venerdì 16 dicembre 2022

"Saint Omer”, Alice Diop (2022)

Saint Omer è una cittadina francese del dipartimento del Passo di Calais dove si svolge il processo di cui ci parla il film. L’imputata è Laurence (Guslagie Malanda), nata a Dakar, residente da tempo in Francia, accusata dell’omicidio della figlia Élise di 15 mesi. Nell’ambito di questa trama apparentemente semplice e lineare Alice Diop affronta una serie di tematiche di grande interesse che gradualmente emergono nel corso degli interrogatori da parte della giudice (Valérie Dréville), dell’avvocatessa (Aurélia Petit) e del procuratore (Robert Cantarella). Fra il pubblico una docente e scrittrice di colore, Rama (Kayije Kagame) che ha in programma di scrivere un saggio sulla vicenda.
Laurence non ha avuto una vita felice. Figlia di genitori divorziati che le fanno pesare le loro aspettative per il suo futuro, passa un’infanzia solitaria poiché la madre pretende che si parli solo in francese, lingua che i coetanei di Laurence non conoscono. Quando poi lascia il Senegal per andare a studiare in Francia, Laurence è ancora condizionata dalla famiglia: lei vorrebbe studiare filosofia, il padre esige che invece studi legge e di fronte alla disobbedienza della figlia smette di mantenerla agli studi. Trovatasi in mezzo ad una strada e senza mezzi, Laurence inizia una relazione con uomo molto più vecchio di lei, sposato e con una figlia. Frutto di questa relazione è appunto Élise. Enormi quindi le difficoltà che questa donna ha incontrato nella vita, in particolare l'impossibilità di darsi un’identità, questa oltretutto non facile da definire quando si vive in un paese diverso dal proprio; la regista sottolinea questo aspetto inquadrando Laurence, sempre vestita nei toni dell’ocra-marrone, con sfondo della stessa tonalità, che ricordano l’Africa, contrariamente alla luce fredda della Francia del nord. E al proposito che dire della direttrice dell’istituto dove Laurence ha studiato che, interrogata dalla giudice, si chiede come mai una “africana” possa interessarsi ad un filosofo come Wittgenstein... Per tutti questi problemi Laurence è psicologicamente instabile: si contraddice, dà la colpa della morte della figlia ad una fattura malefica (un alibi di fronte a se stessa? un ritorno alle origini?), all’inizio del processo dice addirittura che l’ha uccisa perché così “tutto sarebbe stato più semplice”. Le vicende processuali hanno una ricaduta molto pesante su Rama (forse un alter ego della regista), cui sembra di rivivere la vicenda di Laurence, in particolare alla luce della gravidanza in corso e delle sue vicende famigliari: padre assente, madre depressa ed anaffettiva, incertezza della propria identità, fra donna colta ed emancipata da una parte e pettinatura con treccine afro dall’altra. 
È interessante poi analizzare l’approccio alla questione giudiziaria da parte dell’accusa, del giudice e della difesa. Il procuratore non ha dubbi: Laurence ha ucciso a sangue freddo la figlia ed il suo atteggiamento instabile è volto a confondere scientemente le acque per procurarsi delle attenuanti. La giudice cerca invece di capire il comportamento di Laurence, ma rimane in una posizione di distacco che non le permette di “entrare” nella sua mente. L’avvocatessa affronta invece la situazione da una prospettiva empatica, delineando le difficoltà che Laurence ha dovuto affrontare, la sua solitudine e quanto possa essere difficile valutare i rapporti madre-figli che, a causa del passaggio di cellule dall'una agli altri e viceversa durante la gravidanza, diventano una sorta di organismo unico (non a caso Laurence a un certo punto asserisce di aver ucciso la figlia perché così sarebbe rimasta dentro di lei). L’approccio dell'avvocatessa, che possiamo definire fenomenologico nel senso che consiste nel chiedersi non quali siano i meccanismi di un determinato comportamento ma i motivi per cui questo si verifica in quella data persona, apre una questione etica ed in particolare giudiziaria assai complessa: per emettere un giudizio si deve giudicare un dato evento prima facie e quindi come tale, come sostiene il procuratore, o cercare di scavare per capirne le origini, come sostiene l’avvocatessa? La regista propende per la seconda opinione, come si ricava sia dall’incipit del film, quando Rama mostra ai suoi studenti un filmato sulla procedura seguita nel dopoguerra in Francia di rasare a zero le donne che avevano collaborato con i nazisti, accompagnato da un commento critico di Marguerite Duras, che dalla proiezione della scena dell’infanticidio nel film “Medea” di Pasolini (1969), nel quale l’analisi del gesto della madre omicida va oltre l’interpretazione passionale presente nella narrazione di Euripide. Alla fine, e a mio parere giustamente, resta allo spettatore l’onere di decidere come giudicare Laurence poiché il verdetto non viene rivelato.
E mentre scorrono i titoli di coda ascoltiamo “Little girl blue” (1959) di Nina Simone, una canzone il cui testo esprime poca speranza nelle possibilità del singolo di modificare il proprio destino, o meglio il proprio fato, forse un modo per attenuare le responsabilità di Laurence. 
  

