Una volta scartato l’amore, quale può essere il vero protagonista di questo film? Il caso sembra essere un ottimo candidato, proprio come nel precedente film di Allen del 2005, “Match point”: tutto ciò che avviene nel corso di queste 36 ore a New York è infatti dominato dal caso. Tutti i piani di Gatsby ed Ashleigh vanno all’aria, tranne il giro in carrozza a Central Park che avrà però come esito inatteso la crisi della coppia. Inoltre Gatsby incontra Chan per caso, mentre andava a salutare un amico e Ashleigh fugge seminuda dalla casa di Diego a causa del ritorno inaspettato di sua moglie, Ted infine scopre che Connie lo tradisce perché la vede per caso entrare in casa dell’amante. Insomma, Allen sembra volerci dire di non pianificare troppo la vita perché il caso è sempre pronto a metterci lo zampino e a rimescolare le cose a suo piacimento, proprio come si mescolano le carte da poker, giuoco grazie al quale Gatsby guadagna senza alcun merito ingenti somme di denaro.
Un'immagine può essere apprezzata per le sue qualità puramente estetiche ("mi piace"), ma in essa esistono anche significati che possono non essere immediatamente colti, soprattutto in un mondo pieno di immagini come quello in cui viviamo. E' quindi necessario prendersi il tempo per entrare nell'immagine (in questo blog in particolare, ma non solo, cinematografica) alla ricerca di questi significati.
giovedì 12 dicembre 2019
“Un giorno di pioggia a New York”, Woody Allen (2019)
Una volta scartato l’amore, quale può essere il vero protagonista di questo film? Il caso sembra essere un ottimo candidato, proprio come nel precedente film di Allen del 2005, “Match point”: tutto ciò che avviene nel corso di queste 36 ore a New York è infatti dominato dal caso. Tutti i piani di Gatsby ed Ashleigh vanno all’aria, tranne il giro in carrozza a Central Park che avrà però come esito inatteso la crisi della coppia. Inoltre Gatsby incontra Chan per caso, mentre andava a salutare un amico e Ashleigh fugge seminuda dalla casa di Diego a causa del ritorno inaspettato di sua moglie, Ted infine scopre che Connie lo tradisce perché la vede per caso entrare in casa dell’amante. Insomma, Allen sembra volerci dire di non pianificare troppo la vita perché il caso è sempre pronto a metterci lo zampino e a rimescolare le cose a suo piacimento, proprio come si mescolano le carte da poker, giuoco grazie al quale Gatsby guadagna senza alcun merito ingenti somme di denaro.
mercoledì 4 dicembre 2019
"La belle époque”, Nicolas Bedos (2019)
Poter rivivere un periodo della nostra vita che ci ha reso felici, la nostra Belle époque appunto, è cosa che molti hanno probabilmente pensato o desiderato. Non è in effetti un caso se il viaggio nel tempo ha ispirato l’immaginazione di molti scrittori e registi. Ma c’è un modo alternativo, realizzabile e molto originale, di rivivere gli eventi e di questo ci parla Bedos nel suo bel film, basta utilizzare attori e sceneggiatori come su un set cinematografico. E questa è la possibilità che viene offerta al settantenne Victor (Daniel Auteuil) grazie ad Antoine (Guillaume Canet), un amico di suo figlio Maxime (Michaël Cohen), la cui attività consiste appunto nel ricreare con scenografie estremamente dettagliate momenti del passato in cui i suoi clienti possono immergersi. A Victor viene quindi posta la fatidica domanda: che momento del passato vorrebbe rivivere? Ed egli sceglie senza esitazione un periodo ben preciso del 1974, quando incontrò l’amore della sua vita, Marianne (Fanny Ardant) che poi divenne sua moglie e dalla quale attualmente lo divide una crisi apparentemente insuperabile. Marianne è infatti protesa al futuro, cerca affannosamente le novità anche tecnologiche, non accetta il passare del tempo, ha intessuto una relazione con un uomo che non ama, ma più giovane del marito, solo per sentirsi lei stessa più giovane. Victor è invece ripiegato su se stesso, non apprezza la modernità, usa la matita invece del computer (era stato in passato un apprezzato disegnatore), non possiede nemmeno un cellulare.
Questo film tocca tematiche importanti trattandole con ironica leggerezza. L’amore naturalmente prevale. Pensiamo ad esempio all’incontro nel bistrot La belle époque, ricostruito da Antoine sulla base di una serie di schizzi fornitigli da Victor, con Marianne ventenne impersonata da un’attrice, la statuaria Margot (Doria Tillier) che a sua volta intrattiene con Antoine una relazione assai burrascosa. Si intreccia qui un dialogo a tre: Margot parla a Victor nelle vesti di Marianne ma si rivolge in realtà ad Antoine che segue la scena non visto da dietro uno specchio e che a sua volta parla con Margot attraverso un auricolare, mentre Victor è convinto che Margot/Marianne stia parlando con lui. Nonostante questo intreccio le due coppie, Margot e Antoine da una parte, Victor e Margot/Marianne dall’altra, si capiscono perfettamente perché il linguaggio dell’amore è universale.
Un altro tema è il nostro rapporto con il passare del tempo. Marianne e Victor sono in questo agli antipodi, come abbiamo visto, ma nessuno dei due accetta l’idea, che Margot spiega a Victor, che una persona non può rimanere sempre la stessa, che si deve accettare il cambiamento, nostro e degli altri, perché l'identità è inevitabilmente plasmata dalle vicende della vita. Ed in effetti verso la fine della vicenda Victor sembra aver compreso questo aspetto nel momento in cui inizia a lavorare con un gruppo di giovani nell’impresa del figlio con soddisfazione ed entusiasmo reciproci, mentre Marianne rimane ancorata ad uno schema giovanilistico vissuto passivamente.
Un altro aspetto è il modo in cui ognuno vede il mondo o meglio il modo in cui se lo rappresenta, come insegna Arthur Schopenauer, che è diverso da soggetto a soggetto. Nel film il concetto di realtà è in effetti assai sfumato, spesso lo spettatore non capisce se quello che sta vedendo è reale o no, e questo accade anche a causa del modo di vedere il reale che appunto è diverso per ciascuno di noi e dipende in modo importante dai nostri desideri che sono mutevoli. Proprio per questo Victor, quando una sera al bistrot vede arrivare un’altra attrice invece di Margot perde la testa. Allora, chi è che Victor ama: Margot, Marianne oppure Margot nella parte di Marianne?
Credo infine che un messaggio importante che deriva da questo film sia rivolto a persone come me non più giovani. Chi ha una vita alle spalle deve infatti imparare a leggere correttamente il proprio passato, ad accettare il cambiamento negli altri e riconoscerlo ed accettarlo anche in se stessi, a capire il modo di vedere le cose di chi ci sta vicino. Solo in questo modo si può evitare di sprecare l’unica vita che ci è concessa.
Questo film tocca tematiche importanti trattandole con ironica leggerezza. L’amore naturalmente prevale. Pensiamo ad esempio all’incontro nel bistrot La belle époque, ricostruito da Antoine sulla base di una serie di schizzi fornitigli da Victor, con Marianne ventenne impersonata da un’attrice, la statuaria Margot (Doria Tillier) che a sua volta intrattiene con Antoine una relazione assai burrascosa. Si intreccia qui un dialogo a tre: Margot parla a Victor nelle vesti di Marianne ma si rivolge in realtà ad Antoine che segue la scena non visto da dietro uno specchio e che a sua volta parla con Margot attraverso un auricolare, mentre Victor è convinto che Margot/Marianne stia parlando con lui. Nonostante questo intreccio le due coppie, Margot e Antoine da una parte, Victor e Margot/Marianne dall’altra, si capiscono perfettamente perché il linguaggio dell’amore è universale.
Un altro tema è il nostro rapporto con il passare del tempo. Marianne e Victor sono in questo agli antipodi, come abbiamo visto, ma nessuno dei due accetta l’idea, che Margot spiega a Victor, che una persona non può rimanere sempre la stessa, che si deve accettare il cambiamento, nostro e degli altri, perché l'identità è inevitabilmente plasmata dalle vicende della vita. Ed in effetti verso la fine della vicenda Victor sembra aver compreso questo aspetto nel momento in cui inizia a lavorare con un gruppo di giovani nell’impresa del figlio con soddisfazione ed entusiasmo reciproci, mentre Marianne rimane ancorata ad uno schema giovanilistico vissuto passivamente.
Un altro aspetto è il modo in cui ognuno vede il mondo o meglio il modo in cui se lo rappresenta, come insegna Arthur Schopenauer, che è diverso da soggetto a soggetto. Nel film il concetto di realtà è in effetti assai sfumato, spesso lo spettatore non capisce se quello che sta vedendo è reale o no, e questo accade anche a causa del modo di vedere il reale che appunto è diverso per ciascuno di noi e dipende in modo importante dai nostri desideri che sono mutevoli. Proprio per questo Victor, quando una sera al bistrot vede arrivare un’altra attrice invece di Margot perde la testa. Allora, chi è che Victor ama: Margot, Marianne oppure Margot nella parte di Marianne?
