mercoledì 20 giugno 2018

“La Stanza delle Meraviglie”, Todd Haynes (2017)

Il regista Todd Haynes aveva in passato affrontato il tema delle minoranze indifese nel 2002 in “Lontano dal Paradiso” (omosessualità e amore inter-razziale negli anni 50) e nel 2015 in “Carol” (ancora omosessualità, sempre negli anni 50). Ne “La Stanza delle Meraviglie” ci propone una coppia ancora più debole e indifesa: due bambini (Ben e Rose, rispettivamente Oakes Fegley e Millicent Simmonds) sordi e senza genitori che nell’arco di due storie parallele che a 50 anni di distanza l’una dall’altra (1977 e 1927) intraprendono un viaggio nella metropoli alla ricerca l’uno del padre e l’altra della madre. Nonostante tutte le difficoltà che incontreranno e che ricordano gli archetipi junghiani del Viaggio e della Ricerca, giungeranno, pur se sfasati di 50 anni, ad una meta comune.
Più che sulle immagini, vorrei concentrarmi questa volta sulla colonna sonora del film.
La madre di Ben, Elaine (Michelle Williams), ascolta “Space Oddity” di David Bowie, composta nel 1969, anno della conquista della luna. Vi si parla di un astronauta che uscito dalla navicella spaziale ammira lo spettacolo che si offre ai suoi occhi e sembra non preoccuparsi della perdita del contatto audio con la base che lo rende sordo, solo ed inerme, proprio come i due piccoli Ben e Rose sono soli, isolati perché sordi, ed inermi mentre si aggirano inseguiti da varie figure di adulti (e non a caso compare il brano “Fox on the Run” cioè "Volpe in Fuga" inciso dai Sweet nel 1974) nella New York irta di pericoli che però li affascina. Ancora “Space Oddity” compare nella colonna sonora durante i titoli di coda, questa volta cantata da un coro di bambini nell’ambito del Langley Schools Musical Project, realizzato in British Columbia nel 1976-77. Ascoltare queste voci infantili che in modo piuttosto approssimativo cantano una vicenda così drammatica, ben lontana dalle usuali canzoncine un pò melense che vengono insegnate ai bambini, crea un effetto straniante, molto insolito ed intenso. E poi l’introduzione di “Così parlò Zaratustra” di Richard Strauss, proposta appropriatamente nella versione funky stile anni 70 di Eumir Deodato; difficile pensare a un brano più adatto per almeno due motivi. Innanzitutto esso evoca la nascita e la rinascita, nella visione escatologica circolare di Nietzsche ripresa da Strauss, nel senso che Ben e Rose rinascono alla fine della film a nuova vita grazie alla tenacia che ha loro permesso di superare le difficoltà e raggiungere il fine ultimo. E il secondo è la tenacia, appunto, che chiama ancora in causa l’opera di Nietzsche a proposito della Volontà di Potenza e del Superuomo, concetti che ci ricordano la volontà ferrea di questi due bimbi nel raggiungere i loro scopi, la stessa volontà ferrea dimostrata da un altro bambino cinematografico, l'Oskar Schell di “Molto forte, incredibilmente vicino" (Stephen Daldry, 2011) anch’egli immerso in una accanita ed apparentemente impossibile ricerca, sempre a New York.
E per finire chiudiamo con le immagini e in particolare con l’incredibile plastico di New York custodito nel museo del Queens, ove il film volge all’epilogo. Un’opera vastissima nella quale la curatrice (Rose da adulta, Julianne Moore) ha nascosto qui e là sotto gli edifici piccoli ricordi del passato. Vien da pensare che il regista abbia voluto in questo modo sottolineare il ruolo del ricordo del passato come fondamenta su cui costruire il futuro. Non a caso le ricerche di Ben e Rose si basano su piccole cose (un segnalibro per lui e un articolo di giornale per lei), piccole cose che però li aiuteranno nella realizzazione dei loro scopi.



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