 

venerdì 11 novembre 2022

“Triangle of Sadness”, Ruben Östlund (2022)

 

Dopo un silenzio di 5 anni, Östlund ritorna (trionfalmente, vista la Palma d’Oro ottenuta a Cannes quest’anno) nelle sale cinematografiche con un’altra opera dedicata alla critica sociale in modalità Castigat ridendo mores, dopo “The Square” (2017) e “Forza maggiore” (2014, quest’ultimo peraltro più centrato sulla responsabilità individuale).

Una lussuosissima nave da crociera ospita un gruppo di super-ricchi per una vacanza fra mille agi. Tutto procede bene (eccetto il comportamento bizzarro del capitano Thomas, un Woody Harrelson perfetto per la parte), finché una tempesta e l’aggressione da parte di una barca di pirati causa il naufragio della nave, dal quale si salvano su un'isoletta 5 ospiti e 3 membri dell’equipaggio. 

Le tematiche del film sono la diseguaglianza e la brama di potere, nonché una presa di giro di alcuni cliché del mondo moderno, del quale in “The Square” l’obiettivo era il mondo dell’arte, in questo caso il mondo della moda. Non manca inoltre una critica del modo in cui si creano le grandi ricchezze, in accordo con l’aforisma di Balzac “Dietro ogni grande fortuna c’è un crimine”. Fin dall’inizio, dopo la spassosissima scena della selezione dei modelli, la diseguaglianza emerge quando due spettatori della sfilata di moda vengono con fermezza fatti alzare dal posto in prima fila ed accomodare nelle retrovie per far posto a dei VIP, il tutto mentre sullo schermo che fa da sfondo alla passerella brilla ipocritamente la scritta We are equal (siamo uguali). Viene in mente a questo proposito il testo di “Cara Maestra”, una canzone del 1962 in cui Luigi Tenco denunciava, con grande anticipo sui tempi, proprio la diseguaglianza vigente in una società che affermava a gran voce di volere l'uguaglianza dei suoi membri. Il potere è nella prima parte del film appalto esclusivo dei ricchi, ai quali è concessa la soddisfazione di qualsiasi richiesta, anche la più assurda, come farsi recapitare con un elicottero qualche vasetto di Nutella; dopo il naufragio lo scettro del potere passa nelle mani dei subordinati, in particolare di Abigail (Dolly De Leon), in precedenza addetta alla pulizia delle toilette, che, essendo l’unica capace di pescare, accendere un fuoco e cucinare, detiene un potere assoluto, arrivando ad esercitare una sorta di jus primae noctis sul giovane Carl (Harris Dickinson), con comprensibile nervosismo della fidanzata Yaya (Charlbi Dean) la quale d’altro canto, quando Carl è tenuto a digiuno per punizione da Abigail, non si sogna nemmeno di cedergli un po’ della sua porzione di cibo. Insomma, egoismo feroce su tutta la linea, salvo mettersi tutti a piangere quando devono uccidere un asino per procurarsi da mangiare. La lotta di classe secondo Österlund è quindi destinata a ridursi ad un passaggio di potere, non ad una sua equa distribuzione e la storia degli ultimi cento anni sembra dargli ragione. E questa smania di potere, ci dice il finale (un po’ criptico), può indurre a considerare anche l’omicidio. In tutta questa storia due personaggi spiccano fra gli altri, il capitano Thomas, che si definisce marxista, ma ammette di tradire la sua ideologia per sbarcare il lunario e manifesta questa contraddittorietà con un comportamento non proprio in linea con il suo ruolo, facilitato da un discreto abuso alcolico, ed una signora (Iris Berben), curiosamente afasica ed emiplegica a destra nella prima metà del film ed a sinistra nella seconda (sic), che, imperturbabile durante tutto il film e scampata anch’essa al naufragio, si limita ad esclamare a tratti In den Wolken (nelle nuvole). Se queste parole hanno un senso non è facile comprenderlo: potrebbe forse essere riferito al modo di vivere delle fasce privilegiate della società, vale a dire, ampliando la frase, mit dem Kopf in den Wolken cioè con la testa nelle le nuvole, quindi distanti anni-luce dalla realtà?

venerdì 28 ottobre 2022

“Brado”, Kim Rossi Stuart (2022)

Scorrono i titoli di testa su uno sfondo azzurro su cui inizia a colare dell'acqua; durante un lento zoom out l’acqua scioglie il fondo azzurro amalgamandosi pian piano con esso anche grazie a due grossi mestoli che gradualmente vediamo essere manovrati da due operai; la scena continua ad ampliarsi finché si apre completamente su un cantiere edile. Vedremo in seguito come interpretare questa scena, basti per adesso sottolinearne l’efficacia nel passare in breve tempo da un mondo immaginario al mondo concreto della narrazione. 

