
La trama del film è semplice: Leonard Fife (in età avanzata Richard Gere, in gioventù Jason Elordi), fuggito in Canada nel 1968 per evitare di essere spedito in Vietnam e divenuto un famoso regista di documentari socialmente impegnati, è giunto alla fase terminale di una malattia tumorale ed accetta di rilasciare un’intervista sulla sua vita, una sorta di autobiografia verbale. La prima domanda che sorge è perché Fife prenda questa decisione, perché accetti di ammettere davanti alla telecamera eventi del suo passato di cui non può certo andare orgoglioso, ad esempio l’essere fuggito dall’America lasciandosi dietro la seconda moglie incinta (Kristine Froseth) ed un figlio piccolo (perché non portarli con sé?) e anche il rifiuto brutale (“Io non ho figli!") di incontrare il figlio Cornel (Zach Shaffer) che aveva appunto abbandonato trent’anni prima. La risposta è che Leonard si rende conto di ciò che ha fatto, della irresponsabilità manifestata nei confronti della famiglia. A questo proposito, non a caso
I tradimenti è
il titolo del romanzo di Russell Banks da cui il film è tratto. Leonard ora si trova davanti al
redde rationem del fine-vita ed accetta questa intervista in cui racconta che piccolo uomo egli sia stato (nella classificazione di Sciascia al più un mezzo uomo) per il bisogno di confessarsi, di alleggerirsi in punto di morte di un peso che in modo più o meno conscio si è portato dietro per tutta la vita. E non è, si badi, una confessione intesa in senso religioso (l’argomento non viene affrontato da questa angolatura), ma come esigenza irrinunciabile che virtualmente qualsiasi essere umano presenta. In effetti il ricorso alla psicoterapia ed in particolare alla psicoanalisi è più frequente nei paesi di religione protestante, che appunto non posseggono il sacramento della confessione, rispetto a quelli cattolici. Fife si confessa quindi di fronte alla telecamera, e per accentuare l'effetto della sua confessione esige la presenza della terza moglie Emma (Uma Thurman), sua ex-allieva che gli è vicina con affetto e pazienza.
"Oh Canada" (titolo dell'inno nazionale canadese) è un film complesso, che richiede attenzione a causa del ripetuto ricorso al flashback, realizzato per di più con l'impiego frequente di Fife adulto nelle scene che ne ritraggono la gioventù, ed alla voce fuori campo. Il motivo di questa apparentemente inspiegabile complicazione è che Schrader ha voluto farci "vivere" il funzionamento della mente di una persona nelle condizioni di Fife con una sorta di flusso di coscienza cinematografico che giustifica l'accavallarsi di tempi ed immagini. Tutto ciò non lo renderà sicuramente un blockbuster, ma probabilmente questo è un merito.
Un tocco ironico finale è rappresentato dalla registrazione realizzata dal regista dell'intervista (Michael Imperioli) tramite una microtelecamera, posta abusivamente nella camera da letto di Fife che ne documenta gli ultimi momenti di vita, una sorta di contrappasso per chi aveva fatto del documentario una ragione di vita.
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