giovedì 29 giugno 2023

"Le immagini che curano"


L’ordine di citazione nel testo è da sinistra a destra, dall’alto in basso

Le immagini non sono la realtà: o sono una astrazione, frutto di pura fantasia, o imitano la realtà; dal fatto di non essere reali nasce la scarsa considerazione che i filosofi greci, alla ricerca perenne della verità, avevano per esse.

D’altro canto, l’Umanità è da sempre alla ricerca di una via di fuga dal mondo materiale di tutti i giorni, con i suoi affanni, preoccupazioni, ansie e dolori e le immagini, grazie alla loro irrealtà, rappresentano uno dei modi di rifugiarsi in quella zona a metà strada fra trascendenza ed immanenza, fra divino ed umano, fra spirito e corpo, che Platone definiva “metaxù” e che costituisce un rifugio per tutti noi, per allontanarci almeno temporaneamente dai demòni che ci affliggono e trovare un po’ di ristoro spirituale. 

L’immagine ha quindi in sé un potenziale di cura, esercitata attraverso il distacco dalla vita materiale, un potenziale che si può articolare in tre diverse modalità:

  • In un senso più propriamente terapeutico le immagini possono aiutare nella cura di malattie, siano esse del corpo o della mente.
  • Non tanto l’osservare, ma il produrre immagini può fornire un sollievo al disagio psicologico arrecato da precedenti traumi o esperienze negative (come d’altro canto può fare anche la scrittura).
  • Anche a chi non soffre di malattie del corpo, degli esiti di traumi o di disagio psicologico, l’immagine fornisce comunque una cura per le fatiche e i dispiaceri della vita di tutti i giorni.

A partire dal tardo Medio Evo troviamo molti esempi dell’impiego delle immagini come terapia, ad esempio nei polittici di Rogier van Der Weyden all’Hôpital Dieu di Beaune (1443-1451) e di Matthias Grünewald all’ospizio di Issenheim (1505-1515). Nel primo, attraverso la metafora del Giudizio Universale, si sottolineava l’importanza di essere buoni cristiani sia per andare in Paradiso che, in senso traslato, per ottenere la guarigione e nel secondo la rappresentazione realistica e brutale delle sofferenze di Cristo in croce doveva essere di consolazione a chi stava soffrendo per una malattia del corpo, facendolo sentire simile a Cristo nella sofferenza. Anche la Madonna (figura materna per definizione) rientra in questo ambito di sollievo della sofferenza, in particolare nell’immagine che la raffigura con il mantello aperto per accogliere sotto di esso, e quindi proteggere, i suoi fedeli, anche dalle malattie. Prendiamo ad esempio il polittico della Misericordia di Pier della Francesca a San Sepolcro (1445) o anche un affresco in S. Maria della Scala a Siena (Domenico di Bartolo, 1444), dove la metafora della Madonna con il mantello aperto è chiaramente spiegata nella didascalia che così inizia Haec Beatae Mariae Virginis Imago sub Amictu suo Populum Christianum Protegens.

Nel Rinascimento l’aiuto a tollerare e guarire le malattie viene affidato non tanto ad immagini di Gesù Cristo o della Madonna, quanto ai Santi, forse un modo per essere più vicini a chi soffre poiché i Santi sono esseri umani. Vediamo allora il Tintoretto che dipinge per la scuola di S. Rocco a Venezia l’immagine di San Rocco che risana gli appestati (1564-1567) imponendo le mani sui loro bubboni, e quindi toccandoli, un modo appunto per essere anche fisicamente più vicino a chi si trova in condizioni di sofferenza.

Ai nostri giorni non manca l’attenzione al benessere psicologico dei ricoverati in ospedale, anche perché è ben definito che stati di depressione portano ad una ridotta attività del sistema immunitario, necessario per difendersi dalle malattie. È infatti molto frequente che in reparti particolari come quelli di Oncologia o di Pediatria si provveda a dipingere o adornare le pareti con immagini e colori che possano ispirare serenità, in generale non a tema religioso e questo sia per la secolarizzazione che caratterizza i nostri tempi che per la presenza sempre più frequente di ricoverati di diversi tipi di credo religioso. Questi ornamenti non vengono considerati oggi opere d’arte e forse non lo saranno nemmeno nei secoli a venire, ma l’importante è ottenere lo scopo di aiutare chi si trova in condizioni da sofferenza. 

L’immagine cinematografica svolge un ruolo importante nel produrre sollievo psicologico; vi sono evidenze scientifiche che ne sottolineano il ruolo come integratore della cura di malattie oncologiche, oltreché della mente. Un esempio classico ed usato correntemente in cinematerapia è “Momenti di Gloria” di Hugh Hudson (1981). La trama è nota, si tratta della storia di due atleti dilettanti che riescono a partecipare alle olimpiadi di Parigi del 1924 dopo aver superato difficoltà di ogni genere. Coadiuvato dalla colonna sonora di Vangelis (indimenticabile la scena iniziale del gruppo di giovani atleti che corrono lungo la spiaggia), questo film induce senso di fiducia in se stessi, nella propria capacità di superare gli ostacoli (e quindi anche le malattie), sottolineando anche il ruolo dell’amicizia nello svolgere questo compito. Va detto che l’efficacia del cinema non si limita solo ad aiutare gli ammalati, chiunque infatti si trovi in condizioni di sconforto non può non riportare un sollievo dalla visione di questa, come anche di numerose altre, opere cinematografiche.

