Prima di capire quale sia la guerra privata che dà il titolo al film dobbiamo entrare nella personalità della protagonista, la famosa reporter di guerra Marie Colvin (Rosamund Pike). All’inizio la sua mascolinità quasi esibita non la rende particolarmente simpatica: oltre al turpiloquio, all’eccesso di alcol e tabacco, al comportamento arrogante e prepotente, arriva ad adescare in un bar il compagno di una notte. Procedendo nella narrazione il regista ci porta però gradualmente a conoscere meglio Marie e a comprenderne di conseguenza i comportamenti, iniziando con l'infanzia, caratterizzata dal rapporto ambivalente con il padre, da lei ammirato ma al contempo avversato poiché la privava della libertà, libertà che Marie ha sempre voluto tutelare anche in seguito, nell’ambito lavorativo. E più avanti il desiderio di un figlio che non riuscirà ad avere, desiderio frustrato che Marie trasferisce sui bambini vittime di guerra, motivo ricorrente nei suoi reportage, e anche sul giovane fotografo Paul (Jamie Dornan), per lei il figlio mai avuto. In definitiva, la mascolinità esibita da Marie rappresenta probabilmente una corazza costruita per nascondere le proprie debolezze e contraddizioni. Sullo sfondo di queste si manifesta infine la guerra privata di Marie: quella fra la sofferenza provata nell’assistere alla sofferenza altrui e il senso del dovere di descriverla a tutto il mondo. E questo senso del dovere le costerà caro, inizialmente con la rottura di un rapporto d’amore, in seguito con la perdita dell’occhio sinistro in battaglia (come non ricordare al proposito Edipo e Tiresia, entrambi accecati per aver voluto troppo vedere) e poi con la perdita della vita. Su quest'ultima perdita si chiude il film, con lo stesso zoom out sulle rovine della città di Homs che avevamo visto all’inizio, il cui significato solo alla fine ci è chiaro grazie all'effetto Kuleshov.
Ma oltre alla guerra privata di Marie il film ci fa entrare nella guerra reale attraverso le sofferenze dei civili. E quando vediamo le lacrime scorrere sul volto del direttore del Sunday Times (Sean Ryan) mentre guarda sullo schermo in diretta l’ultimo reportage dalla città martoriata di Homs, allora capiamo che sì, Marie aveva ragione, bisogna fare di tutto per mostrare al mondo orrori che la ragion politica spesso nasconde, poiché questo è il modo più efficace per colpire chiunque nel profondo. Ce ne rendiamo bene conto in particolare noi spettatori quando insieme ai titoli di coda vediamo scorrere gli articoli che Marie aveva scritto e che riportano in ordine tutti gli avvenimenti che il film ha mostrato. Non possiamo quindi invocare purtroppo la "sospensione dell’incredulità” sulla scorta di S.T. Coleridge poiché ahimè non è fiction, è tutto terribilmente vero.
In conclusione, al di là del giudizio soggettivo, “A private war” è un film necessario proprio perché fa entrare lo spettatore in una realtà che giornali e telegiornali non sempre possono rendere, una realtà che deve essere conosciuta per far sì che non abbia a ripetersi.
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