sabato 29 dicembre 2018

“Cold War”, Pawel Pawlikowski (2018)

Zula (Joanna Kulig) e Wiktor (Tomasz Kot) come i duellanti di Ridley Scott si incontrano, si lasciano, si ritrovano e poi si lasciano di nuovo in duelli amorosi in cui si combinano passione intensa ed  altrettanto intense incomprensioni, il tutto nell’Europa del periodo più caldo (1949-1964), per così dire, della guerra fredda.
Una selezione di partecipanti ad uno spettacolo di canti e danze popolari polacche fa da cornice al loro incontro: lui fa parte della commissione esaminatrice e lei del gruppo degli esaminandi. E’ lecito il dubbio che Wiktor possa far valere il suo ruolo di esaminatore per possedere Zula e/o che questa possa sfruttare il suo fascino allo scopo di essere selezionata. I due sono invece veramente innamorati, ma le vicende della vita e le scelte individuali cui nessuno dei due riesce a rinunciare ben presto intervengono a condizionare la loro storia. Tralasciando per brevità di elencare tutte le occasioni in cui Wiktor e Zula rescindono il loro rapporto in modo apparentemente, ma solo apparentemente, irreversibile, arriviamo al punto centrale del film, alla domanda che sottende il dipanarsi della vicenda: può esistere il vero Amore, con la a maiuscola, se da entrambe le parti non vi è disponibilità a cedere di un millimetro ai desideri ed alle scelte dell’altro/a? Domanda assai difficile alla quale i latini rispondevano riconoscendo l’esistenza di due tipi di amore, uno definito dal verbo “amare”, caratterizzato da  una passione istintiva, selvaggia, passionale, ciò che potremmo oggi chiamare “amour fou”, l’altro invece definito dal verbo “diligere”, accomunato nell’etimo a “eligere" cioè eleggere, che indica appunto un amore in cui la scelta della persona cui dedicare il proprio affetto viene operata non solo su basi emotive ma anche razionali, prevedendo quindi la possibilità di un adattamento delle proprie posizioni a quelle dell’altro/a. Wiktor e Zula rientrano nella prima categoria, sono preda di un amore passionale destinato a sfociare non in un rapporto di convivenza, di matrimonio, nella formazione di una famiglia, ma nella distruzione dei due protagonisti. Distruzione che leggiamo nell’espressione dei loro volti, progressivamente induriti dalla disillusione e nel ricorso all’alcol in particolare da parte di Zula, Zula che arriva ad immolarsi sposando, e dando lui un figlio, il burocrate Kaczmarek (Borys Szyc) pur di liberare Wiktor da una prigionia disumana. E così il film giunge alla fine, nella stessa chiesa diroccata nei cui pressi abbiamo visto all’inizio del film Kaczmarek, campione del materialismo storico, volgarmente mingere contro un albero, indifferente alla sacralità del luogo. Qui, ove è chiara la testimonianza della morte del sacro, muore anche l’amore folle (e forse per questa follia sacro anch’esso) di Wiktor e Zula. La frase di quest'ultima che chiude il film “Andiamo dall’altra parte perché là la vista è migliore” fornisce infine una risposta alla nostra domanda: sì è vero, l’Amore con la a maiuscola esiste, ma non in questo mondo.

domenica 23 dicembre 2018

“Roma”, Alfonso Cuarón (2018)

“Roma" non necessita in realtà di una analisi; fra i tanti suoi pregi  questo film ha infatti quello di essere adatto ad una visione puramente emozionale, non filtrata da speculazioni di cinefili, critici ed ermeneuti. Ciò che Alfonso Cuarón riesce a fare come regista, scrittore e sceneggiatore è infatti avvincere lo spettatore per tutti i 135 minuti di proiezione narrando in bianco e nero vicende semplici, che capitano tutti i giorni in tutto il mondo, con uno stile che può ricordare quello di Yasujirō Ozu, quindi un cinema contemplativo e minimale, attento ai dettagli. Il tutto con una sensibilità ed una attenzione per i sentimenti e le emozioni che si distacca nettamente dallo stile di altri registi, come ad esempio Michael Haneke, che studiano sì attentamente i loro personaggi ma con con lo scrupolo e l’assenza di empatia di un entomologo che descrive la vita degli insetti.
E’ dunque il microcosmo di una famiglia medio-borghese di Città del Messico nel 1970-71 l’oggetto di “Roma” (nome di un quartiere della città),  un microcosmo al  di fuori del quale esiste però un mondo più grande la cui esistenza  Cuarón ci ricorda insistentemente con immagini lontane di jet che solcano il cielo. Attraverso lunghi piani-sequenza il regista ci accompagna nell’esplorazione di questo microcosmo, dove seguiamo le vicende di due donne, la padrona di casa Sofia (Marina de Tavira) ed una delle sue cameriere, Cleo (Yalitza Aparicio), i cui compagni fedifraghi non esitano a lasciare in difficoltà. La prima viene infatti abbandonata dal marito Antonio (Fernando Grediaga) con quattro figli da crescere e scarse risorse per farlo e la seconda viene abbandonata dal compagno Fermin (Jorge Antonio Guerrero) non appena rimane incinta. Queste vicende di vita portano le due donne a superare i limiti di una società classista in cui perfino le tate dell’alta borghesia si ritengono superiori a quelle della media borghesia (ma l’onda lunga del 68 è in arrivo anche nel Centroamerica, come ci dicono le dimostrazioni studentesche che affollano le strade), a significare come le sofferenze siano un catalizzatore importante dei rapporti umani. Rapporti che Cuarón legge ed interpreta con attenzione attraverso i gesti; pensiamo ad esempio ai diversi abbracci che vediamo nel film, quello affettuoso di Cleo in secondo piano con il piccolo Pepe (Marco Graf) che contrasta con quello glaciale di Antonio in primo piano con Sofia che sembra illudersi di poter recuperare il matrimonio, o ancora l’abbraccio liberatorio dopo la mancata tragedia sulla spiaggia, in cui Sofia, i quattro figli e Cleo appaiono come un tutt’uno, ritratti contro sole. Ma anche le espressioni del viso contano, pensiamo alla intensità di Cleo, sul cui viso Cuarón si attarda spesso, ad esempio quando, incinta, guarda con tenerezza i neonati nel nido dell’ospedale o quando fissa la tazza di liquore sfuggitale di mano rompersi a terra, impaurita poiché probabilmente vi vede il presagio di ciò che avverrà in sala parto. E sullo sfondo di queste vicende umane, quasi a ricordarne la piccolezza in un quadro cosmico, ecco la Natura nella doppia veste archetipica di Grande Madre e Madre Terribile, rappresentata da acqua e fuoco, capaci di distruggere, ma anche di ripulire il mondo e riportare la vita.

sabato 1 dicembre 2018

“A private war”, Matthew Heineman (2018)