Renato (Kim Rossi Stuart) è un uomo difficile. Il suo carattere, che definire scontroso oppure brado come dice il titolo è un eufemismo, gli procura grossi problemi nei rapporti umani: la moglie Stefania (Barbora Bobulova) lo ha lasciato ed i figli Tommaso (il bravo Saul Nanni) ed Anna (Viola Sofia Betti), da lui allevati con metodi piuttosto duri, hanno seguito le loro strade mantenendo con lui scarsi contatti. In seguito ad un incidente sul lavoro (gestisce una sorta di ranch/scuola di equitazione) Renato si rompe un braccio e Tommaso si offre di aiutarlo, approfittando di una vacanza dalla sua attività di muratore specializzato in edilizia acrobatica; da qui inizia il racconto del rapporto padre-figlio che connota la trama. 

Dapprima è scontro totale poiché Renato pretende di domare Trevor, un cavallo particolarmente difficile, con metodi coercitivi, mai ammettendo di essere in torto, mentre Tommaso riesce nell’impresa grazie ad un approccio più gentile. Vi è una evidente analogia fra l'approccio di Renato ai cavalli ed il modo con cui ha allevato i figli, modo quest’ultimo che possiamo apprezzare grazie ad alcuni efficaci flashback. Il rapporto fra padre e figlio comunque migliora man mano che Trevor va dimostrando ottime capacità. Purtroppo durante una gara il cavallo cade all’ultimo ostacolo procurandosi una brutta frattura all’anteriore sinistro per cui Renato decide di sopprimerlo e procede in questo senso nonostante la decisa contrarietà di Tommaso che a questo proposito ricorda come il padre sopprimesse i cuccioli della loro cagna perchè “non aveva i soldi per mantenerli”. Questo episodio segna il ritorno di una rottura fra i due; Tommaso va a lavorare su una piattaforma nel mare del nord, ma deve poi tornare rapidamente in Italia quando un ulteriore incidente sul lavoro porta Renato in fin di vita. A questo punto Tommaso si trova in equilibrio fra due difficili decisioni, lui che è abituato a lavorare in equilibrio nel vuoto: interrompere le sofferenze del padre, mettendosi nei suoi stessi panni quando aveva deciso di sopprimere Trevor, oppure vederlo soffrire? 
Alla fine del film, con un classico esempio di effetto Kulešov, possiamo capire la scena iniziale: l’amalgama che vediamo gradualmente formarsi non è che la metafora di come le persone debbano riuscire appunto ad amalgamarsi, ciascuna cedendo su qualcosa, per riuscire ad esprimere i propri sentimenti e convivere felicemente. Padre e figlio si sono sempre voluti bene, ne abbiamo una chiara conferma nella scena finale, purtroppo la durezza e l'intransigenza di Renato avevano mascherato per una vita intera questa realtà. Una vita persa? È vero, ma Rossi Stuart ci dice che l’importante è che l’amalgama si realizzi, anche solo per un attimo e nel ricordo delle folli cavalcate dell’infanzia, facendo emergere alla fine l’amore che lega e ha sempre legato padre e figlio.

venerdì 14 ottobre 2022

"Siccità", Paolo Virzì (2022)


“Angosciante”, questo è l’aggettivo che mi è venuto alla mente mentre al cinema vedevo questo film. Questa angoscia istintiva era dovuta alla situazione che il film rappresenta, quella cioè di una carenza di acqua talmente severa da portare la gente in piazza e la polizia a presidiare le fontane, da provocare l'arresto di chi lava la macchina e la stigmatizzazione di chi annaffia le sue piantine. E la crisi idrica che abbiamo vissuto questa estate rende ancor più verosimile il timore di trovarsi in una situazione analoga a quella descritta nel film, crisi di cui peraltro ormai non si parla più: gli argomenti "caldi" sono infatti la guerra, il costo dell'energia, la formazione del nuovo governo, senz'altro tutti sacrosanti, ma l'estate prossima rischiamo un bis la cui entità non è possibile prevedere.

Ma vi è un secondo motivo di angoscia di cui mi sono reso conto in un secondo tempo, e questa dovuta all'affresco altmaniano che il regista ci offre sui comportamenti di una umanità variegata che va dal carcerato evaso suo malgrado all'improvvisata guardia del corpo, dal blogger compulsivo con moglie depressa e figlio borderline alla famiglia di industriali del turismo. E' deprimente oltre che angosciante vedere come questa umanità si comporti una volta sottoposta alla prova da sforzo della siccità, in pratica accentuando i difetti del mondo contemporaneo: egoismo e narcisismo (il blogger e gli industriali), fragilità (lo scienziato che si lascia corrompere dal mondo delle terrazze romane e il povero autista di taxi che si affida alla cocaina), incomunicabilità (la famiglia del blogger), violenza (la guardia del corpo). Poche le eccezioni: la moglie del blogger, commovente nel suo attaccamento alle piantine, possibile succedaneo della mancanza di amore in famiglia, i due giovani innamorati, il carcerato, quest'ultimo peraltro apparentemente preda di un deficit cognitivo. E a questo quadro fanno da sfondo i media, in particolare la televisione, che Virzì ci mostra all'opera nel selezionare le notizie non tanto per la loro importanza e veridicità, ma semplicemente in base all'impatto che prevedibilmente potranno avere sul pubblico (a questo proposito vedasi le ultime righe del paragrafo precedente).