Credo infine che un messaggio importante che deriva da questo film sia rivolto a persone come me non più giovani. Chi ha una vita alle spalle deve infatti imparare a leggere correttamente il proprio passato, ad accettare il cambiamento negli altri e riconoscerlo ed accettarlo anche in se stessi, a capire il modo di vedere le cose di chi ci sta vicino. Solo in questo modo si può evitare di sprecare l’unica vita che ci è concessa.
venerdì 29 novembre 2019
mercoledì 20 novembre 2019
“Parasite”, Bong Joon-Ho (2019)
Le due famiglie descritte da Bong Joon-Ho sono speculari come composizione ma si trovano agli antipodi della scala sociale: i Park sono ricchi, vivono in una casa lussuosa nei quartieri alti dove la pioggia è solo un piacevole passatempo da guardare alla finestra. I Kim invece sono poverissimi, fanno parte del lumpenproletariat marxista, alloggiano in un seminterrato popolato da insetti e inondato da acqua e liquami di fogna ogniqualvolta la pioggia diviene torrenziale. Si sa però che il bisogno aguzza l’ingegno, di conseguenza i Kim, una volta conosciuta la famiglia Park grazie al figlio che vi si introduce come sostituto dell'insegnante di inglese, decidono di far licenziare con l’inganno governante ed autista e farsi assumere al loro posto, sistemando anche la figlia come insegnante di arte. Ma c’è sempre qualcuno che sta peggio ed ecco che a metà del film compare un povero disgraziato, marito della ex governante dei Park, che vive da anni in un bunker sotterraneo la cui esistenza è ignota agli stessi padroni di casa, nutrito dalla moglie con avanzi di cibo. Abbiamo quindi tre livelli della scala socio-economica, ordinati in senso decrescente di benessere secondo la profondità del luogo in cui vivono, fra i quali il conflitto non può tardare a manifestarsi. L’occhio del regista è spietato, nessuno è risparmiato, né i ricchi con il loro comportamento superficiale e stupidamente appiattito sulle più deteriori abitudini consumistiche delle società occidentali, né i proletari, del tutto incuranti dei danni apportati ai dipendenti di cui essi causano con l'inganno il licenziamento, in ossequio all'aforisma di Plauto Homo Homini Lupus. Un po’ di compassione viene espressa, comprensibilmente, solo nei confronti del poveretto costretto a vivere nel bunker la cui moglie peraltro prima implora umilmente la nuova governante affinché non denunci il marito e continui a nutrirlo e poi, quando un video girato con il telefonino le permette di avere in pugno i Kim, immediatamente veste i panni dell'oppressore. Questo modo di leggere il comportamento sociale, che Thomas Hobbes descrive efficacemente come un Bellum omnium contra omnes, si riflette nel pessimismo di Voltaire quando scrive:”Nell'andarcene lasceremo questo mondo tanto stupido e feroce quanto lo abbiamo trovato al nostro arrivo” e non è nuovo per Bong Joon-Ho se pensiamo al suo “Snowpiercer” del 2013.
Possiamo però provare ad essere meno pessimisti. In definitiva tutti vivono sui bisogni degli altri, come ci ricorda ne "La Ricchezza delle Nazioni” (1776) Adam Smith:"Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del loro interesse. Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo...”. Se non parassiti gli essere umani possono essere quindi considerati dei saprofiti, facenti parte di un sistema che si regge sulle reciproche necessità. Ma naturalmente questo sistema può funzionare solo se vengono osservate delle regole, regole che però siano rispettose delle libertà individuali per non cadere nell’eccesso opposto, come ad esempio con il Leviatano di Hobbes o il Grande Fratello di Orwell.
Rimane da commentare la filosofia del capofamiglia dei Kim (Song Kang-Ho): mai avere un piano poiché il fato è sempre pronto a ribaltare tutto. Una filosofia semplicistica che ricorda nel suo pessimismo quella di Homer Simpson (“Hai fatto del tuo meglio e hai fallito...la lezione è: non provare mai!”) cui fa da contraltare il pensiero di Kim-figlio (Choi Woo-Shik) che chiude il film elaborando un piano per riuscire a liberare il padre, rimasto a sua volta incastrato nel bunker, sulla cui riuscita il regista non si esprime, lasciando libero lo spettatore di trarre le conclusioni.
Possiamo però provare ad essere meno pessimisti. In definitiva tutti vivono sui bisogni degli altri, come ci ricorda ne "La Ricchezza delle Nazioni” (1776) Adam Smith:"Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del loro interesse. Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo...”. Se non parassiti gli essere umani possono essere quindi considerati dei saprofiti, facenti parte di un sistema che si regge sulle reciproche necessità. Ma naturalmente questo sistema può funzionare solo se vengono osservate delle regole, regole che però siano rispettose delle libertà individuali per non cadere nell’eccesso opposto, come ad esempio con il Leviatano di Hobbes o il Grande Fratello di Orwell.
Rimane da commentare la filosofia del capofamiglia dei Kim (Song Kang-Ho): mai avere un piano poiché il fato è sempre pronto a ribaltare tutto. Una filosofia semplicistica che ricorda nel suo pessimismo quella di Homer Simpson (“Hai fatto del tuo meglio e hai fallito...la lezione è: non provare mai!”) cui fa da contraltare il pensiero di Kim-figlio (Choi Woo-Shik) che chiude il film elaborando un piano per riuscire a liberare il padre, rimasto a sua volta incastrato nel bunker, sulla cui riuscita il regista non si esprime, lasciando libero lo spettatore di trarre le conclusioni.
sabato 9 novembre 2019
“Ma cosa ci dice il cervello”, Riccardo Milani (2019)
A prima vista “Ma cosa ci dice il cervello” potrebbe essere considerato semplicemente una commedia divertente e ben costruita. In realtà, esso presenta anche parecchi spunti di riflessione su cui vale la pena di soffermarsi.
Il titolo per primo solleva una domanda: a chi parla il cervello? Chi è il suo interlocutore? Verosimilmente si tratta del nostro corpo che necessita di istruzioni in merito a come comportarsi. Il regista sposa quindi una visione dualista del rapporto Mente-Corpo che richiama la Res cogitans e la Res extensa di Cartesio, dove Mente e Corpo sono nettamente separate, seppure colloquianti attraverso la ghiandola pineale. La storia in sé necessita proprio di questo approccio concettuale nel momento in cui affronta gli aspetti educativi che ne rappresentano una parte consistente. A questo punto è necessario un breve riassunto della trama: Giovanna (Paola Cortellesi) è una anonima impiegata ministeriale; è separata dal marito e vive con la madre e la figlia bambina. Quest’ultima si vergogna del grigiore della vita della madre, a paragone con le attività avventurose dei parenti dei compagni di scuola: astronauta, pompiere, mangiatore di fuoco...Ma in realtà Giovanna non è una semplice impiegata, è un agente segreto di altissimo livello, una 007 utilizzata in rischiose missioni internazionali. Questo ruolo le permette di reagire ad una serie di torti subiti da quattro suoi ex-compagni di scuola, vittime nel loro lavoro della tracotanza anempatica, dell’aggressività bullesca e dell’ignoranza crassa che dominano il modus vivendi della nostra società. Questa reazione non va però intesa come una pura e semplice vendetta ma come una forma di educazione del prossimo, diretta al cervello, inteso come entità a sé stante, affinché modifichi i messaggi che manda al corpo. Ma qui sorge un problema: ha diritto Giovanna ad ergersi a giudice degli altri e a modificarne il comportamento? Probabilmente no poiché questo atteggiamento comporta il rischio di sconfinare in una indebita invasione della sfera personale che può ricordare gli eccessi dello stato etico, come ben raccontato da Woody Allen ne “Il dittatore del libero stato di Bananas” (1971) dove il dittatore appunto ordina che la popolazione indossi le mutande sopra i pantaloni per essere certo che vengano cambiate ai giusti intervalli. Giovanna dovrebbe limitarsi ad esortare gli amici a reagire in modo corretto alle provocazioni, come essa stessa farà nella scena finale il cui esito però il regista non ci mostra, facendoci capire di non essere proprio certo della efficacia di questo approccio.
E un altro messaggio è quello di guardare oltre le apparenze. Giovanna, un pò come l’Atticus Finch del “Buio oltre la siepe” (Harper Lee, 1960), sembra un essere grigio ed insignificante, ma nasconde doti del tutto inaspettate che sicuramente entusiasmerebbero la figlia. E ancora, Roberto (Stefano Fresi), bellissimo ragazzo di cui Giovanna era innamorata a scuola, è oggi tutt’altro che un Adone, il suo aspetto delude Giovanna e le sue amiche, ma questo aspetto nasconde doti che porteranno Giovanna ad innamorarsi ancora di lui.
In conclusione, “Ma cosa ci dice il cervello” non solo castigat ridendo mores ma educa nel modo più efficace, e cioè divertendo.