Prima di capire quale sia la guerra privata che dà il titolo al film dobbiamo entrare nella personalità della protagonista, la famosa reporter di guerra Marie Colvin (Rosamund Pike). All’inizio la sua mascolinità quasi esibita non la rende particolarmente simpatica: oltre al turpiloquio, all’eccesso di alcol e tabacco, al comportamento arrogante e prepotente, arriva ad adescare in un bar il compagno di una notte. Procedendo nella narrazione il regista ci porta però gradualmente a conoscere meglio Marie e a comprenderne di conseguenza i comportamenti, iniziando con l'infanzia, caratterizzata dal rapporto ambivalente con il padre, da lei ammirato ma al contempo avversato poiché la privava della libertà, libertà che Marie ha sempre voluto tutelare anche in seguito, nell’ambito lavorativo. E  più avanti il desiderio di un figlio che non riuscirà ad avere, desiderio frustrato che Marie trasferisce sui bambini vittime di guerra, motivo ricorrente nei suoi reportage, e anche sul giovane fotografo Paul (Jamie Dornan), per lei il figlio mai avuto. In definitiva, la mascolinità esibita da Marie rappresenta probabilmente una corazza costruita per nascondere le proprie debolezze e contraddizioni. Sullo sfondo di queste si manifesta infine la guerra privata di Marie: quella fra la sofferenza provata nell’assistere alla sofferenza altrui e il senso del dovere di descriverla a tutto il mondo. E questo senso del dovere le costerà caro, inizialmente con la rottura di un rapporto d’amore, in seguito con la perdita dell’occhio sinistro in battaglia (come non ricordare al proposito Edipo e Tiresia, entrambi accecati per aver voluto troppo vedere) e poi con la perdita della vita. Su quest'ultima perdita si chiude il film, con lo stesso zoom out sulle rovine della città di Homs che avevamo visto all’inizio, il cui significato solo alla fine ci è chiaro grazie all'effetto Kuleshov.                        
Ma oltre alla guerra privata di Marie il film ci fa entrare nella guerra reale attraverso le sofferenze dei civili. E quando vediamo le lacrime scorrere sul volto del direttore del Sunday Times (Sean Ryan) mentre guarda sullo schermo in diretta l’ultimo reportage dalla città martoriata di Homs, allora capiamo che sì, Marie aveva ragione, bisogna fare di tutto per mostrare al mondo orrori che la ragion politica spesso nasconde, poiché questo è il modo più efficace per colpire chiunque nel profondo. Ce ne rendiamo bene conto in particolare noi spettatori quando insieme ai titoli di coda vediamo scorrere gli articoli che Marie aveva scritto e che riportano in ordine tutti gli avvenimenti che il film ha mostrato. Non possiamo quindi invocare purtroppo la "sospensione dell’incredulità” sulla scorta di S.T. Coleridge poiché ahimè non è fiction, è tutto terribilmente vero.
In conclusione, al di là del giudizio soggettivo, “A private war” è un film necessario proprio perché fa entrare lo spettatore in una realtà che giornali e telegiornali non sempre possono rendere, una realtà che deve essere conosciuta per far sì che non abbia a ripetersi.

mercoledì 14 novembre 2018

“Senza lasciare traccia”, Debra Granik (2018)

Will (Ben Foster) e Thom (Thomasin McKenzie) vivono la loro esistenza di padre e figlia in mezzo alla natura selvaggia di un parco nazionale nell’Oregon, utilizzando mezzi di sopravvivenza rudimentali ma efficaci. L’impressione che possiamo avere nei primi 15-20 minuti di proiezione è che il motivo di fondo del film sia l’abbandono della disumana civiltà industriale per ritrovare se stessi nell’habitat primigenio della natura. Dal “Walden, ovvero la vita nei boschi” (Henry Thoreau, 1847) in letteratura a “Into the Wild” (Sean Penn, 2007) nel cinema questo tema è molto diffuso nella cultura statunitense. Ma gradualmente emergono dalla narrazione elementi che ci portano in un’altra direzione. Will ha dentro di sé cicatrici ineliminabili, dalla morte della giovane moglie alle vicende di guerra che ha vissuto. Egli non vuole solo fuggire dalla civiltà industriale, vuole fuggire e basta, vuole correre lontano da questi demoni che lo perseguitano e non lo fanno dormire di notte. Questo suo desiderio di non stare mai fermo ricorda il famoso dialogo di “On the road” (Jack Kerouac, 1957): Sal, dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo. Per andare dove, amico? Non lo so, ma dobbiamo andare. Ma contrariamente a Sal Paradise, Will fugge anche la compagnia dei suoi simili. Per dirla in termini sociologici, rifiuta non sono la Società, ma anche la Comunità (Gemeinschaft und Gesellschaft, F. Tönnies 1887) per rifugiarsi nell'unica compagnia che può attenuare il suo tormento, quella della figlia che egli cresce secondo le leggi della sopravvivenza, ma con attenzione anche all’etica (vedi ad esempio l’ammonimento a non raccogliere subito la medaglietta trovata per strada per dar tempo a chi la ha persa di recuperarla). Thom segue allinizio passivamente il padre a cui è molto attaccata, ma le cose cambiano nelle due occasioni in cui la coppia si trova a vivere una vita se non normale almeno più normale di quella cui sono abituati. Queste esperienze fanno crescere in Thom il desiderio della compagnia dei propri simili, desiderio che in passato non aveva mai potuto sperimentare. E cerca di instillare questo stesso desiderio nel padre con la metafora dell'alveare, dove le api vivono insieme sviluppando calore (equivalente allamore) e non attaccano spontaneamente l’uomo che si fida di loro, anche perché sanno che se lo pungono moriranno (buon motivo per non ucciderci a vicenda!). Ma le cicatrici di Will sono troppo profonde per permettergli di fermarsi e così giungiamo all’epilogo: padre e figlia si separano, cosa che comunque prima o poi nella vita accade, e il film si chiude con il piano-sequenza di Will che abbandona la strada e viene letteralmente inghiottito dal bosco, mentre Thom inizia la sua nuova vita in comunità. In questo suo processo di formazione non dimenticherà però il padre: gli lascerà infatti sempre nel bosco una sacca con generi di prima necessità a testimonianza, oltre che dell’affetto, delladesione al tacito patto etico che lega genitori e figli.   

sabato 3 novembre 2018

“A Star is born”, Bradley Cooper (2018)