Rimane da esaminare il finale: finalmente piove, ma non piovono rane come in “Magnolia" (P.T. Anderson, 2009) a simboleggiare il compiersi di una punizione divina per i comportamenti dell'umanità, piove invece acqua. Che significato possiamo dare a questa pioggia, quello di salvatrice di una umanità che non sembra meritare di essere salvata? O dobbiamo forse pensare che si tratti dell'inizio di un nuovo diluvio universale che spazzerà via il genere umano?   

giovedì 21 luglio 2022

Quattro film per un tema: la Memoria

La Memoria, una funzione della mente cui abitualmente e consciamente non prestiamo attenzione, ma senza la quale è difficile immaginare di poter condurre un'esistenza normale. Le quattro pellicole che ho scelto trattano questo tema da angolature diverse nell'arco degli ultimi 60 anni: "L'anno scorso a Marienbad" (Alain Resnais, 1961), "Memento" e "Inception" (Christopher Nolan, 2000 e 2010), "Memoria" (Apichatpong Weerasethakul, 2021).  

In "Marienbad" la memoria è un qualcosa di sfuggente ed aleatorio, i protagonisti (Delphine Syirig e Giorgio Albertazzi) non ricordano con precisione gli eventi, lui cerca di convincere lei di essersi già conosciuti, ma invano. E tutti i personaggi vivono in un eterno presente, ripetendo gli stessi atti e dicendo le stesse cose negli stessi ambienti. Tutto ciò è coerente, la memoria è infatti essenziale per interpretare il mondo, senza di essa percepiremmo eventi, oggetti, persone cui non sapremmo attribuire un significato sicuro poiché non saremmo in grado di metterli in relazione con altri eventi, oggetti, persone. In assenza della memoria si può quindi vivere solo come automi in un presente senza passato né futuro. Senza futuro sì, ma senza sfuggire al destino: un personaggio inquietante (Sacha Pitoëff) che si aggira misterioso nel sontuoso albergo in cui si svolge la narrazione vince sempre qualsiasi giuoco d'azzardo in cui viene coinvolto (il suo motto è "Posso anche perdere, ma vinco sempre") ed è difficile non vedere in esso una metafora della Morte, eterna vincitrice.

Anche in "Memento" il protagonista Leonard Shelby (Guy Pearce) ha problemi con la memoria: a causa di un trauma non riesce a ricordare eventi, oggetti, persone che per pochi minuti soltanto. Il suo modo di ovviare a questo problema è semplice: si tatua sul corpo o scrive su foglietti volanti le cose che gli sembrano importanti da ricordare. Ma qui sorge il problema. In primo luogo la memoria è in grado, con meccanismi non ancora ben noti, di scegliere cosa ricordare e cosa non ricordare o comunque di stabilire una scala di priorità dell'importanza di ciò che percepiamo, il che Leonard non riesce sempre a fare. In secondo luogo, la percezione degli eventi, e quindi il loro ricordo, può risultare sfalsata da fattori contingenti, ma nel caso di Leonard il trasferimento delle cose da ricordare, affidato alla scrittura sul corpo o su foglietti, è una ulteriore fonte di possibili errori. La conclusione è che il povero Leonard non riesce a ricostruire con precisione il passato per cui è continuamente a rischio di non riuscire a progettare correttamente il futuro. 

Dopo 10 anni, in "Inception" Nolan si spinge più avanti in merito alla dubbia affidabilità della memoria. Il film tratta infatti della possibilità di inserire durante il sonno falsi ricordi nella mente di persone inconsapevoli (in effetti il sonno sembra essere il momento durante il quale i ricordi vengono, per così dire, messi in ordine dalla mente) allo scopo di modificarne il comportamento e le decisioni future.     
“Memoria” riporta lo spettatore indietro di 50 anni rispetto agli effetti speciali di “Inception", a pellicole come appunto “Marienbad” dove l’immagine-tempo predominava sulla immagine-movimento (Gilles Deleuze, 1985). In esso troviamo infatti inquadrature molto lunghe, nel corso delle quali nulla avviene, riprese con macchina fissa (un ricordo del cinema di Ozu) e nel corso delle quali i personaggi non sono mai in primo piano, a sottolineare l’importanza dello sfondo, assai spesso rappresentato dalla ricca vegetazione colombiana. Ed anche i suoni hanno un ruolo importante nel film, quelli della città ma soprattutto quelli della natura, nonché il misterioso tonfo che sveglia la protagonista Jessica (Tilda Swinton) all’inizio del film per poi ripresentarsi in modo casuale nel corso di esso e sulla cui natura Jessica si interroga. Nel corso della ricerca dell’origine di quel suono Jessica si trova ad affrontare il tema principale del film, vale a dire la memoria. Memoria intesa come bene comune a tutta l’umanità, conservata oltre che nelle menti dei viventi anche negli altri elementi della natura come piante, rocce, corsi d’acqua e ancora nei resti umani di 6.000 anni fa che emergono dagli scavi di un tunnel a Bogotà. Ecco quindi perché il regista insiste nel presentarci sfondi e rumori naturali, proprio per ricordarci il ruolo preminente della Natura nell’organizzazione della nostra vita. E questo concetto mistico della memoria comune che può ricordare l’Inconscio Collettivo di Carl Gustav Jung non si ferma per il regista al nostro piccolo mondo: in una delle sequenze più originali del film vediamo infatti un’astronave mimetizzata nella vegetazione rigogliosa della giungla che pigramente si innalza e vola via fino a scomparire nel cielo come se, dopo aver immagazzinato i ricordi della Terra (forse sotto forma dei tonfi misteriosi) li portasse ad altre popolazioni dell’universo per condividerli con esse.

