“L’Isola dei Cani" non è solo quello che potrebbe sembrare ad una valutazione superficiale e cioè un puro divertissement realizzato con intelligenza e fantasia notevoli. In realtà Anderson, dopo aver esplorato il mondo intellettual-radical-depresso newyorkese ne “ I Tenenbaum", veste adesso i panni di Esopo e con l’atteggiamento di colui che castigat ridendo mores ci offre una favola surreale densa di significati, importanti e neanche troppo nascosti.
L'ambientazione è nel 2037 in una megalopoli giapponese, Megasaki, dove, alla fine di una faida durata secoli fra amanti dei cani e amanti dei gatti, la seconda fazione ha il sopravvento. Il dispotico sindaco Kobayashi, rappresentante dei filo-gatti, dà inizio alla deportazione forzata di tutti i cani su un’isola, utilizzata come enorme discarica di rifiuti, con la scusa di una influenza canina che potrebbe contagiare anche gli umani. Fra le poche voci che si oppongono a questo provvedimento vi sono uno scienziato, il Prof. Watanabe, e una attivista agguerrita, Tracy Walker, fornita di polsiere da tennis in stile Richie Tenenbaum. Nel piano di Kobayashi si inserisce però il suo pupillo Atari, dodicenne intraprendente, che ruba un aereo e vola sull’isola alla ricerca del suo amato cane, Spots. Da qui si dipana la storia della ricerca di Spots sull'isola, con l’aiuto di alcuni dei cani deportati e contro l’intervento delle forze inviate da Kobayashi.
Il tema principale che Anderson ci propone è il potere, simbolizzato da Kobayashi: la deportazione e l’isolamento (in questo caso letterale) dei cani è metafora della non capacità/non volontà di convivere con il diverso, fatta valere con la forza. Un potere che non esita a mentire alla popolazione: il pericolo del contagio degli umani è ipotetico e poi esiste una cura per la malattia canina, come insegna il Prof. Watanabe, inventore del siero in grado di guarirla. Ma il potere è anche assassino, Kobayashi infatti non esita a far avvelenare il povero Watanabe pur di mantenere viva la minaccia del contagio. Alla luce di tutto ciò è difficile non pensare per analogia ad eventi del recente passato ed attuali, come ad esempio la vicenda delle armi di distruzione di massa la cui esistenza non fu mai dimostrata e che servì a giustificare la guerra all'Irak, la soppressione di avversari politici e giornalisti, la monopolizzazione dei media (la rete televisiva di Megasaki è infatti al servizio di Kobayashi). Questi eventi non si verificano tra l’altro in regimi apertamente dispotici e questo è in effetti l’aspetto più preoccupante che Anderson giustamente sottolinea, situando la sua storia non in un regime tirannico ma in una (apparente) democrazia.
Un altro problema che il film solleva è quello dell’inquinamento ambientale, ben raffigurato dalle ciclopiche montagne di rifiuti presenti sull’isola con topi che scorrazzano da tutte le parti, a sottolineare l’illusione della civiltà moderna di risolvere questo problema semplicemente allontanandolo dalla propria vista. E che dire anche degli spettrali edifici diroccati, resti di una civiltà industriale obsoleta, che incombono sull’isola contribuendo all’inquinamento dell’acqua come ci ricorda Nutmeg, affascinante cagnolina la cui presenza sull’isola mefitica contribuisce ad addolcirne l'ambiente.
Come in ogni favola che si rispetti il lieto fine è d’obbligo: Atari e i cani deportati con le loro sole forze riusciranno a sconfiggere l’esercito tecnologico di Kobayashi, armato di droni e robot canini, in uno scontro epico fra psiche e techne, per dirla con Umberto Galimberti, in cui la prima riesce ad avere la meglio sulla seconda. Ed infine, come la storia era iniziata per l'atto di amore di Atari nei confronti di Spots, così essa si conclude con un altro atto d’amore, cioè la nascita di una numerosa e felice cucciolata.
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