In un’epoca di prequel, sequel e remake, chiara espressione di una preoccupante mancanza di ispirazione nel contesto del film business, la comparsa della terza versione di  “E’ nata una stella” (W.A. Wellman, 1937) potrebbe provocare una fastidiosa sensazione di déjà vu; la trama è in effetti identica all’originale, perfino nel cognome del protagonista. Ma non importa, cerchiamo di capire che cosa questa storia, peraltro vecchia come il mondo se la riportiamo al mito di Pigmalione, ci può dire.
Il tema centrale del film, ripreso più volte nei dialoghi fra Jackson Maine (Bradley Cooper) e Ally (Lady Gaga) è che cosa caratterizza una star. Lo svolgersi della storia ci permette di capire gradualmente, seguendo la progressione della carriera di Ally, di cosa si tratti. All’inizio Ally ha paura di salire sul palcoscenico, deve essere spinta a farlo e una volta giuntavi si schermisce, non riesce nemmeno a guardare verso il pubblico. In seguito la vediamo seguire passivamente, dopo un iniziale tentativo di ribellione, i suggerimenti, o meglio le imposizioni, di altri e in particolare del suo agente Rez (Rafi Gavron) in merito a come vestirsi, pettinarsi, ballare. Alla conclusione del film, quando Ally canta “I’ll never love again”, uno struggente addio pieno di rimpianti, questa definizione ci appare con chiarezza: Ally infatti si presenta in scena come se stessa, per esprimere al suo pubblico i suoi sentimenti. Non servono lustrini, vestiti bizzarri, acconciature improponibili e balletti (il che per Lady Gaga non è poco!) sembra dirci il Bradley Cooper regista, poiché essere una star vuol dire saper comunicare al pubblico, grazie ad un talento innato, i propri sentimenti e il proprio modo di vedere la vita. E questo messaggio è sottolineato dal brevissimo primo piano di Ally, seria e composta nel suo dolore, che chiude il film fissando intensamente la macchina da presa. Questo primo piano ci conferma che finalmente, dopo tanta incertezza, paura e dolore, Ally ha imparato a guardare negli occhi il suo pubblico ed è diventata così una vera star, capace di muoversi da sola.
All'uscita dalla sala lo spettatore è preda di sentimenti contrastanti: da una parte la tristezza per il dramma che caratterizza la fine della storia fra Jackson ed Ally, dramma che Cooper anticipa già dalle prime battute del film quando inquadra un'insegna costellata di cappi, e dall’altra la soddisfazione per l’inizio della meritata carriera di Ally. Ma in definitiva non c’è nulla di nuovo sotto il sole, sappiamo bene che tutto deve finire, l’importante è che a una fine segua un nuovo inizio che ci permetta di sperare nel futuro.
In conclusione, è vero che “A Star is born” è la quarta versione cinematografica di questa storia, ma è comunque un remake che vale la pena di vedere per l'ottimo esordio di Bradley Cooper come regista e di Lady Gaga come attrice, accompagnati da una colonna sonora coinvolgente.

mercoledì 24 ottobre 2018

“Venom”, Ruben Fleischer (2018)

Una volta tanto ci dedichiamo a un film non intellettuale, senz’altro aborrito dai cinefili puri. Il motivo per cui ho deciso di andarlo a vedere è la presenza di Tom Hardy che avevo molto apprezzato in “Lawless” (2012), “Locke” (2013)  e “Legend” (2015) e che ahimè questa volta si esibisce in una performance  piuttosto deludente (diciamo anche che non è per niente aiutato dalla sceneggiatura). Comunque, possiamo cercare di trarre qualche spunto anche da un film apparentemente dedicato alla pura visualità.
In primo luogo Eddie Brock (Tom Hardy) è un supereroe molto atipico; potremmo considerarlo come l’estremo di una gamma che va da personaggi positivi a tutto tondo come il primo Superman per passare a personaggi tormentati, alla ricerca di un equilibrio interiore come l'ultimo Batman ed infine a soggetti bizzarri e un pò cialtroni come Deadpool. Brock non rientra in nessuna di queste categorie, anche se può ricordare quest’ultimo, in realtà non è nemmeno un supereroe in senso stretto, si comporta come tale solo perché obbligato ad entrare in simbiosi con una creatura proveniente dallo spazio la quale, interloquendo con lui telepaticamente, lo pilota nelle varie imprese da affrontare con successo grazie ai soliti formidabili superpoteri. La convivenza di Brock e Venom (questo il nome della creatura spaziale) è dapprima difficile a causa della violenza sfrenata di quest’ultimo e può quindi evocare il concetto psicoanalitico dell'Ombra, cioè l’archetipo junghiano del Male che alberga in ognuno di noi. In effetti nel corso del film Brock riesce ad “addomesticare" Venom, a renderlo capace di vivere nella società controllando le sue pulsioni violente, con ciò evocando l’idea che gli esseri umani possano, se vogliono, tenere a bada la propria componente malvagia. D’altro canto questa convivenza potrebbe porre un problema di identità: chi è Brock dopo essere stato “parassitato” da Venom? E' ancora se stesso o è diventato un altro? Difficile a dirsi, perché il Male che vive in ognuno di noi fa parte per definizione della nostra essenza, cosa che non si può dire per un qualcosa/qualcuno che ci invade dall’esterno. L’identità di Brock+Venom resta quindi incerta. Vale la pena di dedicare infine attenzione anche al villain di turno, Carlton Drake (Riz Ahmed). E’ costui un imprenditore di successo, genialoide e visionario, una sorta di Elon Musk, per intenderci. E’ però talmente privo di scrupoli da non esitare a condurre spericolati esperimenti su cavie umane ignare, arrivando a provocarne anche la morte. Si tratta quindi di una figura senz’altro negativa però, se è vero che i suoi mezzi non sono condivisibili, il fine invece lo è: Drake è infatti convinto (e potrebbe avere ragione) che il mondo si stia avviando verso una catastrofe ecologica e che la coniugazione degli esseri umani con le creature provenienti dallo spazio possa salvare la razza umana, anche attraverso la colonizzazione di pianeti per noi non abitabili. In definitiva Drake applica su larga scala il classico dilemma filosofico del tram: un manovratore guida un tram con un guasto ai freni, davanti a lui ci sono cinque operai al lavoro sulla linea mentre su una linea laterale ce ne è uno solo; il manovratore deve decidere se deviare la corsa del tram sulla linea laterale uccidendo attivamente un uomo o non fare nulla e lasciarne morire cinque. Carlton Drake ha evidentemente optato per la prima decisione, voi che cosa fareste?

domenica 2 settembre 2018

“Lucky”, John Howard Lynch (2017)