Questi quattro film, cui se ne potrebbero aggiungere molti altri ispirati ad altre sfaccettature dello stesso tema, per esempio la perdita della memoria (uno per tutti “Lo smemorato di Collegno", Sergio Corbucci 1962) sono solo un piccolo esempio dello stretto rapporto esistente fra Memoria e Settima Arte. Non va dimenticato però il ruolo della narrativa in questo ambito, pensiamo ad esempio all’importanza della memoria involontaria, ispiratrice dell’Arte nel capolavoro di Marcel Proust “Alla ricerca del tempo perduto” (1913-1927).

mercoledì 18 maggio 2022

“Generazione low-cost”, Emmanuel Marre e Julie Lecoustre (2021)

 

Ancora una volta il titolo italiano, forse scelto perchè vagamente accattivante, non rende lo spirito del film. Meglio sarebbe stato mantenere l'originale Rien à foutre, traducibile nella migliore delle ipotesi con “Frega niente” per non dir di peggio. Ed in effetti ai quadri della compagnia aerea per cui lavora come assistente di volo Cassandra (Adèle Exarchopoulos), la cui divisa richiama i colori di una nota compagnia low-cost irlandese, non interessa nulla di ciò che riguarda dipendenti e passeggeri purché siano salvi l’immagine e il profitto. I rapporti umani contano zero (appunto) e lo vediamo chiaramente ad esempio quando Cassandra viene rimproverata aspramente per aver acquistato con la sua carta di credito una bottiglia di vino per consolare una passeggera in evidente crisi depressiva; le regole non permettono l’uso della carta di credito dei dipendenti per acquisti in volo e ciò basta. Si tratta dell’esatto contrario dell’approccio fenomenologico, proposto da Edmund Husserl, che prevede di interpretare il mondo che ci circonda indipendentemente da preconcetti, cercando di capire il perchè degli eventi; qui invece del perché “frega niente” a nessuno. 
Un altro aspetto da sottolineare è come Cassandra vive la vita al di fuori del lavoro e forse è l’aspetto più deprimente. Essa infatti si rifugia nello smartphone sempre a portata di mano, navigando su Instagram o chattando con sconosciuti e passa serate abbrutenti fra musica techno, superalcolici e incontri sessuali occasionali. D’altro canto questo rientra nella sua filosofia di vita, lo chiarisce lei stessa molto bene nel discutere con alcuni colleghi più anziani che vorrebbero convincerla a scioperare, quando dichiara che per lei il futuro non esiste, non sa nemmeno se sarà viva il giorno dopo. Questo è l’aspetto più sconsolante che ci trasmettono Marre e Lecoustre, cioè il ritratto di una generazione che, non avendo speranze per il futuro, vive in un eterno presente, all’insegna dell’abusata espressione “come se non ci fosse un domani”. E inoltre, non pensando al futuro, Cassandra cerca anche di evitare il passaggio offertole ad un livello superiore (tentativo tra l’altro inutile perchè le vien fatto capire chiaramente che l’alternativa è il licenziamento); per lei vale quindi solo lo status quo, non vi è ambizione di miglioramento. Ma oltre a un futuro manca anche un passato, lo capiamo bene quando Cassandra e la sorella avidamente ascoltano i ricordi del padre in merito a come avvenne il suo incontro con la loro madre: non avendo un passato che valga la pena ricordare devono ricorrere al passato altrui, il che tristemente ricorda i replicanti di “Blade Runner” (Ridley Scott, 1982) che cercavano di raggiungere l'ambìto status di esseri umani impiantandosi ricordi fittizi. Un quadro quindi molto pessimista quello dipinto da Marre e Lecoustre, emerso dopo le illusioni ispirate dalla fine della guerra fredda e dalla caduta del Muro nel 1989 (la “Fine della storia" secondo Francis Fukuyama) e dalla globalizzazione, quando si poteva sperare in un roseo futuro. Ci sono voluti l’11 settembre 2001, la crisi del 2008, nonché la pandemia del 2020 ed ora la guerra in Ucraina per toglierci gli occhiali rosa e farci guardare in faccia la realtà.

mercoledì 27 aprile 2022

"Licorice Pizza”, Paul Thomas Anderson (2021)

 

