Due tematiche percorrono il nono film di Tarantino, rincorrendosi ed embricandosi nel corso della narrazione. Una è l’amore del regista per il cinema, in particolare per il cinema della sua infanzia e gioventù, amore che appare con evidenza in molte delle sue opere, e l’altra, più inquietante, il rapporto fra cinema e realtà. Per la precisione dovremmo però parlare non solo di cinema ma di "immagine filmica”, così da comprendere il mezzo televisivo, inteso come braccio domestico dell’industria cinematografica.
La passione tarantiniana per l’immagine filmica si riflette in parecchi aspetti dell'opera, a partire dal titolo che richiama, con i rispettosi tre puntini di sospensione, i film di Sergio Leone. Vi è poi la riproduzione estremamente dettagliata della Hollywood degli anni 60, filmata con una cura maniacale, quasi affettuosa, per ogni dettaglio tanto immergere efficacemente lo spettatore nella narrazione. E poi non manca il ricorso a tecniche storicamente utilizzate per influenzare la psiche dello spettatore infondendogli un senso di insicurezza come le inquadrature oblique, care al cinema espressionista tedesco, o la violazione della "regola dei 180°”, regola che prevede che in un dialogo la macchina da presa stia sempre dalla stessa parte di una linea immaginaria tracciata da un attore all’altro; nella realtà chi assiste a un dialogo non salta infatti da una parte all’altra di questa linea ideale. E lo stupore giunge al culmine nel finale in cui, dopo la accurata descrizione dei fatti storici che caratterizza tutta la narrazione, Tarantino li manipola a sorpresa stravolgendo ogni aspettativa dello spettatore.
Per quanto riguarda il secondo tema, Tarantino in primo luogo sembra confermarci quella che può apparire come una ovvietà: i film non riflettono la realtà. Basti pensare alla coppia Rick Dalton (Leonardo DiCaprio)-Cliff Booth (Brad Pitt): il primo un attore smargiasso ed aggressivo nella finzione filmica, ma fragile ed insicuro nella vita reale ed il secondo il suo contrario: una controfigura di basso profilo nei film, ma capace di muoversi con sicurezza sempre ed ovunque nella vita. Ma qui sorge un dubbio: e se l’immagine filmica fosse invece la realtà? Se il film fosse un mezzo per togliere il velo di Maya che si frappone fra la Verità e la Vita, intesa quest’ultima come una illusione, essa stessa lo spettacolo? Non si tratta di una speculazione puramente filosofica, oltre a Schopenhauer l’hanno sviluppata infatti le sorelle Wachowski in “Matrix” (1999), per restare nell’ambito cinematografico. E questa tesi può essere avvalorata dal cambio di registro di Rick che alla fine del film si difende dall'aggressione con decisione inaspettata utilizzando proprio le armi letali dei suoi personaggi; potrebbe essere forse questo il suo vero carattere? C’è però una spiegazione alternativa e cioè che Rick abbia appreso il comportamento da tenere nella vita proprio dall’esperienza filmica e questo è l’aspetto inquietante. Se ciò infatti è vero, allora si comprende la discussione fra i seguaci di Charles Manson che, nel recarsi a Bel Air per compiervi la strage, si giustificano accusando l’industria cinematografica di aver condizionato con l’ostentazione ossessiva della violenza nei film il comportamento della società. Paradossalmente sembrano non rendersi conto che questa strage che essi concepiscono come una vendetta nei confronti del mondo del cinema non fa altro che assecondare questo condizionamento.
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