La fine della vita, un momento che ci coglie impreparati, anche se rappresenta la logica conclusione di un percorso, perché nessuno o quasi, soprattutto in una società legata al materiale e dimentica del trascendente come la nostra, accetta l’idea di andarsene dal mondo tangibile. E’ vero che la speranza in una vita dopo la morte può essere di grande aiuto per chi coltiva un credo religioso ma Lucky (Harry Dean Stanton) è un ateo convinto, non ha quindi questa risorsa, per lui la fine è il buio assoluto. Ma lui non pensa alla morte, vive la sua vita di novantenne tenacemente legato alle sue abitudini: il ristorante, il negozio, il bar, solo sì ma senza sentirsi solo, come ci ricorda egli stesso,  tutelato dalla piccola comunità in cui vive. Qualcosa però cambia, una improvvisa caduta a terra che Lucky vorrebbe riportare ad una malattia ma che per il dottor Kneedler (Ed Begley Jr.) è dovuta semplicemente alla vecchiaia, gli mostra brutalmente la sua fragilità, la sua vicinanza alla fine. Lucky inizia così ad avere paura, come dichiara apertamente alla cameriera Loretta (Yvonne Huff), e questa paura determina sfumati cambiamenti nei suoi rapporti con gli altri: diventa meno scontroso e acido, si apre alla Weltanschauung del suo prossimo (peraltro già dall’inizio del film lui stesso ricorda che la realtà è soggettiva) e quindi partecipa attivamente alla “fiesta” di compleanno del figlio della negoziante Bibi (Bertila Damas) esibendosi in una canzone spagnola, si rappacifica con l’avvocato Livingston (Bobby Lawrence), accetta l’omosessualità, che prima disprezzava, nel nome del genio musicale di Liberace. Ma è l’incontro con Fred (Tom Skerrit), veterano dei Marines, che gli insegna qualcosa di importante. Il dialogo porta alla luce ricordi di guerra nel Pacifico cui entrambi avevano partecipato in cui si mescolano il rimpianto per la gioventù passata e l’orrore della guerra; in particolare Fred racconta di una bambina giapponese che lo aveva colpito per il sorriso sereno con cui si avvicinava ai soldati americani dopo una feroce battaglia, un sorriso che significava l’accettazione del suo destino. Ed è lo stesso sorriso che Lucky ci rivolge alla fine del film, dopo aver contemplato a lungo un gigantesco saguaro ultracentenario, mentre il “Presidente Roosevelt", la testuggine di proprietà dell’amico Howard (David Lynch) anch’essa emblema della lunghezza della vita, ritorna lentamente a casa dopo essersene allontanata nella prima scena. E’ proprio questo che John Howard Lynch, caratterista americano ed esordiente alla regia all’età di 55 anni,  e gli sceneggiatori Logan Sparks e Drago Sumonja ci vogliono dire, che non importa avere o non avere un credo religioso per andarsene serenamente, ciò che conta è guardarsi intorno e rendersi conto di essere in pace con il mondo che ci circonda. Allora potremo sorridere al nostro destino e definirci veramente fortunati. Come fortunato può dirsi Harry Dean Stanton stesso, scomparso proprio un anno fa a 91 anni lasciandoci in ricordo questa bella interpretazione quasi autobiografica e una lezione di vita importante,  sulla scia di un altro grande vecchio di Hollywood, Richard Farnsworth nella parte di Alvin Straight ("Una storia vera", David Lynch, 1999) e fratello nel film proprio di Stanton.

domenica 8 luglio 2018

“Il Sacrificio del Cervo Sacro”, Yorgos Lanthimos (2017)

Protagonista del film è una famiglia americana perfetta: padre chirurgo (Steven, Colin Farrell), madre oculista (Anna, Nicole Kidman), una figlia femmina (Kim, Raffey Cassidy) e un maschio (Bob, Sunny Suljic), un cane, una bella casa, il tutto ritratto coralmente con riprese in grandangolo. Famiglia perfetta sì ma algida, non vi è emozione nei rapporti fra i componenti che si muovono secondo un copione predefinito, svolgendo compiti ripetitivi come annaffiare il prato e portar fuori il cane. A questa staticità si contrappone il furibondo vorticare delle ventole a soffitto che forse prelude allo sconquasso che il dramma in arrivo porterà. Ma prima ancora che ciò avvenga e addirittura con la ripresa iniziale del film, un cuore battente durante un intervento chirurgico cui segue un lento zoom sui telini imbrattati  di sangue ammassati nella spazzatura, Lanthimos sottolinea il contrasto fra questa asettica perfezione e la dura realtà della vita, fatta di carne e sangue destinati a finire appunto nella spazzatura.  Ma torneremo in seguito su questo, prima va inquadrato il tema principale del film e cioè la Colpa, in questo caso di Steven che ha causato colposamente la morte del padre di Martin (Barry Keoghan) per un errore chirurgico forse dovuto all’influsso dell'alcol e cerca di redimersi intessendo con il ragazzo una relazione quasi paterna. Ma ciò non basta. Come Agamennone è condannato da Artemide, nei confronti della quale era colpevole di superbia, a sacrificare ciò che ha di più caro, la figlia Ifigenia, affinché cessi la bonaccia e le navi achee possano levare le vele e partire dall’Aulide alla volta di Troia, così Steven deve sacrificare un componente della sua famiglia a sua scelta, pena la comparsa di misteriose malattie che colpiranno inesorabilmente tutti i membri della famiglia fino ad ucciderli. E il deus ex machina di questa procedura  è proprio Martin, inesorabile come Artemide, che esplicita la sua tesi in base alla quale la morte di un figlio innocente per espiare la colpa del padre non è giustizia, ma è quanto di più vicino alla giustizia egli possa immaginare. Ma Artemide, contrariamente a Martin, all’ultimo momento sottrae Ifigenia al coltello sacrificale sostituendola con una cerva. Perché Anthimos si discosta da questa trama, perché lascia che Steven, con una sorta di roulette russa, uccida uno dei suoi figli a caso? In fondo anche Dio all’ultimo momento fermò Abramo che stava per sacrificare il figlio Isacco per provare la sua fede nel Signore, anche Zeus salvò Callisto, trasformata in orsa, prima che il figlio Arcade la uccidesse durante una battuta di caccia. Questo credo sia il punto cruciale del film, è qui che Lanthimos afferma la differenza fra racconto mitico e vita reale. Quest’ultima infatti è fatta di carne e sangue destinate alla spazzatura come nella metafora iniziale, non esistono in essa le cerve sacre e salvifiche e di conseguenza è ben difficile sfuggire alle conseguenze delle proprie colpe, o per rimanere in ambito ellenico, a Nèmesis, la distributrice di giustizia del pantheon greco.

mercoledì 20 giugno 2018

“La Stanza delle Meraviglie”, Todd Haynes (2017)

