sabato 3 giugno 2023

"Rapito", Marco Bellocchio (2023)


Vi sono per un'opera d'arte due livelli di valutazione, uno puramente estetico ed un altro riguardante il messaggio che l'opera vuole trasmettere, quella che Arthur C. Danto definisce aboutness, cioè l'essere l'opera a proposito di qualcosa. Quest'ultima categoria di giudizio ha ovviamente particolare rilevanza quando l'opera in oggetto è ispirata a fatti realmente avvenuti, nel qual caso va valutato anche come i fatti vengono riportati.

Tenendo presenti questi presupposti veniamo all'analisi del film. Visto che abbiamo parlato di valutazione estetica, pur non rientrando negli scopi di questo blog l'esprimere giudizi in questo ambito, ritengo che "Rapito" sia da questo punto di vista un'opera valida sui piani canonici quali regia, fotografia, sceneggiatura, ecc; la narrazione è nel suo insieme sopra le righe ed i personaggi tagliati con l’accetta, ma questo aspetto rientra nello stile del regista e può quindi piacere o non piacere.

Oggetto della narrazione è la vicenda, realmente avvenuta, del piccolo Edgardo Mortara (Enea Sala da bambino e Leonardo Maltese da ragazzo), forzatamente allontanato dalla sua famiglia di ebrei bolognesi ad opera della gendarmeria vaticana nel 1858 all'età di 7 anni poiché, essendo stato battezzato di nascosto da una domestica, non poteva rimanere in una famiglia ebraica. La giovinezza di Edgardo trascorre quindi a Roma nella scuola dei catecumeni del Vaticano. In questo periodo si verifica la metamorfosi di Edgardo: inizialmente, e comprensibilmente, terrorizzato, in seguito, con la malleabilità tipica dei bambini, si adatta presto alla nuova situazione, facilitato in ciò dalla convivenza con suoi coetanei. Questo processo di adattamento presenta però alcune falle; a parte la visita della madre che avviene poco dopo il rapimento ed è comprensibile quindi che abbia scatenato una reazione di rivolta del bambino nei confronti dei religiosi, dopo una decina d’anni, durante una cerimonia religiosa Edgardo si getta a baciare la mano del papa che lo ha fatto rapire, Pio IX (Paolo Pierobon), con una foga tale da farlo cadere a terra: eccesso di amore o desiderio inconscio di aggredire il rapitore? Non lo sapremo mai per certo, ma in un’altra occasione vi sono ben pochi dubbi nell’interpretazione della reazione di Edgardo. Quando all’età di 27 anni, nell’accompagnare il feretro del Papa alla sepoltura in S. Lorenzo, egli rimane coinvolto in un'aggressione al corteo funebre da parte di ribelli al potere temporale che vogliono gettare il cadavere nel Tevere (lo spirito di piazzale Loreto non rappresenta quindi una novità), Edgardo dapprima si ribella all'aggressione e poi, come in trance, si unisce urlando ai rivoltosi. Questo episodio rappresenta il punto nodale del film e cioè che la religione è solo una patina verniciata sull’individuo, ma al di sotto di questa patina rimangono le pulsioni autonome, pronte a scatenarsi nel momento opportuno. Si tratta di un evidente attacco al concetto di fede,  piedistallo delle religioni monoteiste. Tutte, ma non l'ebraismo. La madre di Edgardo (Barbara Ronchi), che vediamo disperata per tutto il film per la perdita del figlio, riceve la visita di Edgardo mentre è in punto di morte e in questa occasione egli cerca di battezzarla, come fece con lui la domestica, allo scopo di evitarle la permanenza eterna nel Limbo, ma essa gli ferma la mano dicendo “Sono nata e morirò ebrea" contrastando quindi il desiderio del figlio la cui perdita aveva segnato tutta la sua vita. Ma l’ebraismo è diverso da tutte le altre religioni perché, oltre alla fede, in esso vi è il senso di appartenenza a un’etnia, cosa che le altre religioni non possiedono. Non è quindi la fede ma il senso di appartenenza, sembra dirci Bellocchio, che porta ad aderire a un credo.

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