“Roma" non necessita in realtà di una analisi; fra i tanti suoi pregi questo film ha infatti quello di essere adatto ad una visione puramente emozionale, non filtrata da speculazioni di cinefili, critici ed ermeneuti. Ciò che Alfonso Cuarón riesce a fare come regista, scrittore e sceneggiatore è infatti avvincere lo spettatore per tutti i 135 minuti di proiezione narrando in bianco e nero vicende semplici, che capitano tutti i giorni in tutto il mondo, con uno stile che può ricordare quello di Yasujirō Ozu, quindi un cinema contemplativo e minimale, attento ai dettagli. Il tutto con una sensibilità ed una attenzione per i sentimenti e le emozioni che si distacca nettamente dallo stile di altri registi, come ad esempio Michael Haneke, che studiano sì attentamente i loro personaggi ma con con lo scrupolo e l’assenza di empatia di un entomologo che descrive la vita degli insetti.
E’ dunque il microcosmo di una famiglia medio-borghese di Città del Messico nel 1970-71 l’oggetto di “Roma” (nome di un quartiere della città), un microcosmo al di fuori del quale esiste però un mondo più grande la cui esistenza Cuarón ci ricorda insistentemente con immagini lontane di jet che solcano il cielo. Attraverso lunghi piani-sequenza il regista ci accompagna nell’esplorazione di questo microcosmo, dove seguiamo le vicende di due donne, la padrona di casa Sofia (Marina de Tavira) ed una delle sue cameriere, Cleo (Yalitza Aparicio), i cui compagni fedifraghi non esitano a lasciare in difficoltà. La prima viene infatti abbandonata dal marito Antonio (Fernando Grediaga) con quattro figli da crescere e scarse risorse per farlo e la seconda viene abbandonata dal compagno Fermin (Jorge Antonio Guerrero) non appena rimane incinta. Queste vicende di vita portano le due donne a superare i limiti di una società classista in cui perfino le tate dell’alta borghesia si ritengono superiori a quelle della media borghesia (ma l’onda lunga del 68 è in arrivo anche nel Centroamerica, come ci dicono le dimostrazioni studentesche che affollano le strade), a significare come le sofferenze siano un catalizzatore importante dei rapporti umani. Rapporti che Cuarón legge ed interpreta con attenzione attraverso i gesti; pensiamo ad esempio ai diversi abbracci che vediamo nel film, quello affettuoso di Cleo in secondo piano con il piccolo Pepe (Marco Graf) che contrasta con quello glaciale di Antonio in primo piano con Sofia che sembra illudersi di poter recuperare il matrimonio, o ancora l’abbraccio liberatorio dopo la mancata tragedia sulla spiaggia, in cui Sofia, i quattro figli e Cleo appaiono come un tutt’uno, ritratti contro sole. Ma anche le espressioni del viso contano, pensiamo alla intensità di Cleo, sul cui viso Cuarón si attarda spesso, ad esempio quando, incinta, guarda con tenerezza i neonati nel nido dell’ospedale o quando fissa la tazza di liquore sfuggitale di mano rompersi a terra, impaurita poiché probabilmente vi vede il presagio di ciò che avverrà in sala parto. E sullo sfondo di queste vicende umane, quasi a ricordarne la piccolezza in un quadro cosmico, ecco la Natura nella doppia veste archetipica di Grande Madre e Madre Terribile, rappresentata da acqua e fuoco, capaci di distruggere, ma anche di ripulire il mondo e riportare la vita.
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