sabato 13 gennaio 2018

“Tre Manifesti a Ebbing, Missouri" (Martin McDonagh, 2017)

Tre Manifesti a Ebbing, Missouri è un film complesso e ricco di spunti di interesse, presentati con un umorismo a tratti surreale cui McDonagh ci ha abituato fin da In Bruges-La Coscienza dell’Assassino (2008) e 7 Psicopatici (2012). Di nazionalità britannica, McDonagh decide di narrare la sua storia ambientandola nella provincia del sud degli Stati Uniti, sull’esempio del suo connazionale Ridley Scott in Thelma & Louise (1991), che ben si presta a storie di violenza. A questo scopo inventa un paese, Ebbing, che non esiste. Ma “ebbing" indica in inglese la marea che si ritira e, per estensione, il declinare, il tramontare; forse questa scelta è un modo per dirci fin dall’inizio che il ricorso alla violenza rappresenta una abdicazione dell'essere umano alla sua stessa essenza. La rabbia e la violenza permeano in effetti l’agire di Mildred Hayes (Frances McDormand) nei tentativi di mantenere in vita le indagini sulla tragica morte della figlia Angela (Kathryn Newton), rabbia che Mildred indirizza ossessivamente sullo sceriffo locale Bill Willoughby (Woody Harrelson) e che sembra spropositata se consideriamo che le indagini sono ad un punto morto apparentemente non per colpa degli investigatori. In realtà Mildred è tormentata dal pensiero di aver contribuito alla morte di Angela con cui aveva un pessimo rapporto, probabilmente a causa del carattere di entrambe, mentre il figlio Robbie (Lucas Hedges), gentile e sensibile, assorbe pazientemente gli scatti di ira della madre. Questo terribile e incancellabile rimorso è quindi il vero motore della rabbia e della violenza di Mildred, il reale motivo che esaspera il suo agire. E lo sceriffo Willoughby, che inizialmente sembra un poliziotto incapace, è forse il personaggio più positivo del film, una persona sì rozza ma buona, come dimostra nei rapporti famigliari, nei colloqui con Mildred e poi fattivamente pagando per lei una quota, e dotata di capacità introspettive insospettate. Lo possiamo capire dalla lettera che scrive al suo aiuto Jason Dixon (Sam Rockwell),  aprendone così gli occhi sul percorso di vita famigliare che lo ha portato ad essere un ottuso e violento poliziotto razzista e catalizzandone la redenzione in modo drastico e imprevedibile per lo spettatore. Questo procedere imprevedibile della vicenda (vedi anche il risultato del test del DNA sulla cui positività chiunque avrebbe giurato) e l'apertura alla possibilità di una redenzione, è preannunciato dal regista fin dall’inizio del film con la comparsa fugace di un libro di Flannery O’Connor fra le mani di Red Welby (Caleb Landry Jones). Tutta l’opera di questa autrice, radicata nel profondo sud degli Stati Uniti e cattolica convinta, è infatti imperniata su questi temi: imprevedibilità degli eventi umani e possibilità di redenzione.
Nel dipanarsi di questa complessa vicenda appaiono frequenti riferimenti alla natura. I verdi boschi delle Smoky Mountains del North Carolina dove il film è stato girato, ma soprattutto gli animali, attirano la nostra attenzione. Gli animali assistono a queste travolgenti e drammatiche vicende umane con un fare di attonita indifferenza, come per dirci che tutto questo agitarsi, ammazzarsi, picchiarsi, dal punto di vista del cerbiatto che Mildred incontra sotto i manifesti e dei cavalli che assistono al tragico gesto dello sceriffo Willoughby ha una infinitesimale importanza nello schema grandioso del cosmo, un duro colpo all’egocentrismo di noi umani.
Ed eccoci alla fine della vicenda. Mildred e Jason partono insieme, determinati in apparenza a compiere una spedizione punitiva in piena regola. Ma ancora una volta McDonagh ci spiazza: dal colloquio fra i due, forse memori delle parole della giovane e candida  compagna dell’ex marito di Mildred, Penelope (Samara Weaving), “la rabbia genera più rabbia” (la traduzione è mia), che riverberano il “la violenza genera violenza" di Anthony Burgess (Arancia Meccanica), nasce con i titoli di coda la speranza di un pò di pace.

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