“Senza lasciare traccia”, Debra Granik (2018)
Will (Ben Foster) e Thom (Thomasin McKenzie) vivono la loro esistenza di padre e figlia in mezzo alla natura selvaggia di un parco nazionale nell’Oregon, utilizzando mezzi di sopravvivenza rudimentali ma efficaci. L’impressione che possiamo avere nei primi 15-20 minuti di proiezione è che il motivo di fondo del film sia l’abbandono della disumana civiltà industriale per ritrovare se stessi nell’habitat primigenio della natura. Dal “Walden, ovvero la vita nei boschi” (Henry Thoreau, 1847) in letteratura a “Into the Wild” (Sean Penn, 2007) nel cinema questo tema è molto diffuso nella cultura statunitense. Ma gradualmente emergono dalla narrazione elementi che ci portano in un’altra direzione. Will ha dentro di sé cicatrici ineliminabili, dalla morte della giovane moglie alle vicende di guerra che ha vissuto. Egli non vuole solo fuggire dalla civiltà industriale, vuole fuggire e basta, vuole correre lontano da questi demoni che lo perseguitano e non lo fanno dormire di notte. Questo suo desiderio di non stare mai fermo ricorda il famoso dialogo di “On the road” (Jack Kerouac, 1957): Sal, dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo. Per andare dove, amico? Non lo so, ma dobbiamo andare. Ma contrariamente a Sal Paradise, Will fugge anche la compagnia dei suoi simili. Per dirla in termini sociologici, rifiuta non sono la Società, ma anche la Comunità (Gemeinschaft und Gesellschaft, F. Tönnies 1887) per rifugiarsi nell'unica compagnia che può attenuare il suo tormento, quella della figlia che egli cresce secondo le leggi della sopravvivenza, ma con attenzione anche all’etica (vedi ad esempio l’ammonimento a non raccogliere subito la medaglietta trovata per strada per dar tempo a chi la ha persa di recuperarla). Thom segue all’inizio passivamente il padre a cui è molto attaccata, ma le cose cambiano nelle due occasioni in cui la coppia si trova a vivere una vita se non normale almeno più normale di quella cui sono abituati. Queste esperienze fanno crescere in Thom il desiderio della compagnia dei propri simili, desiderio che in passato non aveva mai potuto sperimentare. E cerca di instillare questo stesso desiderio nel padre con la metafora dell'alveare, dove le api vivono insieme sviluppando calore (equivalente all’amore) e non attaccano spontaneamente l’uomo che si fida di loro, anche perché sanno che se lo pungono moriranno (buon motivo per non ucciderci a vicenda!). Ma le cicatrici di Will sono troppo profonde per permettergli di fermarsi e così giungiamo all’epilogo: padre e figlia si separano, cosa che comunque prima o poi nella vita accade, e il film si chiude con il piano-sequenza di Will che abbandona la strada e viene letteralmente inghiottito dal bosco, mentre Thom inizia la sua nuova vita in comunità. In questo suo processo di formazione non dimenticherà però il padre: gli lascerà infatti sempre nel bosco una sacca con generi di prima necessità a testimonianza, oltre che dell’affetto, dell’adesione al tacito patto etico che lega genitori e figli.
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