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Il titolo per primo solleva una domanda: a chi parla il cervello? Chi è il suo interlocutore? Verosimilmente si tratta del nostro corpo che necessita di istruzioni in merito a come comportarsi. Il regista sposa quindi una visione dualista del rapporto Mente-Corpo che richiama la Res cogitans e la Res extensa di Cartesio, dove Mente e Corpo sono nettamente separate, seppure colloquianti attraverso la ghiandola pineale. La storia in sé necessita proprio di questo approccio concettuale nel momento in cui affronta gli aspetti educativi che ne rappresentano una parte consistente. A questo punto è necessario un breve riassunto della trama: Giovanna (Paola Cortellesi) è una anonima impiegata ministeriale; è separata dal marito e vive con la madre e la figlia bambina. Quest’ultima si vergogna del grigiore della vita della madre, a paragone con le attività avventurose dei parenti dei compagni di scuola: astronauta, pompiere, mangiatore di fuoco...Ma in realtà Giovanna non è una semplice impiegata, è un agente segreto di altissimo livello, una 007 utilizzata in rischiose missioni internazionali. Questo ruolo le permette di reagire ad una serie di torti subiti da quattro suoi ex-compagni di scuola, vittime nel loro lavoro della tracotanza anempatica, dell’aggressività bullesca e dell’ignoranza crassa che dominano il modus vivendi della nostra società. Questa reazione non va però intesa come una pura e semplice vendetta ma come una forma di educazione del prossimo, diretta al cervello, inteso come entità a sé stante, affinché modifichi i messaggi che manda al corpo. Ma qui sorge un problema: ha diritto Giovanna ad ergersi a giudice degli altri e a modificarne il comportamento? Probabilmente no poiché questo atteggiamento comporta il rischio di sconfinare in una indebita invasione della sfera personale che può ricordare gli eccessi dello stato etico, come ben raccontato da Woody Allen ne “Il dittatore del libero stato di Bananas” (1971) dove il dittatore appunto ordina che la popolazione indossi le mutande sopra i pantaloni per essere certo che vengano cambiate ai giusti intervalli. Giovanna dovrebbe limitarsi ad esortare gli amici a reagire in modo corretto alle provocazioni, come essa stessa farà nella scena finale il cui esito però il regista non ci mostra, facendoci capire di non essere proprio certo della efficacia di questo approccio.
E un altro messaggio è quello di guardare oltre le apparenze. Giovanna, un pò come l’Atticus Finch del “Buio oltre la siepe” (Harper Lee, 1960), sembra un essere grigio ed insignificante, ma nasconde doti del tutto inaspettate che sicuramente entusiasmerebbero la figlia. E ancora, Roberto (Stefano Fresi), bellissimo ragazzo di cui Giovanna era innamorata a scuola, è oggi tutt’altro che un Adone, il suo aspetto delude Giovanna e le sue amiche, ma questo aspetto nasconde doti che porteranno Giovanna ad innamorarsi ancora di lui.
In conclusione, “Ma cosa ci dice il cervello” non solo castigat ridendo mores ma educa nel modo più efficace, e cioè divertendo.
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venerdì 11 ottobre 2019
“Joker”, Todd Phillips (2019)
Che tipo di formazione ha ricevuto Arthur Fleck, alias Joker, (Joaquin Phoenix) nel corso della sua esistenza? Da bambino (adottato) ha subito violenze fisiche e psicologiche da parte degli amanti della madre, violenze che si ripresentano in età adulta ad opera di soggetti provenienti da strati sociali diversi, sia teppisti che colletti bianchi. I colleghi di lavoro e la sua stessa madre Penny (Frances Conroy) lo ingannano. Infine, egli ritiene di essere stato ingiustamente privato dello status socio-economico che gli deriverebbe da un padre, Thomas Wayne (Brett Cullen), che, a detta della madre, non lo vuole riconoscere. Tutto ciò si svolge in un contesto sociale in progressivo deterioramento, espresso metaforicamente dai mucchi di spazzatura che occupano le strade, in cui la forbice fra abbienti e meno abbienti si divarica sempre di più cosicché vanno aumentando gli individui che si sentono a torto o a ragione emarginati. Come reagisce il nostro Arthur/Joker a tutto ciò? Dapprima con scoppi di riso immotivati e violenti che egli attribuisce ad una forma di malattia mentale. Possiamo in effetti interpretare queste crisi di riso come un meccanismo di fuga dalla realtà, meccanismo che sottende una psicosi maniaco-depressiva ben evidente nel frequente sconfinamento di questo riso nel pianto. In definitiva Joker è un disadattato, un individuo duramente provato dalla vita che non ha saputo/potuto elaborare le sofferenze subite. E questo nonostante l’affetto che gli dimostra la vicina di casa Sophie (Zazie Beetz), probabilmente poiché i traumi fisici e psichici subiti nell’infanzia hanno determinato la irreversibilità del grave disturbo mentale che lo affligge. Egli rappresenta quindi un elemento abnorme per la società; non a caso il suo cognome, Fleck, significa in inglese "piccola macchia", metafora di un elemento estraneo ai meccanismi che regolano il funzionamento della società. E dato che la comparsa di uno squilibrio sociale è un atto di violenza, esso richiede fin dall’antichità di essere neutralizzato con un atto di violenza purificatoria, il Sacrificio, come insegna René Girard nella sua opera del 1972 “La Violenza e il Sacro”. E chi meglio di un clown, espressione della follia e della irrazionalità dionisiache contrapposte al raziocinio apollineo, è adatto a vestire l’abito del sacerdote (la maschera del clown) e compiere questo sacrificio? Joker inaugura la sua reazione violenta uccidendo tre aggressori in metropolitana, ma ciò potrebbe rappresentare semplicemente un atto di legittima difesa. Il punto di svolta nella sua evoluzione avviene quando, resosi conto di essere stato ingannato dalla madre a proposito della figura del padre, egli compie il Sacrificio supremo, la soppressione della Madre Terribile, per dirla con Jung, che inaugura la sua funzione sacerdotale. Eccolo infatti nella prima giornata di sole del film scendere danzando trionfalmente, vestito da clown, quella stessa scala che ha stancamente salito alla fine di tante tristi giornate di lavoro. Ed eccolo con grande sicurezza sopprimere in diretta televisiva lo showman Murray Franklin (Robert De Niro), rappresentante del sistema e colpevole di averlo ridicolizzato nel suo show. Ma non è finita qui: Joker viene eletto per acclamazione capo della rivolta anti-sistema, la rivolta del caos (disordine) contro il cosmo (ordine). Il sistema, è vero, reagisce e Joker viene arrestato, ma la macchina della ribellione sacrificale una volta avviata, come ci dimostrano le orme insanguinate nelle scene finali, non può più essere arrestata.
sabato 21 settembre 2019
“C’era una volta a...Hollywood”, Quentin Tarantino (2019)
Due tematiche percorrono il nono film di Tarantino, rincorrendosi ed embricandosi nel corso della narrazione. Una è l’amore del regista per il cinema, in particolare per il cinema della sua infanzia e gioventù, amore che appare con evidenza in molte delle sue opere, e l’altra, più inquietante, il rapporto fra cinema e realtà. Per la precisione dovremmo però parlare non solo di cinema ma di "immagine filmica”, così da comprendere il mezzo televisivo, inteso come braccio domestico dell’industria cinematografica.
La passione tarantiniana per l’immagine filmica si riflette in parecchi aspetti dell'opera, a partire dal titolo che richiama, con i rispettosi tre puntini di sospensione, i film di Sergio Leone. Vi è poi la riproduzione estremamente dettagliata della Hollywood degli anni 60, filmata con una cura maniacale, quasi affettuosa, per ogni dettaglio tanto immergere efficacemente lo spettatore nella narrazione. E poi non manca il ricorso a tecniche storicamente utilizzate per influenzare la psiche dello spettatore infondendogli un senso di insicurezza come le inquadrature oblique, care al cinema espressionista tedesco, o la violazione della "regola dei 180°”, regola che prevede che in un dialogo la macchina da presa stia sempre dalla stessa parte di una linea immaginaria tracciata da un attore all’altro; nella realtà chi assiste a un dialogo non salta infatti da una parte all’altra di questa linea ideale. E lo stupore giunge al culmine nel finale in cui, dopo la accurata descrizione dei fatti storici che caratterizza tutta la narrazione, Tarantino li manipola a sorpresa stravolgendo ogni aspettativa dello spettatore.