Produrre immagini per alleviare le proprie sofferenze rientra, come detto in precedenza, nell’ambito dell’immagine come cura. Di esempi ve ne sono diversi, fra i quali molto noto quello di Magritte. Una caratteristica di molte opere di questo artista è la rappresentazione di figure umane con il volto coperto da un panno bianco. È vero che in alcuni casi, per esempio “Gli Amanti” (1928) che raffigura una figura maschile ed una femminile che si baciano con i volti appunto coperti da un panno bianco, si può pensare ad una metafora dell’esistenza di una incomunicabilità fra gli esseri umani tale da impedire di stabilire un rapporto anche con un semplice bacio, ma sta di fatto che Magritte quattordicenne assistette al recupero del cadavere della madre morta suicida nel fiume Sambre e ripescata con il volto coperto da un panno bianco. È quindi estremamente probabile che per il pittore belga la creazione di queste immagini abbia rappresentato un modo per esorcizzare questo terribile ricordo. 

Abbiamo detto che l’immagine può essere di aiuto anche a chi non è affetto da malattie o dal ricordo di traumi. Un primo esempio di questo utilizzo delle immagini ci viene dai “Tronfi della Morte”, di cui in Italia abbiamo tre splendidi esempi, a Clusone in val Seriana (riportato in figura), a Pisa nel Camposanto Monumentale e a palazzo Abatellis a Palermo, tutti risalenti alla seconda metà del ‘400. Il tema è sempre lo stesso: vi è la Morte, rappresentata come uno scheletro, che, coadiuvata da altri scheletri, trafigge chi le capita a tiro, senza badare se si tratti di ricchi, poveri, nobili, religiosi. Il fatto che la Morte colpisca tutti indistintamente doveva essere un messaggio di consolazione per le fasce più povere della popolazione facendo sì che si sentissero sullo stesso piano dei ricchi e potenti di fronte ad essa. Nel caso di Clusone alla base dell’affresco è dipinta anche una Danza Macabra nella quale il messaggio di uguaglianza viene rinforzato dalla presenza di una schiera di scheletri che camminano insieme a rappresentanti delle varie fasce della popolazione, tutti messi appunto sullo stesso piano.

Se ci spostiamo in avanti di 400 anni abbiamo come esempio di dipinto atto ad evocare sensazioni di pace e tranquillità la “Domenica pomeriggio all’isola della Grande Jatte” (1884-1886) di George Seurat. Nel guardare questo quadro non si può non essere presi da queste sensazioni, a causa dell’immobilità dei personaggi, loro stessi talmente estraniati dalla vita materiale da portare anche l’osservatore sulle rive della Senna. Seurat raggiunge questo effetto di immobilità grazie all’uso sapiente della tecnica del “pointillisme”, intensificando questa immobilità, per contrasto, con un effetto-movimento affidato a due soli personaggi, peraltro estranei al mondo degli adulti: una bambina e un cagnolino che saltellano. 

Per quanto riguarda infine la fotografia, senza considerare le immagini volutamente comiche che per loro natura evocano una immediata e fugace reazione di riso, i meccanismi attraverso i quali questo mezzo può influenzare la mente in senso positivo sono sostanzialmente due. Da un lato abbiamo immagini fotografiche che instillano un senso di tranquillità e serenità, come ad esempio nei paesaggi in bianco e nero del fotografo marchigiano Mario Giacomelli in cui all’idea di un movimento fluido espressa dai solchi sinuosi dell’aratro sulla terra, simili ad onde, fa da contrasto, in modo inverso rispetto a Seurat, l’immobilità dei gruppi di alberi. Dall’altro vi sono immagini fotografiche che stimolano l’immaginazione dell’osservatore a “creare” una storia: ad esempio in un prato coperto di neve fotografato di notte con uno sfondo di rocce ed alberi, illuminato dalla luna piena velata dalle nuvole cosa potrebbe essere successo o cosa potrebbe succedere? O ancora un uccello che spicca il volo verso il sole basso sull’orizzonte: se immaginiamo un’alba potremmo pensare ad un’anima che inizia il nuovo giorno spiegando fiduciosamente le ali, se invece immaginiamo un tramonto, questa stessa anima potrebbe essere stata ripresa nell’atto di spiccare serenamente il volo verso l’eterno riposo. 

In conclusione si può dire che la capacità di cura delle immagini è strettamente dipendente, a prescindere dal mezzo impiegato per produrle, dalla capacità della mente umana, se opportunamente stimolata con metafore ed allegorie, di creare mondi diversi da quello abituale in cui viviamo tutti i giorni.


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