domenica 16 gennaio 2022

"Un Eroe”, Asghar Fahradi (2021)

 

Nel vedere questo film è difficile non pensare a “Ladri di biciclette” (Vittorio de Sica, 1948). La trama è simile, in particolare è simile la figura dei figli, due innocenti che assistono impotenti ai guai dei padri, ancora più fragile il piccolo iraniano perchè oltre che bambino è anche balbuziente; per lo spettatore italiano è quindi una sorta di ritorno al neorealismo, ulteriormente sottolineato dalla minuzia con cui il regista ci mostra i dettagli della vita di tutti i giorni nell’Iran di oggi, aspetto molto interessante di questa pellicola. Un altro paragone che viene facilmente alla mente dello spettatore è con i film dei fratelli Cohen la cui tematica è semplice: si inizia con un misfatto, spesso compiuto a fin di bene, dopodiché per quanto si cerchi di porvi rimedio ci si avvita in una spirale diabolica che non può che portare al peggiore dei finali. Sembra che i due registi nordamericani ed il regista iraniano siano accomunati in una visione pessimista del mondo per cui non vi è possibilità di redenzione dai propri misfatti, il che ricorda più i concetti del protestantesimo radicale che quelli della religione ebraica ed islamica. Al di là di queste analogie, il film di Farhadi, tutto giocato abilmente sulla costruzione della spirale diabolica di cui sopra che non lascia un attimo di tranquillità allo spettatore, si presta ad un’altra importante considerazione: chi ha torto e chi ha ragione, Rahim il debitore o Bahram (Mohsen Tanabandeh) il creditore? La simpatia umana va istintivamente al primo (grazie anche alla captatio benevolentiae operata dalla figura del figlio balbuziente), ma anche il secondo ha le sue ragioni nel voler recuperare il suo credito, ragioni che il ricorso alla violenza da parte di Rahim, pur se comprensibile a causa della sua disperazione, le rende ancora più evidenti. Bahram ricorda inoltre spesso l'inaffidabilità di Rahim (suo ex-cognato), proiettando un’ombra di dubbio su un personaggio a tutta prima del tutto positivo. Detto ciò, non si può non sottolineare che nel finale Rahim riconosce la propria colpa e cerca la redenzione con il suo ultimo atto che chiude il film. In definitiva Farhadi non fa che confermare un concetto noto e cioè che il colore prevalente nel mondo è il grigio, è difficile spesso definire nettamente il confine fra bianco e nero, reso ancora più opaco dal conflitto fra considerazioni morali e regole di legge, come chiaramente dimostra il mito di Antigone.  

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