venerdì 15 marzo 2019

“Il Colpevole”, Gustav Möller (2018)

Ai fini dell'analisi di questo film è utile il paragone con un’altra pellicola: “Locke” (Steven Knight, 2013). Entrambe le opere hanno infatti in comune l’ambientazione claustrofobica, la prima in due stanze di una centrale polizia e la seconda all’interno di un’automobile, ed entrambe sono basate su conversazioni telefoniche. Una comparazione più approfondita svela poi analogie di significato interessanti.  E’ in particolare il tema della responsabilità, o meglio dell’etica della responsabilità nella terminologia di Max Weber, che sottende le vicende di Ivan Locke (Tom Hardy) e di Asger Holme (Jakob Cedergen), protagonisti rispettivamente di “Locke” e di “Il Colpevole”. Questo tema è però declinato in modo diverso nelle due vicende. Ivan Locke è un personaggio molto positivo, sicuro di saper scegliere nel modo migliore come far quadrare il cerchio (o meglio il triangolo) costituito dalle responsabilità verso la famiglia, verso l’amante e verso il lavoro ed anche nei momenti di massima tensione non ha dubbi in merito all’ordine delle priorità. Egli ricorda nel nome il filosofo John Locke, padre del concetto della libertà di scelta da cui discende la responsabilità delle azioni di cui si dovrà rispondere e le decisioni di Ivan sono in perfetto accordo con questo approccio. La situazione di Asger Holme è diversa. E’ un poliziotto sospeso dal lavoro ed assegnato al centralino del pronto intervento di Copenhagen in attesa di giudizio in merito alla uccisione di un giovane per (eccesso di?) legittima difesa. Sappiamo anche che la moglie lo ha lasciato e che ha problemi con l’alcol; inoltre, nel rispondere alle telefonate dei richiedenti aiuto dimostra un atteggiamento privo di empatia, ergendosi a giudice del comportamento altrui. Tutto ciò suggerisce un maladattamento sociale, una incapacità di vedere il mondo attraverso gli occhi degli altri, ma nei confronti di Iben (Jessica Dinnage), una giovane donna che telefona al centralino asserendo di essere stata rapita dal marito da cui è separata, l’atteggiamento di Asger cambia, egli si premura all’eccesso nel fornirle aiuto e interessamento. Forse Asger percepisce il peso delle sue azioni pregresse e coglie la storia di Iben come una possibilità di redenzione, non possiamo saperlo per certo. Purtroppo però, a causa della soggettività con cui interpreta la realtà, Asger si crea un quadro della vicenda di Iben totalmente diverso dal reale. In pratica, nell’interpretare ciò che gli viene detto per telefono, possiamo dire che fra soggettivismo di Kierkegaard e oggettivismo di Hegel si sbilancia a favore del primo. Fortunatamente, nonostante l'errata interpretazione della vicenda, le sue decisioni non compromettono la situazione, anzi permettono di evitare un suicidio che poteva sembrare inevitabile. Ma Asger non è felice, nonostante i complimenti dei colleghi. Lo vediamo allontanarsi lentamente nell’ombra del corridoio ed iniziare una telefonata dal suo cellulare, non sappiamo a chi rivolta, come se volesse mantenersi nell'anonimato (non a caso anche nel manifesto del film il suo volto è in ombra) per demandare alle sole telefonate i suoi rapporti con il mondo esterno.

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