Per quanto riguarda il secondo tema, Tarantino in primo luogo sembra confermarci quella che può apparire come una ovvietà: i film non riflettono la realtà. Basti pensare alla coppia Rick Dalton (Leonardo DiCaprio)-Cliff Booth (Brad Pitt): il primo un attore smargiasso ed aggressivo nella finzione filmica, ma fragile ed insicuro nella vita reale ed il secondo il suo contrario: una controfigura di basso profilo nei film, ma capace di muoversi con sicurezza sempre ed ovunque nella vita. Ma qui sorge un dubbio: e se l’immagine filmica fosse invece la realtà? Se il film fosse un mezzo per togliere il velo di Maya che si frappone fra la Verità e la Vita, intesa quest’ultima come una illusione, essa stessa lo spettacolo? Non si tratta di una speculazione puramente filosofica, oltre a Schopenhauer l’hanno sviluppata infatti le sorelle Wachowski in “Matrix” (1999), per restare nell’ambito cinematografico. E questa tesi può essere avvalorata dal cambio di registro di Rick che alla fine del film si difende dall'aggressione con decisione inaspettata utilizzando proprio le armi letali dei suoi personaggi; potrebbe essere forse questo il suo vero carattere? C’è però una spiegazione alternativa e cioè che Rick abbia appreso il comportamento da tenere nella vita proprio dall’esperienza filmica e questo è l’aspetto inquietante. Se ciò infatti è vero, allora si comprende la discussione fra i seguaci di Charles Manson che, nel recarsi a Bel Air per compiervi la strage, si giustificano accusando l’industria cinematografica di aver condizionato con l’ostentazione ossessiva della violenza nei film il comportamento della società. Paradossalmente sembrano non rendersi conto che questa strage che essi concepiscono come una vendetta nei confronti del mondo del cinema non fa altro che assecondare questo condizionamento.
La passione tarantiniana per l’immagine filmica si riflette in parecchi aspetti dell'opera, a partire dal titolo che richiama, con i rispettosi tre puntini di sospensione, i film di Sergio Leone. Vi è poi la riproduzione estremamente dettagliata della Hollywood degli anni 60, filmata con una cura maniacale, quasi affettuosa, per ogni dettaglio tanto immergere efficacemente lo spettatore nella narrazione. E poi non manca il ricorso a tecniche storicamente utilizzate per influenzare la psiche dello spettatore infondendogli un senso di insicurezza come le inquadrature oblique, care al cinema espressionista tedesco, o la violazione della "regola dei 180°”, regola che prevede che in un dialogo la macchina da presa stia sempre dalla stessa parte di una linea immaginaria tracciata da un attore all’altro; nella realtà chi assiste a un dialogo non salta infatti da una parte all’altra di questa linea ideale. E lo stupore giunge al culmine nel finale in cui, dopo la accurata descrizione dei fatti storici che caratterizza tutta la narrazione, Tarantino li manipola a sorpresa stravolgendo ogni aspettativa dello spettatore.
Per quanto riguarda il secondo tema, Tarantino in primo luogo sembra confermarci quella che può apparire come una ovvietà: i film non riflettono la realtà. Basti pensare alla coppia Rick Dalton (Leonardo DiCaprio)-Cliff Booth (Brad Pitt): il primo un attore smargiasso ed aggressivo nella finzione filmica, ma fragile ed insicuro nella vita reale ed il secondo il suo contrario: una controfigura di basso profilo nei film, ma capace di muoversi con sicurezza sempre ed ovunque nella vita. Ma qui sorge un dubbio: e se l’immagine filmica fosse invece la realtà? Se il film fosse un mezzo per togliere il velo di Maya che si frappone fra la Verità e la Vita, intesa quest’ultima come una illusione, essa stessa lo spettacolo? Non si tratta di una speculazione puramente filosofica, oltre a Schopenhauer l’hanno sviluppata infatti le sorelle Wachowski in “Matrix” (1999), per restare nell’ambito cinematografico. E questa tesi può essere avvalorata dal cambio di registro di Rick che alla fine del film si difende dall'aggressione con decisione inaspettata utilizzando proprio le armi letali dei suoi personaggi; potrebbe essere forse questo il suo vero carattere? C’è però una spiegazione alternativa e cioè che Rick abbia appreso il comportamento da tenere nella vita proprio dall’esperienza filmica e questo è l’aspetto inquietante. Se ciò infatti è vero, allora si comprende la discussione fra i seguaci di Charles Manson che, nel recarsi a Bel Air per compiervi la strage, si giustificano accusando l’industria cinematografica di aver condizionato con l’ostentazione ossessiva della violenza nei film il comportamento della società. Paradossalmente sembrano non rendersi conto che questa strage che essi concepiscono come una vendetta nei confronti del mondo del cinema non fa altro che assecondare questo condizionamento.
lunedì 9 settembre 2019
“Martin Eden”, Pietro Marcello (2019)
Pietro Marcello inizia il suo bel film con le immagini di un comizio tenuto dall’anarchico Errico Malatesta a Savona il 1° maggio del 1920 e lo chiude ai giorni nostri con l’immagine di un gruppo di immigrati che consumano il loro pasto attorno ad un falò sulla spiaggia. Questo secolo è l’arco temporale in cui è racchiusa la vicenda di Martin Eden, liberamente tratta dall'omonimo romanzo di Jack London (1909). Questa precisazione cronologica è importante perché l’interesse principale del regista è mettere a fuoco l’impossibilità per un personaggio come Martin (Luca Marinelli) di vivere inquadrato nel suo tempo. Egli è infatti un irregolare, un outlier, termine che in gergo statistico indica i dati che escono dagli estremi della media. Lo vediamo in particolare nel suo modo di vivere la politica: è convinto che le classi colte e ricche debbano adoperarsi per migliorare le condizioni dei poveri poiché è al loro lavoro che esse devono la loro cultura ed il loro benessere, ma al contempo rifiuta il ruolo del sindacato poiché ritiene che esso azzeri l’individuo diventando sostanzialmente per il lavoratore un altro padrone. Questa sua visione, in gran parte legata allo studio della dottrina di Herbert Spencer, lo porta a scontrarsi sia con la famiglia altolocata della sua amata Elena (Jessica Cressy), che con i lavoratori, acerrimi nemici di una visione individualista della vita in accordo con il pensiero marxista. D’altro canto Martin non può non credere nelle virtù dell’individuo, egli è un self-made man, un giovane marinaio che dedica tutto il tempo libero, e nonostante la dura opposizione del cognato, a studiare, a leggere, a scrivere per emanciparsi dalla condizione di incolto lavoratore manuale e mettersi socialmente alla pari con Elena, condizione questa necessaria per coronare il loro sogno d’amore. E paradossalmente saranno appunto le idee che Martin acquisirà grazie allo studio a portarlo su posizioni politicamente incompatibili con la famiglia di Elena, come detto in precedenza, e di conseguenza alla loro separazione.
Alla formazione di Marcello contribuiscono oltre ad Elena due figure importanti: Maria (Carmen Pommella), la vedova che lo accoglie nella sua casa insieme ai suoi bambini e che rappresenta per Martin una figura a metà fra madre ed amica che con la sua semplice visione della vita fa da contraltare ai suoi sogni di gloria e ancora Russ Brissenden (Carlo Cecchi), enigmatico scrittore e mentore di Martin cui egli si affeziona come ad un padre. E proprio Russ si adopera per dissuadere (inutilmente) Martin dal perseguire la carriera di scrittore che a suo parere non gli porterà nulla di buono.
Resta da sottolineare l'originale struttura del film, caratterizzata da salti temporali apparentemente stranianti, ma che mantengono viva l’attenzione dello spettatore e da brevi sequenze inserite in modo inatteso, utili di volta in volta a rendere i pensieri di Martin, sia metaforicamente (ad esempio il veliero che affonda come espressione di una delusione sofferta) che sotto forma di memoria (ad esempio quando, ragazzino, balla con la sorella), e a ricordare l'ambiente (il mare ed il porto con i lavoratori, la campagna, gli animali) in cui si svolge la storia, come per ancorare lo spettatore alla realtà materiale della vita che fa da sfondo alle vicende umane. E proprio il mare, testimone degli esordi di Martin marinaio nella sua Napoli, ospiterà l’ultima sua sfida: una nuotata imperiosa lungo la scia luminosa del sole calante per affrontare, con la ferrea volontà che abbiamo imparato a conoscere, il tramonto.
Alla formazione di Marcello contribuiscono oltre ad Elena due figure importanti: Maria (Carmen Pommella), la vedova che lo accoglie nella sua casa insieme ai suoi bambini e che rappresenta per Martin una figura a metà fra madre ed amica che con la sua semplice visione della vita fa da contraltare ai suoi sogni di gloria e ancora Russ Brissenden (Carlo Cecchi), enigmatico scrittore e mentore di Martin cui egli si affeziona come ad un padre. E proprio Russ si adopera per dissuadere (inutilmente) Martin dal perseguire la carriera di scrittore che a suo parere non gli porterà nulla di buono.
