando appare strappa il giovane Bruno alla montagna per portarlo a fare il muratore e in più gli impedisce di accettare l’offerta dei genitori di Pietro di continuare gli studi vivendo con l'amico nella sua casa di Torino. Restano le otto montagne, cosa stanno a significare? Ce lo dice un anziano nepalese che spiega a Pietro come il mondo sia costituito da 8 montagne intercalate da otto mari, il tutto disposto a raggiera in un cerchio al centro del quale si trova il monte Sumeru. E la domanda è: avrà imparato di più, colui che ha scalato le otto montagne o chi si è limitato a scalare il Sumeru? Personalmente ritengo che la risposta non sia univoca ma che dipenda dal singolo soggetto: Pietro ha girato il mondo ed ha imparato ciò che gli interessava come anche Bruno, che non è mai uscito dalla cerchia delle sue montagne, ha imparato ciò che interessava a lui.

martedì 7 febbraio 2023

“Gli spiriti dell’isola”, Martin McDonagh (2022)

Perché Colm (Brendan Gleeson) di punto in bianco decide di non voler più parlare con il suo una volta amico per la pelle Pádraic (Colin Farrell)? È la domanda che lecitamente si pone lo spettatore per la prima metà del film. Quando veniamo a conoscere il motivo del comportamento di Colm e cioè che egli ha deciso di non sprecare più il suo tempo in chiacchiere con il noioso Pádraic, per dedicarsi ad attività più pregnanti come comporre musica, ci appare chiaro che non può essere quello il tema principale della narrazione. 
Di cosa quindi si tratta? Un aiuto ci viene dal considerare la filmografia di McDonagh, da “In Bruges” (2008) a “7 Psicopatici” (2012) a “Tre manifesti a Ebbing, Missouri" (2017) in cui la violenza nei rapporti fra gli esseri umani è il tema ricorrente, sempre trattato in modo surreale e con note di umorismo dark molto britannico (McDonagh è inglese, ma di origini irlandesi) . La conferma che di questo tema si tratta la ricaviamo dal film ed è il cannoneggiare che occasionalmente gli abitanti della piccola ed immaginaria isola di Inisherin, in cui si svolge la narrazione, sentono provenire dall’Irlanda, dove è in corso la guerra civile del 1922-1923; il litigio tra amici nella piccola Inisherin rappresenta quindi una analogia in sedicesimo della guerra civile, fra connazionali appunto, che si svolge nella grande Irlanda. Ecco che ancora una volta McDonagh lancia il suo messaggio contro la violenza, sia privata che pubblica, un messaggio pessimista poiché gli uomini continuano a combattersi e litigare nonostante gli avvertimenti che ad essi provengono nel film sia dalla mitologia celtica nella figura della Banshee impersonata da Mrs McCormick (Sheila Flitton) in veste non solo metaforica (vedi la rappresentazione sottostante di questa figura mitologica in un disegno del 1825), che predice il verificarsi dei decessi, che dalla religione, come testimoniato dalla croce celtica che domina il porto e dalla statua della Madonna che sorge, guarda caso, all’incrocio che a destra porta alla casa di Colm ed a sinistra a quella di Pádraic.

Ma non solo mito e religione tentano di richiamare gli esseri umani all’ordine, la Natura stessa lo fa nelle vesti degli animali che si aggirano fra questi uomini e li guardano litigare, stupiti come il pony che scruta l’interno della casa dalla finestra, in un ruolo identico a quello del cerbiatto e dei cavalli che abbiamo visto in “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”. Siamo quindi inevitabilmente condannati come Umanità ad una guerra perenne? Forse no: nel pessimismo che pervade la narrazione va sottolineato un dettaglio: all’inizio del film, quando Pádraic si reca da Colm per invitarlo a bere al pub, è presente sullo schermo alla sinistra dello spettatore, una porzione di arcobaleno, come per dire, in una rappresentazione circolare del tempo, che dopo la fine della tempesta (il cielo nuvoloso dell’ultima inquadratura) la pace è sempre possibile. 

venerdì 3 febbraio 2023

“Aftersun”, Charlotte Wells (2022)


Sophie (Francesca Corio da bambina e Celia Rowlson-Hall da adulta), trentenne scozzese, rivive una vacanza passata vent’anni prima in Turchia con il padre Calum (Paul Mescal) attraverso le immagini di alcuni video, intercalate con i suoi ricordi. Può sembrare una trama banale, ma l’abilità della regista sta nel farci “entrare” nei due personaggi quasi come se essi diventassero propriamente parte di noi. Di questa coppia apparentemente felice e spensierata impariamo quindi a riconoscere la depressione di Calum, ad intuire che nel rappresentarlo con il braccio ingessato per una frattura del polso la Wells vuole esprimere la frammentazione della sua anima, l’anima di un trentenne che, parlando con un istruttore di snorkeling, gli dice di stupirsi di essere arrivato a quell’età e che gli sembra impossibile arrivare a quarant’anni. Ed il suo impegnarsi in atteggiamenti rischiosi (gettarsi in mare di notte vestito, mettersi in piedi sulla ringhiera del terrazzo in equilibrio instabile, attraversare la strada senza curarsi dell’autobus che lo sfiora) fanno presagire quale potrà essere l’epilogo della sua vita, non mostrato nel film, ma molto verosimile. Non che egli si lasci andare senza opporre resistenza al suo disagio psicologico, lo vediamo infatti impegnato nel Tal-Chi, apprendiamo che legge manuali sulla meditazione, assistiamo ai suoi tentativi di partecipare alla vita di società del villaggio-vacanze, ma inutilmente: per restare nella metafora, vediamo le difficoltà che ha nel togliersi il gesso dal braccio, poi si sottrae al karaoke programmato da Sophie e non accenna nemmeno un sorriso quando Sophie organizza un coro di auguri con gli altri ospiti del villaggio il giorno del suo trentunesimo compleanno. Come dice la figlia, Calum non sta per compiere 31 ma 131 anni; lei crede di essere spiritosa, ma esprime in questo modo il reale esaurimento dell’anima del padre.         

E cosa dire di Sophie? È una bambina di undici anni, spensierata e felice come si dovrebbe essere a quell'età, anche se ha alle spalle il divorzio dei genitori, peraltro rimasti in buoni rapporti. La vediamo intrecciare un flirt innocente con un coetaneo, assistere perplessa ai rapporti di un gruppo di adolescenti fra alcol e pomiciate in piscina, opporsi infastidita all’abitudine del padre di mettersi a ballare nei momenti più inconsueti. E proprio il ballare di padre e figlia, che la Wells ci mostra a tratti, illuminato da luci stroboscopiche in discoteca, sembra farci intuire, attraverso l'espressione disperata di lui e quella algida di lei da adulta, la drammatica incomprensione che potrà svilupparsi fra i due il cui ricordo, forse, Sophie adulta vuole lenire guardando i video della vacanza, proprio come la lozione dopo sole (da cui il titolo del film) che il padre le applicava durante la vacanza leniva le scottature solari. Non a caso utilizzo i termini “forse" e “potrà”, perché il segno distintivo di questo film sta proprio nel non detto (come anche nel caso del presumibile fine-vita di Calum), nel lasciare quindi lo spettatore libero di interpretare l’opera secondo la sua sensibilità.