venerdì 16 dicembre 2022

"Saint Omer”, Alice Diop (2022)

Saint Omer è una cittadina francese del dipartimento del Passo di Calais dove si svolge il processo di cui ci parla il film. L’imputata è Laurence (Guslagie Malanda), nata a Dakar, residente da tempo in Francia, accusata dell’omicidio della figlia Élise di 15 mesi. Nell’ambito di questa trama apparentemente semplice e lineare Alice Diop affronta una serie di tematiche di grande interesse che gradualmente emergono nel corso degli interrogatori da parte della giudice (Valérie Dréville), dell’avvocatessa (Aurélia Petit) e del procuratore (Robert Cantarella). Fra il pubblico una docente e scrittrice di colore, Rama (Kayije Kagame) che ha in programma di scrivere un saggio sulla vicenda.
Laurence non ha avuto una vita felice. Figlia di genitori divorziati che le fanno pesare le loro aspettative per il suo futuro, passa un’infanzia solitaria poiché la madre pretende che si parli solo in francese, lingua che i coetanei di Laurence non conoscono. Quando poi lascia il Senegal per andare a studiare in Francia, Laurence è ancora condizionata dalla famiglia: lei vorrebbe studiare filosofia, il padre esige che invece studi legge e di fronte alla disobbedienza della figlia smette di mantenerla agli studi. Trovatasi in mezzo ad una strada e senza mezzi, Laurence inizia una relazione con uomo molto più vecchio di lei, sposato e con una figlia. Frutto di questa relazione è appunto Élise. Enormi quindi le difficoltà che questa donna ha incontrato nella vita, in particolare l'impossibilità di darsi un’identità, questa oltretutto non facile da definire quando si vive in un paese diverso dal proprio; la regista sottolinea questo aspetto inquadrando Laurence, sempre vestita nei toni dell’ocra-marrone, con sfondo della stessa tonalità, che ricordano l’Africa, contrariamente alla luce fredda della Francia del nord. E al proposito che dire della direttrice dell’istituto dove Laurence ha studiato che, interrogata dalla giudice, si chiede come mai una “africana” possa interessarsi ad un filosofo come Wittgenstein... Per tutti questi problemi Laurence è psicologicamente instabile: si contraddice, dà la colpa della morte della figlia ad una fattura malefica (un alibi di fronte a se stessa? un ritorno alle origini?), all’inizio del processo dice addirittura che l’ha uccisa perché così “tutto sarebbe stato più semplice”. Le vicende processuali hanno una ricaduta molto pesante su Rama (forse un alter ego della regista), cui sembra di rivivere la vicenda di Laurence, in particolare alla luce della gravidanza in corso e delle sue vicende famigliari: padre assente, madre depressa ed anaffettiva, incertezza della propria identità, fra donna colta ed emancipata da una parte e pettinatura con treccine afro dall’altra. 
È interessante poi analizzare l’approccio alla questione giudiziaria da parte dell’accusa, del giudice e della difesa. Il procuratore non ha dubbi: Laurence ha ucciso a sangue freddo la figlia ed il suo atteggiamento instabile è volto a confondere scientemente le acque per procurarsi delle attenuanti. La giudice cerca invece di capire il comportamento di Laurence, ma rimane in una posizione di distacco che non le permette di “entrare” nella sua mente. L’avvocatessa affronta invece la situazione da una prospettiva empatica, delineando le difficoltà che Laurence ha dovuto affrontare, la sua solitudine e quanto possa essere difficile valutare i rapporti madre-figli che, a causa del passaggio di cellule dall'una agli altri e viceversa durante la gravidanza, diventano una sorta di organismo unico (non a caso Laurence a un certo punto asserisce di aver ucciso la figlia perché così sarebbe rimasta dentro di lei). L’approccio dell'avvocatessa, che possiamo definire fenomenologico nel senso che consiste nel chiedersi non quali siano i meccanismi di un determinato comportamento ma i motivi per cui questo si verifica in quella data persona, apre una questione etica ed in particolare giudiziaria assai complessa: per emettere un giudizio si deve giudicare un dato evento prima facie e quindi come tale, come sostiene il procuratore, o cercare di scavare per capirne le origini, come sostiene l’avvocatessa? La regista propende per la seconda opinione, come si ricava sia dall’incipit del film, quando Rama mostra ai suoi studenti un filmato sulla procedura seguita nel dopoguerra in Francia di rasare a zero le donne che avevano collaborato con i nazisti, accompagnato da un commento critico di Marguerite Duras, che dalla proiezione della scena dell’infanticidio nel film “Medea” di Pasolini (1969), nel quale l’analisi del gesto della madre omicida va oltre l’interpretazione passionale presente nella narrazione di Euripide. Alla fine, e a mio parere giustamente, resta allo spettatore l’onere di decidere come giudicare Laurence poiché il verdetto non viene rivelato.
E mentre scorrono i titoli di coda ascoltiamo “Little girl blue” (1959) di Nina Simone, una canzone il cui testo esprime poca speranza nelle possibilità del singolo di modificare il proprio destino, o meglio il proprio fato, forse un modo per attenuare le responsabilità di Laurence. 
  

 

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