Il regista Todd Haynes aveva in passato affrontato il tema delle minoranze indifese nel 2002 in “Lontano dal Paradiso” (omosessualità e amore inter-razziale negli anni 50) e nel 2015 in “Carol” (ancora omosessualità, sempre negli anni 50). Ne “La Stanza delle Meraviglie” ci propone una coppia ancora più debole e indifesa: due bambini (Ben e Rose, rispettivamente Oakes Fegley e Millicent Simmonds) sordi e senza genitori che nell’arco di due storie parallele che a 50 anni di distanza l’una dall’altra (1977 e 1927) intraprendono un viaggio nella metropoli alla ricerca l’uno del padre e l’altra della madre. Nonostante tutte le difficoltà che incontreranno e che ricordano gli archetipi junghiani del Viaggio e della Ricerca, giungeranno, pur se sfasati di 50 anni, ad una meta comune.
Più che sulle immagini, vorrei concentrarmi questa volta sulla colonna sonora del film.
La madre di Ben, Elaine (Michelle Williams), ascolta “Space Oddity” di David Bowie, composta nel 1969, anno della conquista della luna. Vi si parla di un astronauta che uscito dalla navicella spaziale ammira lo spettacolo che si offre ai suoi occhi e sembra non preoccuparsi della perdita del contatto audio con la base che lo rende sordo, solo ed inerme, proprio come i due piccoli Ben e Rose sono soli, isolati perché sordi, ed inermi mentre si aggirano inseguiti da varie figure di adulti (e non a caso compare il brano “Fox on the Run” cioè "Volpe in Fuga" inciso dai Sweet nel 1974) nella New York irta di pericoli che però li affascina. Ancora “Space Oddity” compare nella colonna sonora durante i titoli di coda, questa volta cantata da un coro di bambini nell’ambito del Langley Schools Musical Project, realizzato in British Columbia nel 1976-77. Ascoltare queste voci infantili che in modo piuttosto approssimativo cantano una vicenda così drammatica, ben lontana dalle usuali canzoncine un pò melense che vengono insegnate ai bambini, crea un effetto straniante, molto insolito ed intenso. E poi l’introduzione di “Così parlò Zaratustra” di Richard Strauss, proposta appropriatamente nella versione funky stile anni 70 di Eumir Deodato; difficile pensare a un brano più adatto per almeno due motivi. Innanzitutto esso evoca la nascita e la rinascita, nella visione escatologica circolare di Nietzsche ripresa da Strauss, nel senso che Ben e Rose rinascono alla fine della film a nuova vita grazie alla tenacia che ha loro permesso di superare le difficoltà e raggiungere il fine ultimo. E il secondo è la tenacia, appunto, che chiama ancora in causa l’opera di Nietzsche a proposito della Volontà di Potenza e del Superuomo, concetti che ci ricordano la volontà ferrea di questi due bimbi nel raggiungere i loro scopi, la stessa volontà ferrea dimostrata da un altro bambino cinematografico, l'Oskar Schell di “Molto forte, incredibilmente vicino" (Stephen Daldry, 2011) anch’egli immerso in una accanita ed apparentemente impossibile ricerca, sempre a New York.
E per finire chiudiamo con le immagini e in particolare con l’incredibile plastico di New York custodito nel museo del Queens, ove il film volge all’epilogo. Un’opera vastissima nella quale la curatrice (Rose da adulta, Julianne Moore) ha nascosto qui e là sotto gli edifici piccoli ricordi del passato. Vien da pensare che il regista abbia voluto in questo modo sottolineare il ruolo del ricordo del passato come fondamenta su cui costruire il futuro. Non a caso le ricerche di Ben e Rose si basano su piccole cose (un segnalibro per lui e un articolo di giornale per lei), piccole cose che però li aiuteranno nella realizzazione dei loro scopi.



sabato 2 giugno 2018

"Lazzaro Felice”, Alice Rohrwacher (2017)

Lazzaro (Adriano Tardiolo) è sempre a disposizione di tutti, tutti lo chiamano e lui corre per soddisfare qualsiasi richiesta. Sembra quasi che il suo nome derivi dall'imperativo evangelico “Alzati e cammina!” come se fosse suo destino obbedire (nomen omen). Il suo compito nella vita, la sua missione, è quindi quello di rendere felici gli altri e in questo egli trova la sua felicità.
Nella favola della Rohrwacher, come in ogni favola che si rispetti, tutto è possibile; infatti di Lazzaro nessuno sa da dove venga, non invecchia mai, sopravvive a una caduta mortale, non soffre il freddo anche se gira in maglietta quando nevica, non mangia quasi mai. E’ quindi un essere sovrannaturale che impersona il Bene assoluto, un Bene che cozza brutalmente con il Male della società moderna. All’inizio del racconto l’incontro con la modernità è molto limitato. Sfruttato fra gli sfruttati anzi, come cinicamente nota la marchesa Alfonsina de Luna (Nicoletta Braschi) "sfruttato dagli sfruttati”, Lazzaro si muove a suo agio in una società agricola di tipo primo-novecentesco nella tenuta “L’Inviolata”, tale di nome e di fatto poiché dimenticata da Dio e dagli uomini tranne che dalla marchesa che la gestisce come un latifondista di vecchio stampo. E’ vero che tutti gli chiedono di tutto, ma lui lo fa volentieri ed è da tutti benvoluto. Il primo vero incontro con la modernità avviene con Tancredi (Luca Cikovani), figlio della marchesa, che intrattiene con Lazzaro un rapporto caratterizzato da momenti di apparente amicizia (arriva a dire di  essere suo fratellastro) alternati a momenti di aperto dileggio e insulto. Solo quando Lazzaro, alla ricerca di Tancredi dopo il patatrac finanziario della famiglia de Luna, giunge nella metropoli la situazione si scompensa. Lì, nonostante la rete protettiva di un gruppo di ex lavoranti dell’Inviolata che vi ritrova, egli è alla mercé della cattiveria e del cinismo di vecchie conoscenze come Tancredi stesso (Tommaso Ragno da adulto) che lo raggira crudelmente approfittando dell’affetto che Lazzaro prova per lui. E nemmeno in ambiente religioso trova la bontà poiché, entrato in chiesa per sentire la musica che aveva percepito in lontananza, viene allontanato con fermezza dalle suore perché: “E’ una funzione privata!”. Per questo poi le suore vengono punite da un guasto irrimediabile dell’organo che non permette di proseguire il concerto. E infine, quando si reca in banca per recuperare il denaro che nella falsa versione dell’amante di Tancredi era stato sottratto alla marchesa (in realtà si trattava di una bancarotta fraudolenta), Lazzaro, che pure ignora cosa sia una bancarotta ma crede ciecamente al suo prossimo, viene brutalmente linciato da una piccola folla che lo ritiene un rapinatore armato di pistola, mentre invece si trattava solo di una semplice fionda infilata nella tasca posteriore dei pantaloni. Non possiamo esserne certi, ma con ogni probabilità Lazzaro muore in quel linciaggio, muore ma non scompare, trasmigra nel lupo che vediamo allontanarsi sull'asfalto fra le automobili. I lupi, come avevamo appreso da una storia narrata all'Inviolata, sono in grado di riconoscere le persone buone e non fanno loro del male e già una volta infatti Lazzaro, svenuto dopo la caduta rovinosa, era stato annusato da un lupo senza essere aggredito. In conclusione la regista sembra farci notare tristemente come nella società moderna e civilizzata il detto latino “Homo Homini Lupus” si debba leggere “Homo Homini Homo”. Non dobbiamo però lasciarci sedurre dalla tesi che che solo il moderno sia il Male e solo l’antico sia il Bene, pensiamo ad esempio al cosiddetto "Massacro di Nataruk”, dal nome della località keniota dove sono recentemente emersi i resti di un eccidio perpetrato circa 10.000 anni fa in cui sono stati ferocemente massacrati anche donne gravide e bambini. L’archetipo dell’Ombra quindi cammina probabilmente al nostro fianco da sempre.
“Lazzaro Felice” sarà senz’altro apprezzato dallo spettatore che ama la fantasia e che non prende a tutti i costi per melassa i sentimenti semplici, che riesce insomma a ritrovare in sé un altro archetipo, cioè il Fanciullo. Ma anche lo spettatore più “quadrato" e con i piedi per terra non potrà non essere colpito dal volto di Lazzaro, dalla bontà e dall’ingenuità, intesa in senso buono, che il bravo Adriano Tardiolo riesce a comunicarci.   