Resta da sottolineare l'originale struttura del film, caratterizzata da salti temporali apparentemente stranianti, ma che mantengono viva l’attenzione dello spettatore e da brevi sequenze inserite in modo inatteso, utili di volta in volta a rendere i pensieri di Martin, sia metaforicamente (ad esempio il veliero che affonda come espressione di una delusione sofferta) che sotto forma di memoria (ad esempio quando, ragazzino, balla con la sorella), e a ricordare l'ambiente (il mare ed il porto con i lavoratori, la campagna, gli animali) in cui si svolge la storia, come per ancorare lo spettatore alla realtà materiale della vita che fa da sfondo alle vicende umane. E proprio il mare, testimone degli esordi di Martin marinaio nella sua Napoli, ospiterà l’ultima sua sfida: una nuotata imperiosa lungo la scia luminosa del sole calante per affrontare, con la ferrea volontà che abbiamo imparato a conoscere, il tramonto.
venerdì 6 settembre 2019
“Il Re Leone”, Jon Favreau (2019)
In primo luogo vanno sottolineate le analogie con l’Amleto di Shakespeare: il giovane Amleto e Simba, il vecchio Amleto e Mufasa, Claudio, zio di Amleto, e Scar. Tutto scorre sugli stessi binari: lo zio del protagonista uccide a tradimento il fratello, ad insaputa del nipote, per prendere il potere. La lotta per il trono della Terra del Branco si svolge quindi secondo gli stessi schemi di quella per il trono di Danimarca. Vi è però una differenza: mentre Gertrude, madre del giovane Amleto, si piega al volere di Claudio e lo sposa dopo l’uccisione del marito, Sarabi, madre di Simba, orgogliosamente si sottrae ai voleri di Scar e lo rifiuta come suo sposo. Quale è il motivo di questa difformità? Probabilmente mentre Shakespeare poteva permettersi nel 1600 di scrivere una tragedia basata in pratica solo su ruoli maschili, ai giorni nostri questo potrebbe sembrare non del tutto corretto e allora ecco spiegato sia l’accento sull’orgoglio di Sarabi che il rilievo dato ad un'altra figura femminile: Nala, futura sposa di Simba. In primo luogo essa batte sempre Simba nella lotta, fin da quando erano cuccioli, e in secondo luogo è suo il compito centrale di andare a scovare Simba nel suo ozioso esilio dorato per spingerlo ad agire e riprendere il trono usurpato da Scar. E ancora, sempre a proposito di Scar, chi ci può ricordare questo leone di brutto aspetto e talmente malvagio da arrivare a chiedere la mano (o la zampa) della vedova della sua vittima a cadavere ancora caldo? Ancora una volta ci viene al mente Shakespeare: è il suo Riccardo III, deforme nel fisico e malvagio nell’animo, che si rispecchia alla perfezione nella figura di Scar.
Un secondo punto di riflessione riguarda i numerosi archetipi, cioè figure e situazioni innate nella mente umana, di cui la trama del film è costellata. Lo stesso Simba ne rappresenta tre in sequenza: dapprima l’Orfano, poi l’Uomo comune privo di qualità e ideali, ed alla fine l’Eroe che porta a compimento la sua missione. In questo compito è aiutato dal Saggio, il mandrillo Rafiki, e dalla Grande Madre, nella persona di Nala, mentre possiamo vedere la Madre Terribile in Shenzi, leader delle iene. E non manca, per sdrammatizzare, il Buffone, impersonato dalla mangusta Timon insieme al facocero Pumbaa. La presenza di archetipi caratterizza in modo particolare le narrazioni mitiche e le favole: “Il Re Leone” è una favola e deve quindi avere una finalità educativa. In questo senso il messaggio è rappresentato dal senso di responsabilità, dal sentire cioè la necessità di portare a compimento il proprio dovere costi quel che costi, rinnegando in altre parole il mantra di Timon e Pumbaa hakuna matata cioè “senza pensieri” per seguire il consiglio di Nala e riconquistare il proprio legittimo posto, usurpato da Scar.
giovedì 15 agosto 2019
“Tesnota”, Kantemir Balagov (2017)
“Tesnota” è un film non facile, ma importante per l’analisi e la descrizione degli aspetti emozionali che condizionano le relazioni fra i personaggi. Per apprezzare questa qualità è necessario però avere la capacità (e la volontà) di identificarsi empaticamente con i soggetti che animano lo schermo.
La trama è semplice: nel 1998, alla periferia di Nalchik, città industriale del Caucaso settentrionale, viene rapita una coppia di fidanzati ebrei. La storia della ricerca del denaro per pagare il riscatto si embrica con le dinamiche interpersonali vigenti all'interno delle famiglie, della comunità e della società il che richiama appunto il titolo del film che significa in russo “vicinanza”. L’analisi del regista esordiente Kantemir Balagov, allievo di Sokurov, richiama i primi studi di sociologia come ad esempio “Comunità e Società" di Ferdinand Tonnies (1887). Questi però distingueva i rapporti nella comunità, dettati dai “caldi impulsi del cuore”, da quelli della società “che procede dal freddo intelletto”. In Balagov invece la comunità non è unita dal cuore, basta pensare alla scena nella sinagoga quando il rabbino cerca di raccogliere fondi per il riscatto: è tutto un chiamarsi fuori con le scuse più varie. E i rapporti nella società non sono da meno: Ila (Darya Zovnar), sorella del giovane rapito, è legata ad un giovane musulmano, Zalim (Nazir Zhukov), e questo legame è fortemente avversato dai genitori che non accettano un elemento che sì vive nella loro stessa società ma non rientra nei loro schemi culturali e tradizionali. La vicinanza, sia nella comunità che nella società, sembra non essere di aiuto alla convivenza. Rimane la famiglia, ma anche qui non mancano i problemi. In quella di Ila, come già detto, esplodono contrasti per il suo legame con il giovane musulmano, ma i rapporti sono comunque difficili: Ila è indipendente e ribelle, non accetta le regole tradizionali della famiglia ed è in costante rivolta nei confronti dei genitori, in particolare della madre Adina, (Olga Dragunova, da ricordare per una gamma di espressioni del viso che quasi rende inutile il parlato). Ila arriva a perdere di sua iniziativa la verginità con Zalim allo scopo di non sposare il giovane che la famiglia ha scelto per lei. La vicinanza non è quindi garanzia di facile convivenza, anzi può essere catalizzatrice di incomprensioni e drammi anche e soprattutto nell’ambito famigliare. E questo non deve per forza stupire, è normale che i figli possano non accettare le regole dei genitori poiché essi sono rivolti al futuro mentre i genitori vivono nel presente e nel ricordo del passato. Questo è il significato della bella immagine finale del film, ripresa nel poster, in cui Adina cerca di trattenere fra le braccia Ila che invece guarda decisa in avanti; il tutto nei caldi toni del giallo ocra e del blu che richiamano il vestito che all’inizio del film Adina impone alla figlia, ultima imposizione che essa accetterà dalla madre.
La trama è semplice: nel 1998, alla periferia di Nalchik, città industriale del Caucaso settentrionale, viene rapita una coppia di fidanzati ebrei. La storia della ricerca del denaro per pagare il riscatto si embrica con le dinamiche interpersonali vigenti all'interno delle famiglie, della comunità e della società il che richiama appunto il titolo del film che significa in russo “vicinanza”. L’analisi del regista esordiente Kantemir Balagov, allievo di Sokurov, richiama i primi studi di sociologia come ad esempio “Comunità e Società" di Ferdinand Tonnies (1887). Questi però distingueva i rapporti nella comunità, dettati dai “caldi impulsi del cuore”, da quelli della società “che procede dal freddo intelletto”. In Balagov invece la comunità non è unita dal cuore, basta pensare alla scena nella sinagoga quando il rabbino cerca di raccogliere fondi per il riscatto: è tutto un chiamarsi fuori con le scuse più varie. E i rapporti nella società non sono da meno: Ila (Darya Zovnar), sorella del giovane rapito, è legata ad un giovane musulmano, Zalim (Nazir Zhukov), e questo legame è fortemente avversato dai genitori che non accettano un elemento che sì vive nella loro stessa società ma non rientra nei loro schemi culturali e tradizionali. La vicinanza, sia nella comunità che nella società, sembra non essere di aiuto alla convivenza. Rimane la famiglia, ma anche qui non mancano i problemi. In quella di Ila, come già detto, esplodono contrasti per il suo legame con il giovane musulmano, ma i rapporti sono comunque difficili: Ila è indipendente e ribelle, non accetta le regole tradizionali della famiglia ed è in costante rivolta nei confronti dei genitori, in particolare della madre Adina, (Olga Dragunova, da ricordare per una gamma di espressioni del viso che quasi rende inutile il parlato). Ila arriva a perdere di sua iniziativa la verginità con Zalim allo scopo di non sposare il giovane che la famiglia ha scelto per lei. La vicinanza non è quindi garanzia di facile convivenza, anzi può essere catalizzatrice di incomprensioni e drammi anche e soprattutto nell’ambito famigliare. E questo non deve per forza stupire, è normale che i figli possano non accettare le regole dei genitori poiché essi sono rivolti al futuro mentre i genitori vivono nel presente e nel ricordo del passato. Questo è il significato della bella immagine finale del film, ripresa nel poster, in cui Adina cerca di trattenere fra le braccia Ila che invece guarda decisa in avanti; il tutto nei caldi toni del giallo ocra e del blu che richiamano il vestito che all’inizio del film Adina impone alla figlia, ultima imposizione che essa accetterà dalla madre.
venerdì 28 giugno 2019
Venezia dal Lido al tramonto, Nicolò Miana (2019)
Parliamo oggi di questa fotografia, vista su Facebook e che mi ha subito catturato.