Fin dal titolo Anderson ci guida nel periodo in cui è ambientato il suo film: "pizza alla liquirizia" era infatti un termine gergale in voga negli anni ’60-’70 negli Stati Uniti per indicare i dischi in vinile. E per la precisione siamo nel 1973, un periodo particolare nella storia di quella nazione. A causa dello shock petrolifero (quello delle nostre domeniche a piedi, come i più anziani ricorderanno) e dell’inizio della fine ingloriosa della guerra in Vietnam gli americani iniziarono allora a rendersi conto del declino della loro potenza, che subì poi un ulteriore colpo con le dimissioni del presidente Nixon nel 1974 a causa dello scandalo del Watergate. In questo contesto sociale si svolge la vicenda d’amore di Alana (Alana Kane) e Gary (Cooper Hoffman), entrambi perfetti nei loro ruoli. La prima è decisamente più avanti in età del secondo, ciononostante, quando Gary la vede capisce subito che sarà la sua sposa. La lettura del film può quindi essere fatta su un piano sia sociale che romantico. Per quanto riguarda il primo, lo spaccato che Anderson ci fornisce è quello di una società basata sulla finzione per non dire sull’inganno (non a caso la vicenda è ambientata proprio a Hollywood, la fabbrica dei sogni, ma anche degli incubi, come abbiamo visto in “C’era una volta a Hollywood", Quentin Tarantino, 2019) e sul business, nella quale i valori umani sono ben poco rappresentati. Abbiamo infatti il giovane Gary che impersona l’intraprendente e fanfarone businessman nordamericano alla ricerca inarrestabile di occasioni di guadagno che esorta Alana a mentire senza esitazione nei colloqui di lavoro pur di venire assunta. Non mancano poi il personaggio politico in corsa per la carica di sindaco di Los Angeles nella figura di Joel (Benny Safdie), bello e buono in apparenza, ma spietato nei rapporti personali ed un paio di attori cinematografici, William (Sean Penn) e Jon (Bradley Cooper), ricchi e affermati ma inesistenti sul piano umano. Ed emerge anche la violenza come vediamo nell’arresto brutale di Gary, accusato di omicidio in base a indizi inesistenti, evidente dimostrazione di quella police brutality di cui si iniziò a parlare negli anni ‘60 e che tuttora persiste. In questo contesto sociale deprimente e decadente si svolge la vicenda amorosa dei due protagonisti e si svolge sempre di corsa, come se Anderson volesse dirci che poco tempo rimane per l’amore in questa società ossessivamente orientata all’impiego ottimale del tempo per rincorrere il business. E a forza di correre Gary e Alana, dopo essersi lasciati e ripresi per 2 ore e 13 minuti, finalmente riusciranno ad incontrarsi in un happy ending rincuorante e molto hollywoodiano. 

lunedì 18 aprile 2022

“La figlia oscura”, Maggie Gyllenhaal (2021)


La professoressa Leda Caruso (Olivia Colman in età adulta e Jessie Buckley da ragazza) è una donna sola e tormentata dai ricordi di un passato infelice: la sua vita famigliare è stata costellata di scontri con il marito, con il quale non vi era accordo su nulla, e con le figlie che la assillavano (come tutti i bambini) con le loro richieste impedendole di portare avanti il suo lavoro di accademica in letteratura comparata. Il tutto è culminato nell'abbandono della famiglia per una infatuazione con il suo mentore, il professor Hardy (Peter Sarsgaard), Nemmeno quando decide di concedersi una vacanza su un’isola greca i suoi demoni le daranno tregua, come già nelle prime scene fa prevedere il bel cesto di frutta che la accoglie nell’appartamento affittato, il cui contenuto, apparentemente appetitoso, si rivela in realtà marcio. Nel corso della narrazione lo spettatore si accorge che Leda, apparentemente di indole solitaria, cerca in realtà il rapporto con gli altri, basta vedere come segue con attenzione le vicende dei frequentatori della spiaggia cercando di entrare nelle loro vite alla ricerca di una vita sua che non è stata capace di avere, disturbata in questa attività (come in gioventù dalle figlie) da bande di ragazzi rumorosi ed invadenti. In particolare la sua attenzione viene attratta dalla giovane Nina (Dakota Johnson) nelle cui ansie per la figlia, nei disaccordi con il marito e nella ricerca di una relazione extraconiugale, essa rivive tutte le sue vicende. Quando poi la figlia di Nina perde sulla spiaggia la bambola preferita, innescando una catena infinita di pianti e lamentele, apprendiamo che era stata Leda ad impossessarsi della bambola. E qui emerge un episodio del passato, di quando da bambina sua madre le regalò una bambola cui Leda si era poi tenacemente attaccata e che in seguito volle regalare ad una delle figlie. Quando la bimba con il pennarello disegnò degli sgorbi sulla bambola, Leda gliela tolse di mano con violenza esclamando "È la mia bambola". Ecco quindi apparire il problema di fondo, vale a dire l'incapacità di Leda di superare la fase di immaturità infantile che si trascina nell'età adulta e le impedisce di indirizzare in modo positivo i suoi rapporti con gli altri, come vediamo anche nella sua incapacità di imbastire una relazione, dapprima con l’anziano Lyle (Ed Harris), anch’egli con una vita famigliare tormentata alle spalle, e poi con il giovane Will (Paul Mescal), che le preferisce Nina. Ed infatti la vediamo attaccarsi morbosamente alla bambola, pulirla accuratamente ignorando i segnali che la avvertono del suo errore nell'agire così (il verme che esce dalla bocca della bambola). Ma Leda è alla ricerca, forse inconsciamente, di una punizione per gli errori che ha commesso nella sua vita famigliare, decide quindi di confessare di aver sottratto lei la bambola, per espiare attraverso la reazione inferocita di Nina tutti gli errori che ha commesso nella sua vita passata. Ed alla fine Leda lascia l'appartamento gettando dalle scale le valigie piene dei suoi libri di studio, come ad incolpare la carriera di averle rovinato la vita, sale in macchina ed inizia a guidare follemente fino ad uscire di strada. Dopo uno stacco che porta lo spettatore a crederla morta, la vediamo invece risvegliarsi al sole e sbucciare sorridente un'arancia con le mani, contravvenendo alla sua regola aurea di spellare le arance accuratamente con il coltello in modo da formare una sorta di serpente a spirale. Forse la regista ci ha voluto dire con quest'ultima metafora che Leda a 48 anni può ancora rompere con il suo modo di essere e relazionarsi nella giusta maniera con il mondo seguendo l'insegnamento di Simone Weil nella citazione che ne fa il professor Hardy: "L'attenzione è la forma più rara e più pura della generosità".