“1945”, Ferenc Török (2017)

Ungheria, 1945, una calda mattina d’estate come tante altre in un piccolo villaggio lontano da importanti centri urbani. Il notabile Istvàn (Péter Rudolf) si rade davanti allo specchio ascoltando le notizie trasmesse dalla radio. La tranquilla rasatura è però interrotta da un taglio prodotto dal rasoio. Istvàn lo osserva perplesso e seccato solo per un attimo, ma se potesse intuire di quali eventi questo taglio sia premonitore, ne sarebbe molto preoccupato. Con questa premonizione inizia “1945”, racconto girato in un bianco e nero che ne accentua la severità, come pure fanno i dialoghi, secchi e taglienti come un rasoio, appunto. Racconto imperniato su un passato che si vorrebbe scomparso e che invece ritorna, ritorna nelle vesti di due misteriosi personaggi, impassibili e di pochissime parole, prontamente identificati dai locali come di etnia ebraica che trasportano su un carro alcune casse sul cui contenuto non vi sono notizie certe.  Dai discorsi preoccupati e rabbiosi degli abitanti del villaggio apprendiamo la vicenda che doveva essere scomparsa e che essi temono riemerga: gli abitanti di etnia ungherese avevano qualche anno prima denunciato alle autorità naziste le famiglie ebree e si erano appropriati dei loro beni, confidando che dai lager nessuno sarebbe tornato a reclamarli. E pensare che è il giorno meno adatto per il riemergere di una simile vicenda, si sta infatti per celebrare il matrimonio fra il figlio di Istvàn, Arpád (Bence Tasnádi), imbelle e sottomesso al dispotico padre, e la giovane Kisrózsi (Dóra Sztarenki). In realtà non tutto procede tranquillamente come si può intuire dal pessimo rapporto fra Istvàn e la moglie, depressa e dipendente da farmaci, e dal fatto che il matrimonio è stato combinato: la promessa sposa ama ancora Jancsi (Tamás Szabó Kimmel), giovane di bell’aspetto, ma ahimè semplice contadino. Ed è in questa sorta di “Peyton Place” in salsa magiara che esplode il dramma.
La questione principale che questo film pone riguarda il ruolo che il male fatto nel passato giuoca sul presente, un ruolo mai prevedibile che può essere catartico oppure devastante, a seconda di variabili spesso non ben definibili e soggettive. In effetti nel nostro caso le reazioni sono diversissime da soggetto a soggetto: Istvàn si chiama fuori accusando il beone Kustàr (József Szarvas) di aver firmato la denuncia,  ma tace ipocritamente il fatto di essere stato lui a forzarlo a firmarla; la moglie di Kustàr è preoccupata solo di non perdere la casa, sottratta agli ebrei, e reagisce quindi solo con rabbia; il sacerdote invita Kustàr che, roso dal rimorso, chiede di confessarsi, a dormirci sopra, mentre Kustàr, vistasi negata anche la catarsi della confessione, decide di punirsi con una soluzione senza ritorno. Ma la maggioranza della popolazione non nutre rimorsi, vuole solo evitare che il passato, ritornando, crei problemi  e per far ciò è pronta, forconi alla mano, a linciare i due ebrei innanzi al cimitero, rinunciando al proposito solo quando appare evidente che la loro venuta è  dettata solo dal desiderio di dare degna sepoltura a oggetti quali scarpine da bambino, monili, giocattoli, modesti ricordi dei loro famigliari morti nei lager. La camera da presa segue questi due personaggi nel ritorno a piedi alla stazione sotto un temporale che sembra voler lavare via il ricordo orrendo del male perpetrato e alla stazione essi incontrano Arpád che ha trovato la forza di abbandonare la casa e la tirannia paterna. I tre sono accomunati dall'aver patito le conseguenze della stessa autoritaria crudeltà che però alla fine paga il conto: Istvàn perde infatti il negozio, viene abbandonato dal figlio e i suoi compaesani non muovono un dito per aiutarlo nel momento del bisogno. E il film, iniziato con una premonizione, finisce con una metafora, il fumo che esce dalla locomotiva e su cui il regista si attarda, allusione ai milioni di innocenti passati per i camini.

sabato 5 maggio 2018

L’Isola dei Cani, Wes Anderson (2018)