Passata la fase emozionale dell’apprezzamento estetico mi sono soffermato a valutarla nei suoi significati e ritengo che vi siano spunti interessanti di cui parlare.
Vi sono innanzitutto due richiami importanti alla pittura: uno risale al 400 ed è il riferimento di Leon Battista Alberti ai contorni dell’immagine che egli reputa formino "una finestra aperta sul mondo per donde io miri quello che quivi sarà dipinto". E in effetti il contorno fronzuto di questa foto sembra quasi forzare l’occhio a concentrare l’attenzione dell’osservatore sul contenuto dell’immagine stessa.
E in secondo luogo il ponte, che rappresenta un intelligente artificio per separare la metà inferiore, prossima all’osservatore, da quella superiore, da apprezzare in lontananza; ma non solo: trovo molto difficile nel guardarlo non pensare al ponte giapponese del giardino di Giverny, più volte dipinto da Claude Monet (v. sotto), che anche in questo caso divide il quadro nelle due metà superiore ed inferiore facilitandone l’apprezzamento.
Oltre a questi riferimenti stilistici vi sono in questa fotografia significati profondi.
Ad esempio il richiamo alla natura, attraverso la vegetazione rappresentata dai rami degli alberi di colore scuro ed omogeneo cui fanno da contrasto gli oleandri bianchi e rossi sulla sinistra. E attraverso l’acqua, fonte di vita per il mondo vegetale ed animale, che domina la foto occupandone le due metà. Vediamo poi due piccole barche ed una bicicletta appoggiata all’albero che ci insegnano a muoverci nel nostro mondo cercando di ridurre al minimo l’impatto sulla natura, e questo proprio all’indomani dell’episodio della grande nave fuori controllo proprio a Venezia, protagonista di una strage sfiorata, proprio il contrario di come si dovrebbe vivere nel rispetto dell’ambiente. Venezia appunto, che vediamo sullo sfondo a rappresentare la memoria del passato, di un passato fragile che si deve rispettare perché sia sempre fonte di comprensione del presente e di ispirazione per il futuro, come ci ricorda Søren Kierkegaard: "La vita va interpretata guardando all’indietro e vissuta guardando in avanti". Ed ecco anche il presente, rappresentato dalla ragazza ferma in bicicletta che consulta il suo smartphone e che ci riporta ai giorni nostri. Forse, situata in questo contesto, ci vuol dire che sì, può essere possibile far convivere armoniosamente passato e presente e anche Psiche e Techne, per dirla con Umberto Galimberti. Conditio sine qua non è però di non trascurare passato e Psiche abbandonandosi per pigrizia alle comodità ed alle facilità offerte da presente e Techne.
Passata la fase emozionale dell’apprezzamento estetico mi sono soffermato a valutarla nei suoi significati e ritengo che vi siano spunti interessanti di cui parlare.
Vi sono innanzitutto due richiami importanti alla pittura: uno risale al 400 ed è il riferimento di Leon Battista Alberti ai contorni dell’immagine che egli reputa formino "una finestra aperta sul mondo per donde io miri quello che quivi sarà dipinto". E in effetti il contorno fronzuto di questa foto sembra quasi forzare l’occhio a concentrare l’attenzione dell’osservatore sul contenuto dell’immagine stessa.
E in secondo luogo il ponte, che rappresenta un intelligente artificio per separare la metà inferiore, prossima all’osservatore, da quella superiore, da apprezzare in lontananza; ma non solo: trovo molto difficile nel guardarlo non pensare al ponte giapponese del giardino di Giverny, più volte dipinto da Claude Monet (v. sotto), che anche in questo caso divide il quadro nelle due metà superiore ed inferiore facilitandone l’apprezzamento.
Oltre a questi riferimenti stilistici vi sono in questa fotografia significati profondi.
Ad esempio il richiamo alla natura, attraverso la vegetazione rappresentata dai rami degli alberi di colore scuro ed omogeneo cui fanno da contrasto gli oleandri bianchi e rossi sulla sinistra. E attraverso l’acqua, fonte di vita per il mondo vegetale ed animale, che domina la foto occupandone le due metà. Vediamo poi due piccole barche ed una bicicletta appoggiata all’albero che ci insegnano a muoverci nel nostro mondo cercando di ridurre al minimo l’impatto sulla natura, e questo proprio all’indomani dell’episodio della grande nave fuori controllo proprio a Venezia, protagonista di una strage sfiorata, proprio il contrario di come si dovrebbe vivere nel rispetto dell’ambiente. Venezia appunto, che vediamo sullo sfondo a rappresentare la memoria del passato, di un passato fragile che si deve rispettare perché sia sempre fonte di comprensione del presente e di ispirazione per il futuro, come ci ricorda Søren Kierkegaard: "La vita va interpretata guardando all’indietro e vissuta guardando in avanti". Ed ecco anche il presente, rappresentato dalla ragazza ferma in bicicletta che consulta il suo smartphone e che ci riporta ai giorni nostri. Forse, situata in questo contesto, ci vuol dire che sì, può essere possibile far convivere armoniosamente passato e presente e anche Psiche e Techne, per dirla con Umberto Galimberti. Conditio sine qua non è però di non trascurare passato e Psiche abbandonandosi per pigrizia alle comodità ed alle facilità offerte da presente e Techne.
sabato 1 giugno 2019
“Dolor y Gloria”, Pedro Almodóvar (2019)
Il Dolore e la Gloria del protagonista del film, il regista Salvador Mallo (Asier Flores da bambino e Antonio Banderas da adulto), sono racchiusi nella locandina, una sorta di patchwork che raffigura le persone e gli eventi che hanno contribuito a plasmare la sua vita e la sua identità. Ma il problema è che Salvador ricorda sì, ma evita di riallacciare i contatti con il periodo della sua giovinezza e maturità, forse perché ripiegato su se stesso dalla decadenza fisica e psichica che lo attanaglia e gli impedisce di dedicarsi al suo lavoro. Qualcosa scatta però in lui in occasione della proiezione in versione rimasterizzata presso un cineforum del suo primo film “Sabor”, qualcosa che lo spinge ad incontrare il passato, nella persona di Alberto (Asier Exteandia), attore protagonista del film, con cui non parlava dall’uscita dell'opera 32 anni prima, dopo un furioso litigio: Salvador aveva allora ritenuto che Alberto non avesse recitato in modo adeguato al suo ruolo. Sabor cioè gusto, il gusto della vita che permeava la giovinezza di Salvador e che adesso egli ha totalmente perso. E dopo l’incontro con Alberto il passato continua a far breccia nella corazza che Salvador si è costruito; adesso è la volta di Federico (Leonardo Sbaraglia), suo ex-amante, con il quale ritrova il sorriso nel ricordo dei tempi del loro amore e la spiegazione della brusca fine del loro rapporto. Ma il punto di svolta che rappresenta per Salvador la riscoperta della gioia del passato, e quindi anche della gioia del presente, è costituito dal casuale ritrovamento di un acquerello che lo ritrae bambino mentre legge un libro, un acquerello dipinto dal giovane imbianchino Eduardo (César Vicente). Il giorno in cui l’acquerello fu dipinto rappresentò per Salvador ragazzino la scoperta dell'orientamento sessuale, proprio alla vista di Eduardo che si lavava. E’un momento importante, metaforizzato dall’immagine della luce e del calore che irrompono nella buia casa semi-sotterranea dove viveva Salvador con la madre Jacinta (Penélope Cruz da giovane e Julieta Serrano da anziana). La madre appunto, con la quale Salvador intrattiene un rapporto tenero ed intimo fino alla morte di lei, sempre mantenendo i toni del dialogo fra mamma e bambino, tanto che il non essere riuscito ad esaudirne l’ultimo desiderio, e cioè morire nel suo paese, è vissuto da Salvador più che con angoscia con un sorriso, come se si fosse trattato della marachella di un bambino.
Alla fine della vicenda Salvador è riuscito a chiudere i conti con il passato ritrovando la serenità e con essa la voglia di lavorare; mette quindi mano a un nuovo film, “El Primer Deseo”, nel ricordo forse del primo desiderio da lui provato per Eduardo. La prima scena di questo film, in cui vediamo Salvador bambino con la giovane Jacinta, è spiazzante, tanto da far quasi pensare che tutti i flashback dell’infanzia che Almodóvar ci ha mostrato fossero in realtà spezzoni di questo nuovo film (Jacinta in effetti da giovane ha gli occhi scuri di Penélope Cruz e da anziana quelli grigio-chiaro di Julieta Serrano) in una commistione di vita ed arte che ricorda l’aforisma di Friedrich Hölderlin: ”Impara l’arte dalla vita e la vita dalle opere d’arte".