venerdì 25 marzo 2022

“Il Legionario”, Hleb Papou (2021)

 

Questo è un film a mio parere coraggioso e vedremo in seguito il perchè, prima ne riassumiamo in sintesi la trama. Daniel (Germano Gentile), felicemente sposato ed in attesa di una bambina, è l’unico agente di colore della “Celere” di Roma; suo fratello Patrick (Maurizio Bousso) con la madre, la moglie ed un figlio vive invece da 16 anni in uno stabile occupato della periferia romana, in una condizione di perenne incertezza per il rischio di una possibile evacuazione forzata.  E la narrazione ci porta gradualmente all’apice del dramma, cioè al momento in cui Daniel, che ha nascosto ai suoi superiori i suoi rapporti famigliari, non può evitare di partecipare alla definitiva evacuazione dello stabile.

Perchè questo è un film coraggioso? Perchè ci costringe a guardare in faccia aspetti della realtà che molti non vogliono vedere. Quando sentiamo infatti Daniel e Patrick parlare con un accento romanesco perfetto, il primo a suo agio in un ambiente particolare come la Polizia di Stato, sposati l’uno con una italiana dagli occhi azzurri e i capelli biondi e l’altro con un’albanese (senza considerare i nomi italianissimi degli attori), non possiamo nasconderci che nella nostra attuale società il luogo di origine della famiglia o il colore della pelle non possono rappresentare una linea di discrimine insuperabile per definire chi è italiano e chi  no. Ma vi è anche un altro aspetto della realtà che il film solleva, scomodo e di cui non si parla, ed è la difficoltà dei "celerini" nell'espletare il loro lavoro, costantemente costretti ad agire in condizioni di estrema difficoltà, urgenza e pericolo sul filo del rasoio fra mantenimento dell'ordine da una parte ed eccesso di violenza dall'altra e quindi esposti a critiche provenienti di volta in volta da destra o da sinistra. E come risolve il nostro Daniel il suo conflitto? Lui che è riuscito, contrariamente al fratello Patrick, ad integrarsi perfettamente nella società, lui che rischia di perdere tutto ciò per cui ha duramente lavorato se nel momento cruciale non farà la scelta giusta? Ma quale è la scelta giusta? Ecco che Daniel si trova nella posizione di Antigone nel dover decidere, al momento dello sgombero dello stabile, fra legge e famiglia, ma la sua posizione è ancora più difficile poichè la scelta è addirittura fra famiglia e famiglia, il suo superiore Aquila (Marco Falaguasta) gli ricorda infatti puntualmente che la Celere è più di un lavoro una famiglia i cui membri (il termine adottato è non a caso fratelli) si proteggono a vicenda. Quale sarà la scelta di Patrick non può ovviamente essere qui riportato, ma in ogni caso qualsiasi essa sia, come nel caso di Antigone, il confine fra giusto e sbagliato è talmente fumoso da poter essere indistinguibile. L'emissario di Papa Francesco che fa saltare i sigilli apposti all'impianto elettrico dello stabile da parte del comune di Roma non ha invece alcun problema a decidere fra solidarietà umana e legge nello scegliere la prima. "Il Legionario" è un film socialmente utile se non addirittura necessario. Purtroppo, quando ho assistito alla proiezione ero del tutto solo in sala.

venerdì 11 febbraio 2022

"Tre piani”, Nanni Moretti (2021)

L’immagine su cui scorrono i titoli di testa del film di Moretti ne riassume in nuce la trama. Vi sono infatti rappresentati tre alberi di cui i due laterali sono nel pieno della fioritura mentre il terzo, centrale, è rinsecchito, il tutto sullo sfondo del condominio in cui si svolgerà la narrazione. Questa metafora racchiude la storia delle tre famiglie protagoniste del film, ognuna costituita da tre membri uno dei quali (l’albero secco) presenta un quadro di disagio psicologico destinato ad influenzare in modo drastico la vita sua e degli altri due componenti.