“L’Isola dei Cani" non è solo quello che potrebbe sembrare ad una valutazione superficiale e cioè un puro divertissement realizzato con intelligenza e fantasia notevoli. In realtà Anderson, dopo aver esplorato il mondo intellettual-radical-depresso newyorkese ne “ I Tenenbaum", veste adesso i panni  di Esopo e con l’atteggiamento di colui che castigat ridendo mores ci offre una favola surreale densa di significati, importanti e neanche troppo nascosti.
L'ambientazione è nel 2037 in una megalopoli giapponese, Megasaki, dove, alla fine di una faida durata secoli fra amanti dei cani e amanti dei gatti, la seconda fazione ha il sopravvento. Il dispotico sindaco Kobayashi, rappresentante dei filo-gatti, dà inizio alla deportazione forzata di tutti i cani su un’isola, utilizzata come enorme discarica di rifiuti, con la scusa di una influenza canina che potrebbe contagiare anche gli umani. Fra le poche voci che si oppongono a questo provvedimento vi sono uno scienziato, il Prof. Watanabe, e una attivista agguerrita, Tracy Walker, fornita di polsiere da tennis in stile Richie Tenenbaum. Nel piano di Kobayashi si inserisce però il suo pupillo Atari, dodicenne intraprendente, che ruba un aereo e vola sull’isola alla ricerca del suo amato cane, Spots. Da qui si dipana la storia della ricerca di Spots sull'isola, con l’aiuto di alcuni dei cani deportati e contro l’intervento delle forze inviate da Kobayashi.
Il tema principale che Anderson ci propone è il potere, simbolizzato da Kobayashi: la deportazione e l’isolamento (in questo caso letterale) dei cani è metafora della non capacità/non volontà di convivere con il diverso, fatta valere con la forza. Un potere che non esita a mentire alla popolazione: il pericolo del contagio degli umani è ipotetico e poi esiste una cura per la malattia canina, come insegna il Prof. Watanabe, inventore del siero in grado di guarirla. Ma il potere è anche assassino, Kobayashi infatti non esita a far avvelenare il povero Watanabe pur di mantenere viva la minaccia del contagio. Alla luce di tutto ciò è difficile non pensare per analogia ad eventi del recente passato ed attuali, come ad esempio la vicenda delle armi di distruzione di massa la cui esistenza non fu mai dimostrata e che servì a giustificare la guerra all'Irak, la soppressione di avversari politici e giornalisti, la monopolizzazione dei media (la rete televisiva di Megasaki è infatti al servizio di Kobayashi). Questi eventi non si verificano tra l’altro in regimi apertamente dispotici e questo è in effetti l’aspetto più preoccupante che Anderson  giustamente sottolinea, situando la sua storia non in un regime tirannico ma in una (apparente) democrazia.
Un altro problema che il film solleva è quello dell’inquinamento ambientale, ben raffigurato dalle ciclopiche montagne di rifiuti presenti sull’isola con topi che scorrazzano da tutte le parti, a sottolineare l’illusione della civiltà moderna di risolvere questo problema semplicemente allontanandolo dalla propria vista. E che dire anche degli spettrali edifici diroccati, resti di una civiltà industriale obsoleta, che incombono sull’isola contribuendo all’inquinamento dell’acqua come ci ricorda Nutmeg, affascinante cagnolina la cui presenza sull’isola mefitica contribuisce ad addolcirne l'ambiente.
Come in ogni favola che si rispetti il lieto fine è d’obbligo: Atari e i cani deportati con le loro sole forze riusciranno a sconfiggere l’esercito tecnologico di Kobayashi, armato di droni e robot canini, in uno scontro epico fra psiche e techne, per dirla con Umberto Galimberti, in cui la prima riesce ad avere la meglio sulla seconda. Ed infine, come la storia era iniziata per l'atto di amore di Atari nei confronti di Spots, così essa si conclude con un altro atto d’amore, cioè la nascita di una numerosa e felice cucciolata.

martedì 27 febbraio 2018

“Il Filo Nascosto” , Paul Thomas Anderson, 2017

“Il Filo Nascosto” è un film sull’amore, con parecchi spunti di analisi che meritano attenzione.
Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis) è un dispotico sarto inglese di altissimo livello, da cui si serve l’alta società europea. La sua durezza è però una maschera: nella realtà è un uomo fragile, ossessionato dal ricordo di una madre verosimilmente dominante (del padre sappiamo solo che era precocemente mancato) cui doveva essersi morbosamente legato anche a causa dell’abilità nell’arte sartoriale da lei appresa: possiamo infatti pensare che un ragazzo di 16 anni che passa i giorni a cucire vestiti possa avere uno sviluppo sociale normale? Che cerchia di amici poteva avere? La madre rappresentava quindi il suo unico riferimento e tale è rimasta anche dopo la morte, un esempio di amore filiale deviante rivolto a un fantasma (il titolo originale è infatti “Phantom Thread”, Filo Fantasma) che aleggia, condizionandola, sulla vita di Reynolds. Condizionandola a tal punto che l’unico modo che gli rimane per dare sfogo ai sentimenti è cucire dei bigliettini nella stoffa dei vestiti delle sue clienti, convinto che nessuno mai li leggerà. I rapporti di Reynolds con le donne sono prevedibilmente temporanei e superficiali, anche grazie agli interventi della sorella Cyril (Lesley Manville) austera e inflessibile organizzatrice della vita del fratello (basta vedere la decisione con cui apre l’atelier al mattino) che mal tollera i suoi legami con altre donne. Un altro amore, questa volta sororale, anch’esso deviante nella sua possessività. In questa situazione, cristallizzata anche grazie alle ossessioni di Reynolds (addirittura beve il the ogni mattina con gli stessi identici gesti) che rappresentano un evidente meccanismo di difesa verso qualsiasi cambiamento, si inserisce Alma, giovane cameriera di cui Reynolds sembra infatuato come in precedenza di altre donne. Ma le cose questa volta cambiano. Alma ama Reynolds, come ci dice apertamente nel corso dei colloqui con il giovane dott. Hardy (Brian Gleeson) che costituiscono il filo (un altro!) della narrazione, e questo può sembrare un altro amore, questa volta finalmente normale. Ma per P.T. Anderson nulla è sicuramente normale: Alma infatti ama un Reynolds che esiste solo nei suoi desideri, che non corrisponde al vero Reynolds, essa vorrebbe sradicarlo dalle sue abitudini e ossessioni maniacali come la passeggiata che si fa solo il giovedì plasmandolo a suo piacimento, convincendolo (orrore!) ad andare a ballare. E’ questo vero amore? O è  una espressione della volontà di correggere una situazione che non risponde ai propri criteri di normalità? O forse entrambi? Una risposta potrà forse essere data solo dopo l’epilogo della vicenda. Come reagisce Reynolds all’agire di Alma? All’inizio con l'usuale durezza, ma il cambiamento è in arrivo. Il punto di svolta è rappresentato dall’avvelenamento da funghi che Alma escogita per poter avere Reynolds solo per sé. E’ qui che in preda al delirio egli ha una visione della madre e la comparsa di Alma sulla porta, affiancata alla figura della madre, determina una sorta di trasferimento, un transfert del dominio su Reynolds dalla prima alla seconda figura femminile. Quando Alma infatti nella scena clou del film, per sopire un suo tentativo di ribellione propina di nuovo a Reynolds i funghi velenosi, egli, pur essendosi accorto del sotterfugio, consuma, dopo qualche titubanza ben presto vinta, la pietanza, con l’espressione fra sfida e resa del bambino che assume la medicina amara per compiacere la mamma, forse inconsciamente lieto di assoggettarsi al dominio di un essere in carne ed ossa in sostituzione del fantasma della madre.

