venerdì 19 aprile 2019

“Oro Verde”, Ciro Guerra e Cristina Gallego (2018)

Due sono le linee di lettura di “Oro Verde”, pellicola ambientata nel contesto di un clan Wayúu della Guajira colombiana, una etnografica ed una sociologica. All’inizio prevale la prima: i registi ci mostrano nel dettaglio i riti ancestrali di questo popolo, iniziando con la danza di corteggiamento di Rapayet (José Acosta) e Zaida (Natalia Reyes), una delle scene più belle del film, che ricorda da vicino i rituali di corteggiamento di alcune specie di uccelli. E in particolare gli uccelli, menzionati nel titolo originale “Pàjaros de Verano”, hanno un ruolo essenziale nel rapporto fra il mondo degli uomini e il mondo degli spiriti, in veste di messaggeri di questi ultimi. È quindi sottolineata la stretta vicinanza del mondo umano e del mondo animale, cosa ben nota agli antropologi. Ma ricordiamo anche il ruolo dei sogni, definiti un prodotto dell’anima e presagio del futuro. Infine, l’impianto matriarcale del clan: nelle riunioni gli uomini discutono, ma per prendere le decisioni attendono un cenno di Úrsula (Carmina Martinez), matriarca decana cui è affidata la cosa più preziosa del clan: l’amuleto che difende i suoi appartenenti dagli spiriti maligni. Alle donne è infine affidato in esclusiva il compito di prendersi cura dei morti, chiaro riconoscimento del loro ruolo di custodi della vita, dal suo inizio alla fine.
All’inizio degli anni 60 del secolo scorso, e qui inizia l’aspetto sociologico, le regole ancestrali che guidano la vita del clan vengono scosse dal contatto con il mondo, sotto forma di un gruppo di americani dei Peace Corps, interessati non solo a fare propaganda anticomunista, ma anche e forse soprattutto a procurarsi marijuana (l’oro verde del titolo italiano) da rivendere negli Stati Uniti. Ecco allora che Rapayet, alla ricerca di denaro per comprare la dote necessaria per sposare Zaida, coglie questa occasione per iniziare un traffico molto fruttuoso, comprando l’erba dal cugino Anìbal (Juan Bautista Martinez) e rivendendola agli americani.  Rapayet si arricchisce, si fa costruire una villa ultramoderna assurdamente  collocata in mezzo al deserto, priva di ogni connessione con la storia e l’ambiente, in stridente contrasto con il modo di vivere, gli usi e la cultura del suo popolo. E al polso di Ùrsula, teoricamente custode fedele delle tradizioni, compare un massiccio orologio d’oro. I registi sembrano volerci dire in definitiva che la ricchezza è in grado di contaminare tutto ciò che tocca. E in effetti l’esito finale è rappresentato da una spirale vertiginosa di uccisioni e in seguito di vendette, un vero dramma shakespeariano che porterà alla dissoluzione del clan ed alla morte di buona parte della famiglia. Ma se è vero che in questo caso la sete inestinguibile di ricchezza è alimentata dal sistema capitalista statunitense, è anche vero che tutto inizia con la necessità di Rapayet di procurarsi il denaro per la ricca dote chiesta dal clan per concedergli la mano di Zaida e ciò avviene ben prima che entrino in scena gli yankees. E allora dobbiamo concludere che l’avidità (la richiesta di una ricca dote) non riconosce nel capitalismo la sua origine, ma è probabilmente innata; il desiderio (di sposare Zaida) induce poi uno stato di necessità che costringe ad operare allo scopo di esaudirlo. La necessità è quindi in ultima analisi la condizione che costringe ad operare le scelte. Scelte purtroppo spesso discutibili, rischiose e talora foriere di morte, come in questo caso. E questo era ben chiaro agli antichi greci, per i quali Ananke, dea della necessità, del bisogno e quindi della costrizione, era del loro pantheon la più odiata e temuta rappresentante.

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