Vittorio (Nanni Moretti), di professione giudice, controlla rigidamente e senza mai un sorriso la vita della famiglia, arrivando a sottoporre il figlio Andrea (Alessandro Sperduti) all’età di 8 anni ad una pantomima di processo casalingo per avergli sottratto alcuni spiccioli. Dora, la madre, (Margherita Buy) compensa la situazione con un comportamento tanto protettivo da diventare a tratti patetico. Non sorprende che il giovane Andrea ne combini di tutti i colori ed infine lasci definitivamente la famiglia.

Lucio (Riccardo Scamarcio), è preda di una paranoia ossessiva dovuta alla certezza (in assenza di validi motivi) che un anziano vicino di casa abbia molestato sua figlia. Quest’idea delirante aleggerà sulla famiglia per tutta la durata ultradecennale della narrazione.

Monica (Alba Rohrwacher) è affetta, al pari della madre, da una psicosi allucinatoria che la porterà ad abbandonare la famiglia senza lasciare traccia di sè.

Il rapporto genitori-figli è un tema dominante del film. In particolare è sottolineato un aspetto di cui non si parla volentieri ma che rappresenta una tragica realtà cioè il fatto che i genitori sono frequentemente, ed inconsapevolmente, i peggiori nemici dei propri figli. Ma anche il modo prendere la vita, sempre e solo di punta, senza cercare di smussarne, ma quasi volendone affilare, gli angoli risuona in tutta la narrazione. Ed in effetti il tango collettivo cui assistiamo alla fine del film ha il significato di richiamarci ad un atteggiamento più lieve nei confronti della vita. Più lieve, sì, però la natura stessa del tango, il suo non essere un ballo spensierato come il valzer o la mazurca, rappresenta un avvertimento, avvertimento che troviamo esplicitato nella poesia “Itaca” di Kostantinos Kavafis dove, nel paragonare alla vita il viaggio di ritorno a casa di Ulisse, egli scrive: In Ciclopi e Lestrigoni, no certo, nè nell’irato Nettuno incapperai se non li porti dentro, se l’anima non te li mette contro. Vivere lievemente la vita è quindi buona cosa, purché il nostro inconscio non celi demoni che possono impedircelo. Ed un suggerimento semplice, ma importante, per vivere bene la vita è ben espresso nell’immagine di copertina del libro omonimo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo da cui il film è tratto, riprodotta di seguito, da cui ricaviamo che è l’equilibrio, in particolare fra Emozione e Ragione come insegnava Platone nel “Fedro” con il mito della biga alata, il modo più sicuro di viver bene la vita.

 

  







 

domenica 16 gennaio 2022

"Un Eroe”, Asghar Fahradi (2021)

 

Nel vedere questo film è difficile non pensare a “Ladri di biciclette” (Vittorio de Sica, 1948). La trama è simile, in particolare è simile la figura dei figli, due innocenti che assistono impotenti ai guai dei padri, ancora più fragile il piccolo iraniano perchè oltre che bambino è anche balbuziente; per lo spettatore italiano è quindi una sorta di ritorno al neorealismo, ulteriormente sottolineato dalla minuzia con cui il regista ci mostra i dettagli della vita di tutti i giorni nell’Iran di oggi, aspetto molto interessante di questa pellicola. Un altro paragone che viene facilmente alla mente dello spettatore è con i film dei fratelli Cohen la cui tematica è semplice: si inizia con un misfatto, spesso compiuto a fin di bene, dopodiché per quanto si cerchi di porvi rimedio ci si avvita in una spirale diabolica che non può che portare al peggiore dei finali. Sembra che i due registi nordamericani ed il regista iraniano siano accomunati in una visione pessimista del mondo per cui non vi è possibilità di redenzione dai propri misfatti, il che ricorda più i concetti del protestantesimo radicale che quelli della religione ebraica ed islamica. Al di là di queste analogie, il film di Farhadi, tutto giocato abilmente sulla costruzione della spirale diabolica di cui sopra che non lascia un attimo di tranquillità allo spettatore, si presta ad un’altra importante considerazione: chi ha torto e chi ha ragione, Rahim il debitore o Bahram (Mohsen Tanabandeh) il creditore? La simpatia umana va istintivamente al primo (grazie anche alla captatio benevolentiae operata dalla figura del figlio balbuziente), ma anche il secondo ha le sue ragioni nel voler recuperare il suo credito, ragioni che il ricorso alla violenza da parte di Rahim, pur se comprensibile a causa della sua disperazione, le rende ancora più evidenti. Bahram ricorda inoltre spesso l'inaffidabilità di Rahim (suo ex-cognato), proiettando un’ombra di dubbio su un personaggio a tutta prima del tutto positivo. Detto ciò, non si può non sottolineare che nel finale Rahim riconosce la propria colpa e cerca la redenzione con il suo ultimo atto che chiude il film. In definitiva Farhadi non fa che confermare un concetto noto e cioè che il colore prevalente nel mondo è il grigio, è difficile spesso definire nettamente il confine fra bianco e nero, reso ancora più opaco dal conflitto fra considerazioni morali e regole di legge, come chiaramente dimostra il mito di Antigone.