Alla fine della vicenda Salvador è riuscito a chiudere i conti con il passato ritrovando la serenità e con essa la voglia di lavorare; mette quindi mano a un nuovo film, “El Primer Deseo”, nel ricordo forse del primo desiderio da lui provato per Eduardo. La prima scena di questo film, in cui vediamo Salvador bambino con la giovane Jacinta, è spiazzante, tanto da far quasi pensare che tutti i flashback dell’infanzia che Almodóvar ci ha mostrato fossero in realtà spezzoni di questo nuovo film (Jacinta in effetti da giovane ha gli occhi scuri di Penélope Cruz e da anziana quelli grigio-chiaro di Julieta Serrano) in una commistione di vita ed arte che ricorda l’aforisma di Friedrich Hölderlin: ”Impara l’arte dalla vita e la vita dalle opere d’arte".
sabato 4 maggio 2019
“La Caduta dell'impero americano”, Denys Arcand (2018)
Jean-Paul (Alexandre Landry) e Linda (Florence Longpré), sono insoddisfatti della loro posizione socio-economica, ma manifestano questa insoddisfazione in modo diverso. Il primo, laureato in filosofia ma costretto a guadagnarsi da vivere facendo consegne a domicilio, nutre rancore per questo verso la società: ritiene infatti ingiusto che un uomo della sua intelligenza (e qui si dovrebbe discutere però su cosa significhi intelligenza) non possa posizionarsi più in alto nella scala economico-sociale. La seconda invece, impiegata di banca e madre single, si adagia tristemente nella sua condizione senza porsi domande o avanzare rivendicazioni. La crisi si verifica poco dopo, quando Jean-Paul assiste a una rapina e decide di appropriarsi della refurtiva, rimasta sulla strada dopo la morte di due rapinatori ed il ferimento di un terzo, senza sapere sul momento che si tratta di soldi di proprietà della malavita locale. L’appropriazione di quel denaro rappresenta la lacerazione dell’etica di cui il Nostro ama parlare, in particolare dell’etica dei principi che Jean-Paul abitualmente coltiva dedicando il suo tempo libero al volontariato in aiuto dei clochard. In altri termini: se è facile parlare in astratto seduti al ristorante con Linda, non lo è altrettanto agire di conseguenza se si è tentati. Il desiderio di riscatto economico-sociale porta quindi il nostro Jean-Paul ad infrangere i suoi principi e a mettere a frutto il denaro non suo grazie a tecniche finanziarie al limite della legalità, da vero pescecane del capitalismo. In questo gli vengono in aiuto Sylvain Bigras (Rémy Girard) e Wilbrod Taschereau (Pierre Curzi), entrambi a loro agio nel mondo del denaro, l’uno nella veste di malavitoso dedito allo studio dell'economia aziendale e l’altro titolare di uno studio finanziario ed esperto in manovre di economia spericolata. Ma il mondo non è fatto solo di freddo ragionamento e di denaro, esistono anche sentimenti, emozioni, irrazionalità. E a questo proposito entra in scena la bellissima Camille (Maripier Morin), Aspasia in arte, prostituta di alto livello di cui Jean-Paul si innamora follemente. E Camille, abbandonata dal padre da bambina, cresciuta in condizioni economiche precarie, sposata con un uomo più anziano di lei di 25 anni (era evidentemente alla ricerca della figura paterna) e poi da lui divorziata, ricambia il suo amore, gli presta denaro, corre pericoli per aiutarlo nella sua impresa finanziaria. E che dire, sempre a proposito di irrazionalità, del malavitoso Vladimir François (Eddy King), organizzatore occulto della rapina, che affida la sua vita non a un esercito di guardie del corpo ma ad un talismano, seguendo a sua insaputa l’Amor Fati di Marc’Aurelio, citato da Jean-Paul; ma il Fato, deciso dagli Dei, non è modificabile e infatti il povero Vladimir esce in breve di scena per mano di un sicario.
In conclusione, possiamo forse dire senza filosofeggiare che l’occasione fa l’uomo ladro e che ciò vale per chiunque? Forse, ma Arcand ci insinua un dubbio, facendo sfilare prima dei titoli di coda i volti di alcuni clochard, in particolare Inuit. Volti seri, dignitosi, che sembrano volerci dire “Io non lo farei mai”. Non possiamo però esserne sicuri: in un mondo in cui spregiudicatezza e mancanza di scrupoli sono il lasciapassare per raggiungere l’apice della piramide è difficile per chiunque, di fronte a un’opportunità presentataci inopinatamente dal Fato, girare la testa dall’altra parte. Jean-Paul docet.
In conclusione, possiamo forse dire senza filosofeggiare che l’occasione fa l’uomo ladro e che ciò vale per chiunque? Forse, ma Arcand ci insinua un dubbio, facendo sfilare prima dei titoli di coda i volti di alcuni clochard, in particolare Inuit. Volti seri, dignitosi, che sembrano volerci dire “Io non lo farei mai”. Non possiamo però esserne sicuri: in un mondo in cui spregiudicatezza e mancanza di scrupoli sono il lasciapassare per raggiungere l’apice della piramide è difficile per chiunque, di fronte a un’opportunità presentataci inopinatamente dal Fato, girare la testa dall’altra parte. Jean-Paul docet.
venerdì 19 aprile 2019
“Oro Verde”, Ciro Guerra e Cristina Gallego (2018)
Due sono le linee di lettura di “Oro Verde”, pellicola ambientata nel contesto di un clan Wayúu della Guajira colombiana, una etnografica ed una sociologica. All’inizio prevale la prima: i registi ci mostrano nel dettaglio i riti ancestrali di questo popolo, iniziando con la danza di corteggiamento di Rapayet (José Acosta) e Zaida (Natalia Reyes), una delle scene più belle del film, che ricorda da vicino i rituali di corteggiamento di alcune specie di uccelli. E in particolare gli uccelli, menzionati nel titolo originale “Pàjaros de Verano”, hanno un ruolo essenziale nel rapporto fra il mondo degli uomini e il mondo degli spiriti, in veste di messaggeri di questi ultimi. È quindi sottolineata la stretta vicinanza del mondo umano e del mondo animale, cosa ben nota agli antropologi. Ma ricordiamo anche il ruolo dei sogni, definiti un prodotto dell’anima e presagio del futuro. Infine, l’impianto matriarcale del clan: nelle riunioni gli uomini discutono, ma per prendere le decisioni attendono un cenno di Úrsula (Carmina Martinez), matriarca decana cui è affidata la cosa più preziosa del clan: l’amuleto che difende i suoi appartenenti dagli spiriti maligni. Alle donne è infine affidato in esclusiva il compito di prendersi cura dei morti, chiaro riconoscimento del loro ruolo di custodi della vita, dal suo inizio alla fine.
All’inizio degli anni 60 del secolo scorso, e qui inizia l’aspetto sociologico, le regole ancestrali che guidano la vita del clan vengono scosse dal contatto con il mondo, sotto forma di un gruppo di americani dei Peace Corps, interessati non solo a fare propaganda anticomunista, ma anche e forse soprattutto a procurarsi marijuana (l’oro verde del titolo italiano) da rivendere negli Stati Uniti. Ecco allora che Rapayet, alla ricerca di denaro per comprare la dote necessaria per sposare Zaida, coglie questa occasione per iniziare un traffico molto fruttuoso, comprando l’erba dal cugino Anìbal (Juan Bautista Martinez) e rivendendola agli americani. Rapayet si arricchisce, si fa costruire una villa ultramoderna assurdamente collocata in mezzo al deserto, priva di ogni connessione con la storia e l’ambiente, in stridente contrasto con il modo di vivere, gli usi e la cultura del suo popolo. E al polso di Ùrsula, teoricamente custode fedele delle tradizioni, compare un massiccio orologio d’oro. I registi sembrano volerci dire in definitiva che la ricchezza è in grado di contaminare tutto ciò che tocca. E in effetti l’esito finale è rappresentato da una spirale vertiginosa di uccisioni e in seguito di vendette, un vero dramma shakespeariano che porterà alla dissoluzione del clan ed alla morte di buona parte della famiglia. Ma se è vero che in questo caso la sete inestinguibile di ricchezza è alimentata dal sistema capitalista statunitense, è anche vero che tutto inizia con la necessità di Rapayet di procurarsi il denaro per la ricca dote chiesta dal clan per concedergli la mano di Zaida e ciò avviene ben prima che entrino in scena gli yankees. E allora dobbiamo concludere che l’avidità (la richiesta di una ricca dote) non riconosce nel capitalismo la sua origine, ma è probabilmente innata; il desiderio (di sposare Zaida) induce poi uno stato di necessità che costringe ad operare allo scopo di esaudirlo. La necessità è quindi in ultima analisi la condizione che costringe ad operare le scelte. Scelte purtroppo spesso discutibili, rischiose e talora foriere di morte, come in questo caso. E questo era ben chiaro agli antichi greci, per i quali Ananke, dea della necessità, del bisogno e quindi della costrizione, era del loro pantheon la più odiata e temuta rappresentante.