domenica 18 febbraio 2018

"La Forma dell’Acqua” Guillermo del Toro, 2017

A una prima valutazione “La Forma dell’Acqua” può essere letto come una storia d’amore atipico che si snoda sullo sfondo di una critica sociale relativa alla oppressione delle minoranze (diversi, neri, omosessuali, portatori di handicap) da parte del potere costituito. Si può cercare di approfondire però l’analisi, partendo dal titolo: cosa significa la forma dell’acqua? L’acqua ha una forma? Ebbene sì, l’acqua può avere una forma ed è quella di due gocce che si inseguono sul finestrino di un autobus che corre sotto la pioggia, due gocce impersonate dalla Creatura anfibia (Doug Jones) e da Elisa Esposito (Sally Hawkins). Contrariamente al noto modo di dire, si tratta di due gocce assai diverse, sia nell’aspetto fisico che per altre caratteristiche: la Creatura è dotata di capacità taumaturgiche per le quali viene considerato nel suo habitat un Dio, Elisa è invece in fondo alla scala sociale: abbandonata da neonata sulla scalinata di una chiesa, muta (forse per un non ben definito trauma nell’infanzia), priva di affetti se non per la burbera collega Zelda (Octavia Spencer) e l’emarginato disegnatore Giles (Richard Jenkins) che non possono però supplire al suo intimo desiderio di amore. Catalizzatore involontario dell’incontro fra Elisa e la Creatura è il colonnello Strickland (Michael Shannon) che rapisce la Creatura dal suo habitat nel Rio delle Amazzoni per utilizzarne le capacità in ambito militare e a questo scopo la porta a Baltimora nell’istituto in cui lavora come inserviente Elisa. Inizialmente Elisa prova curiosità e compassione per la Creatura, maltrattata da Strickland, ma in seguito questo sentimento sfocia nell’amore, ricambiato, che supera ogni diversità (Amor Vincit Omnia...sembra ricordarci del Toro). La situazione precipita quando Strickland decide di portare agli estremi lo studio della Creatura sottoponendola a vivisezione e di conseguenza Elisa si trova costretta ad organizzarne la fuga, una fuga rocambolesca che si conclude con un tuffo dei due, apparentemente feriti a morte, in un canale che sfocia nell’Atlantico. Solo apparentemente però, perché la vicenda  segue il ciclo mitologico nascita-morte-rinascita, rappresentato dall’uovo, simbolo di nascita per eccellenza, con cui Elisa nutre la Creatura, e dall’acqua stessa, incubatrice della vita non solo in ambito mitologico ma anche scientifico. E quindi Elisa morirà alla sua triste vita terrena per rinascere subito a una felice vita subacquea (dove le scarpe non le serviranno più) cui forse era predestinata: sono infatti le cicatrici sul collo che funzionando da branchie le permettono di respirare sott’acqua. Mentre la Creatura ed Elisa rinascono quindi a nuova vita come due gocce nell’oceano, il peggio tocca a due personaggi antipodici, il cattivo Strickland e il buon dott. Hofstetler, alias Mosenkov (Michael Stuhlbarg), emissario dello spionaggio russo, accomunati dal fatto di rimanere stritolati negli ingranaggi del potere politico-militare che, come Sansone nel tempio, distrugge tutto ciò che tocca.

sabato 13 gennaio 2018

“Tre Manifesti a Ebbing, Missouri" (Martin McDonagh, 2017)

Tre Manifesti a Ebbing, Missouri è un film complesso e ricco di spunti di interesse, presentati con un umorismo a tratti surreale cui McDonagh ci ha abituato fin da In Bruges-La Coscienza dell’Assassino (2008) e 7 Psicopatici (2012). Di nazionalità britannica, McDonagh decide di narrare la sua storia ambientandola nella provincia del sud degli Stati Uniti, sull’esempio del suo connazionale Ridley Scott in Thelma & Louise (1991), che ben si presta a storie di violenza. A questo scopo inventa un paese, Ebbing, che non esiste. Ma “ebbing" indica in inglese la marea che si ritira e, per estensione, il declinare, il tramontare; forse questa scelta è un modo per dirci fin dall’inizio che il ricorso alla violenza rappresenta una abdicazione dell'essere umano alla sua stessa essenza. La rabbia e la violenza permeano in effetti l’agire di Mildred Hayes (Frances McDormand) nei tentativi di mantenere in vita le indagini sulla tragica morte della figlia Angela (Kathryn Newton), rabbia che Mildred indirizza ossessivamente sullo sceriffo locale Bill Willoughby (Woody Harrelson) e che sembra spropositata se consideriamo che le indagini sono ad un punto morto apparentemente non per colpa degli investigatori. In realtà Mildred è tormentata dal pensiero di aver contribuito alla morte di Angela con cui aveva un pessimo rapporto, probabilmente a causa del carattere di entrambe, mentre il figlio Robbie (Lucas Hedges), gentile e sensibile, assorbe pazientemente gli scatti di ira della madre. Questo terribile e incancellabile rimorso è quindi il vero motore della rabbia e della violenza di Mildred, il reale motivo che esaspera il suo agire. E lo sceriffo Willoughby, che inizialmente sembra un poliziotto incapace, è forse il personaggio più positivo del film, una persona sì rozza ma buona, come dimostra nei rapporti famigliari, nei colloqui con Mildred e poi fattivamente pagando per lei una quota, e dotata di capacità introspettive insospettate. Lo possiamo capire dalla lettera che scrive al suo aiuto Jason Dixon (Sam Rockwell),  aprendone così gli occhi sul percorso di vita famigliare che lo ha portato ad essere un ottuso e violento poliziotto razzista e catalizzandone la redenzione in modo drastico e imprevedibile per lo spettatore. Questo procedere imprevedibile della vicenda (vedi anche il risultato del test del DNA sulla cui positività chiunque avrebbe giurato) e l'apertura alla possibilità di una redenzione, è preannunciato dal regista fin dall’inizio del film con la comparsa fugace di un libro di Flannery O’Connor fra le mani di Red Welby (Caleb Landry Jones). Tutta l’opera di questa autrice, radicata nel profondo sud degli Stati Uniti e cattolica convinta, è infatti imperniata su questi temi: imprevedibilità degli eventi umani e possibilità di redenzione.
Nel dipanarsi di questa complessa vicenda appaiono frequenti riferimenti alla natura. I verdi boschi delle Smoky Mountains del North Carolina dove il film è stato girato, ma soprattutto gli animali, attirano la nostra attenzione. Gli animali assistono a queste travolgenti e drammatiche vicende umane con un fare di attonita indifferenza, come per dirci che tutto questo agitarsi, ammazzarsi, picchiarsi, dal punto di vista del cerbiatto che Mildred incontra sotto i manifesti e dei cavalli che assistono al tragico gesto dello sceriffo Willoughby ha una infinitesimale importanza nello schema grandioso del cosmo, un duro colpo all’egocentrismo di noi umani.
Ed eccoci alla fine della vicenda. Mildred e Jason partono insieme, determinati in apparenza a compiere una spedizione punitiva in piena regola. Ma ancora una volta McDonagh ci spiazza: dal colloquio fra i due, forse memori delle parole della giovane e candida  compagna dell’ex marito di Mildred, Penelope (Samara Weaving), “la rabbia genera più rabbia” (la traduzione è mia), che riverberano il “la violenza genera violenza" di Anthony Burgess (Arancia Meccanica), nasce con i titoli di coda la speranza di un pò di pace.