domenica 2 settembre 2018

“Lucky”, John Howard Lynch (2017)

La fine della vita, un momento che ci coglie impreparati, anche se rappresenta la logica conclusione di un percorso, perché nessuno o quasi, soprattutto in una società legata al materiale e dimentica del trascendente come la nostra, accetta l’idea di andarsene dal mondo tangibile. E’ vero che la speranza in una vita dopo la morte può essere di grande aiuto per chi coltiva un credo religioso ma Lucky (Harry Dean Stanton) è un ateo convinto, non ha quindi questa risorsa, per lui la fine è il buio assoluto. Ma lui non pensa alla morte, vive la sua vita di novantenne tenacemente legato alle sue abitudini: il ristorante, il negozio, il bar, solo sì ma senza sentirsi solo, come ci ricorda egli stesso,  tutelato dalla piccola comunità in cui vive. Qualcosa però cambia, una improvvisa caduta a terra che Lucky vorrebbe riportare ad una malattia ma che per il dottor Kneedler (Ed Begley Jr.) è dovuta semplicemente alla vecchiaia, gli mostra brutalmente la sua fragilità, la sua vicinanza alla fine. Lucky inizia così ad avere paura, come dichiara apertamente alla cameriera Loretta (Yvonne Huff), e questa paura determina sfumati cambiamenti nei suoi rapporti con gli altri: diventa meno scontroso e acido, si apre alla Weltanschauung del suo prossimo (peraltro già dall’inizio del film lui stesso ricorda che la realtà è soggettiva) e quindi partecipa attivamente alla “fiesta” di compleanno del figlio della negoziante Bibi (Bertila Damas) esibendosi in una canzone spagnola, si rappacifica con l’avvocato Livingston (Bobby Lawrence), accetta l’omosessualità, che prima disprezzava, nel nome del genio musicale di Liberace. Ma è l’incontro con Fred (Tom Skerrit), veterano dei Marines, che gli insegna qualcosa di importante. Il dialogo porta alla luce ricordi di guerra nel Pacifico cui entrambi avevano partecipato in cui si mescolano il rimpianto per la gioventù passata e l’orrore della guerra; in particolare Fred racconta di una bambina giapponese che lo aveva colpito per il sorriso sereno con cui si avvicinava ai soldati americani dopo una feroce battaglia, un sorriso che significava l’accettazione del suo destino. Ed è lo stesso sorriso che Lucky ci rivolge alla fine del film, dopo aver contemplato a lungo un gigantesco saguaro ultracentenario, mentre il “Presidente Roosevelt", la testuggine di proprietà dell’amico Howard (David Lynch) anch’essa emblema della lunghezza della vita, ritorna lentamente a casa dopo essersene allontanata nella prima scena. E’ proprio questo che John Howard Lynch, caratterista americano ed esordiente alla regia all’età di 55 anni,  e gli sceneggiatori Logan Sparks e Drago Sumonja ci vogliono dire, che non importa avere o non avere un credo religioso per andarsene serenamente, ciò che conta è guardarsi intorno e rendersi conto di essere in pace con il mondo che ci circonda. Allora potremo sorridere al nostro destino e definirci veramente fortunati. Come fortunato può dirsi Harry Dean Stanton stesso, scomparso proprio un anno fa a 91 anni lasciandoci in ricordo questa bella interpretazione quasi autobiografica e una lezione di vita importante,  sulla scia di un altro grande vecchio di Hollywood, Richard Farnsworth nella parte di Alvin Straight ("Una storia vera", David Lynch, 1999) e fratello nel film proprio di Stanton.

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