All’inizio degli anni 60 del secolo scorso, e qui inizia l’aspetto sociologico, le regole ancestrali che guidano la vita del clan vengono scosse dal contatto con il mondo, sotto forma di un gruppo di americani dei Peace Corps, interessati non solo a fare propaganda anticomunista, ma anche e forse soprattutto a procurarsi marijuana (l’oro verde del titolo italiano) da rivendere negli Stati Uniti. Ecco allora che Rapayet, alla ricerca di denaro per comprare la dote necessaria per sposare Zaida, coglie questa occasione per iniziare un traffico molto fruttuoso, comprando l’erba dal cugino Anìbal (Juan Bautista Martinez) e rivendendola agli americani. Rapayet si arricchisce, si fa costruire una villa ultramoderna assurdamente collocata in mezzo al deserto, priva di ogni connessione con la storia e l’ambiente, in stridente contrasto con il modo di vivere, gli usi e la cultura del suo popolo. E al polso di Ùrsula, teoricamente custode fedele delle tradizioni, compare un massiccio orologio d’oro. I registi sembrano volerci dire in definitiva che la ricchezza è in grado di contaminare tutto ciò che tocca. E in effetti l’esito finale è rappresentato da una spirale vertiginosa di uccisioni e in seguito di vendette, un vero dramma shakespeariano che porterà alla dissoluzione del clan ed alla morte di buona parte della famiglia. Ma se è vero che in questo caso la sete inestinguibile di ricchezza è alimentata dal sistema capitalista statunitense, è anche vero che tutto inizia con la necessità di Rapayet di procurarsi il denaro per la ricca dote chiesta dal clan per concedergli la mano di Zaida e ciò avviene ben prima che entrino in scena gli yankees. E allora dobbiamo concludere che l’avidità (la richiesta di una ricca dote) non riconosce nel capitalismo la sua origine, ma è probabilmente innata; il desiderio (di sposare Zaida) induce poi uno stato di necessità che costringe ad operare allo scopo di esaudirlo. La necessità è quindi in ultima analisi la condizione che costringe ad operare le scelte. Scelte purtroppo spesso discutibili, rischiose e talora foriere di morte, come in questo caso. E questo era ben chiaro agli antichi greci, per i quali Ananke, dea della necessità, del bisogno e quindi della costrizione, era del loro pantheon la più odiata e temuta rappresentante.
venerdì 15 marzo 2019
“Il Colpevole”, Gustav Möller (2018)
Ai fini dell'analisi di questo film è utile il paragone con un’altra pellicola: “Locke” (Steven Knight, 2013). Entrambe le opere hanno infatti in comune l’ambientazione claustrofobica, la prima in due stanze di una centrale polizia e la seconda all’interno di un’automobile, ed entrambe sono basate su conversazioni telefoniche. Una comparazione più approfondita svela poi analogie di significato interessanti. E’ in particolare il tema della responsabilità, o meglio dell’etica della responsabilità nella terminologia di Max Weber, che sottende le vicende di Ivan Locke (Tom Hardy) e di Asger Holme (Jakob Cedergen), protagonisti rispettivamente di “Locke” e di “Il Colpevole”. Questo tema è però declinato in modo diverso nelle due vicende. Ivan Locke è un personaggio molto positivo, sicuro di saper scegliere nel modo migliore come far quadrare il cerchio (o meglio il triangolo) costituito dalle responsabilità verso la famiglia, verso l’amante e verso il lavoro ed anche nei momenti di massima tensione non ha dubbi in merito all’ordine delle priorità. Egli ricorda nel nome il filosofo John Locke, padre del concetto della libertà di scelta da cui discende la responsabilità delle azioni di cui si dovrà rispondere e le decisioni di Ivan sono in perfetto accordo con questo approccio. La situazione di Asger Holme è diversa. E’ un poliziotto sospeso dal lavoro ed assegnato al centralino del pronto intervento di Copenhagen in attesa di giudizio in merito alla uccisione di un giovane per (eccesso di?) legittima difesa. Sappiamo anche che la moglie lo ha lasciato e che ha problemi con l’alcol; inoltre, nel rispondere alle telefonate dei richiedenti aiuto dimostra un atteggiamento privo di empatia, ergendosi a giudice del comportamento altrui. Tutto ciò suggerisce un maladattamento sociale, una incapacità di vedere il mondo attraverso gli occhi degli altri, ma nei confronti di Iben (Jessica Dinnage), una giovane donna che telefona al centralino asserendo di essere stata rapita dal marito da cui è separata, l’atteggiamento di Asger cambia, egli si premura all’eccesso nel fornirle aiuto e interessamento. Forse Asger percepisce il peso delle sue azioni pregresse e coglie la storia di Iben come una possibilità di redenzione, non possiamo saperlo per certo. Purtroppo però, a causa della soggettività con cui interpreta la realtà, Asger si crea un quadro della vicenda di Iben totalmente diverso dal reale. In pratica, nell’interpretare ciò che gli viene detto per telefono, possiamo dire che fra soggettivismo di Kierkegaard e oggettivismo di Hegel si sbilancia a favore del primo. Fortunatamente, nonostante l'errata interpretazione della vicenda, le sue decisioni non compromettono la situazione, anzi permettono di evitare un suicidio che poteva sembrare inevitabile. Ma Asger non è felice, nonostante i complimenti dei colleghi. Lo vediamo allontanarsi lentamente nell’ombra del corridoio ed iniziare una telefonata dal suo cellulare, non sappiamo a chi rivolta, come se volesse mantenersi nell'anonimato (non a caso anche nel manifesto del film il suo volto è in ombra) per demandare alle sole telefonate i suoi rapporti con il mondo esterno.
venerdì 8 febbraio 2019
“Green Book”, Peter Farrelly (2018)
"Green Book” non si colloca in nessuna di queste categorie. Per capire come inquadrare questa pellicola è utile ricorrere ad un'analisi strutturalista, sulla scia di quanto fatto da Claude Lévi-Strauss nell’interpretazione di miti e leggende. Bisogna dunque enucleare i singoli elementi che messi insieme creano la struttura del film, organizzando in antitesi le caratteristiche dei due protagonisti:
- Nero/Bianco
- Ricco/Povero
- Colto/Ignorante
- Senza legami sociali/Con legami sociali
- Omosessuale/Eterosessuale
tenendo presente che queste antitesi, ed in particolare quelle riguardanti il colore della pelle e l’orientamento sessuale, devono essere lette nell’ottica vigente nel 1962. Da queste contrapposizioni possiamo capire che nella vicenda del pianista nero Don Shirley (Mahershala Ali) e dell’autista bianco Tony Vallelonga (Viggo Mortensen) il tema non è solo la differenza di colore della pelle, ma comprende le altre variabili contrapposte che condizionano i rapporti interpersonali in ogni tipo di società. Che il colore della pelle abbia una importanza relativa lo possiamo anche verificare dal fatto che Don non suscita simpatie fra gli afro-americani, basti pensare allo sdegno con cui i braccianti neri al lavoro nei campi lo squadrano perché così diverso da loro, simile ad un bianco, e al disprezzo nei suoi confronti espresso dal gruppo di neri al motel quando egli rifiuta l’invito a giocare a bocce con loro. L’interesse di Farrelly è quindi focalizzato su una valutazione sociologica della convivenza basata sull’insieme delle variabili riportate in precedenza. Va detto però che anche l’aspetto dei diritti civili dei neri e della loro convivenza con i bianchi ha un suo rilievo nella storia: apprendiamo infatti dal violoncellista Oleg (Dimiter D. Marinov) che Don ha rinunciato a concerti comodi e ben retribuiti a New York per intraprendere questa scomoda e difficile tournée negli stati del sud proprio allo scopo di rivendicare il ruolo della popolazione afro-americana in un ambito d’élite quale la musica classica. Se questo è il quadro sociologico che il film esprime quale è il rimedio proposto? Lo capiamo seguendo l’evoluzione del rapporto fra Don e Tony, dal fatto che ognuno dei due impara qualcosa dall’altro, vuoi che si tratti di scrivere lettere d’amore o di apprezzare il pollo fritto. La soluzione è quindi l’apertura empatica al prossimo, la disponibilità ad apprendere da lui e ad insegnargli. Non a caso il “Green Book” del titolo, oltre ad indicare letteralmente la guida cartacea che Tony utilizza per evitare situazioni incresciose per il suo cliente nero, è una metafora per una vera e propria guida ideale alla costruzione ed al rafforzamento dei legami sociali anche in condizioni molto difficili come quelle narrate nel film. Infatti Tony ricorda a Don di non aver paura di fare il primo passo verso il prossimo, lo incita ad avere il coraggio di prendere l’iniziativa nei rapporti con gli altri, pena il restare in una condizione di solitudine quale quella in cui egli si trova. E quest'ultimo concetto ci introduce al finale del film, che critici severi probabilmente troveranno troppo sdolcinato. Può darsi che i critici abbiano ragione nella loro razionalità, ma non dimentichiamo che finali analoghi si trovano in capolavori del cinema e della letteratura come “La vita è meravigliosa” (Billy Wilder, 1946) e “Canto di Natale” (Charles Dickens, 1843) che hanno commosso e tuttora commuovono generazioni intere.
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