Un'immagine può essere apprezzata per le sue qualità puramente estetiche ("mi piace"), ma in essa esistono anche significati che possono non essere immediatamente colti, soprattutto in un mondo pieno di immagini come quello in cui viviamo. E' quindi necessario prendersi il tempo per entrare nell'immagine (in questo blog in particolare, ma non solo, cinematografica) alla ricerca di questi significati.
sabato 7 novembre 2020
"Le Mans ’66 - La grande sfida”, James Mangold (2019)
Questo film può essere apprezzato emotivamente grazie alla indubbia abilità di Mangold sia nel coinvolgere lo spettatore sul piano spettacolare che nel farlo entrare in rapporto empatico con i due protagonisti (anche se le esigenze di cassetta portano spesso la sceneggiatura un po’ sopra le righe). Andando più in profondità, in questa pellicola troviamo anche un concetto molto caro al cinema americano, vale a dire la lotta fra il sistema e l’eroe solitario, fra l’omologazione e l'irregolarità. La metafora è molto chiara: da una parte abbiamo il sistema, rappresentato dalla squadra di manager della Ford tutti vestiti di scuro con camicia bianca, strettamente omologati al pensiero del presidente Henry Ford II. Dall’altra troviamo l’eroe solitario, un irregolare, un “beatnik” viene definito, cioè Ken Miles (Christian Bale), meccanico/pilota geniale ma ribelle a qualsiasi regola. Come spesso accade nelle rappresentazioni cinematografiche di questa opposizione, alla fine si assiste alla sconfitta dell’eroe solitario e al trionfo dell’establishment; su questo tema mi vengono in mente due film per me di culto: "Nick mano fredda” (Stuart Rosenberg, 1967) e "Punto zero” (Richard Sarafian, 1971). Non a caso entrambe le pellicole risalgono a subito prima e subito dopo il 1968, quando in America e nel mondo iniziò il processo di rivolta giovanile contro l’omologazione al sistema. E non a caso in entrambi i film l’eroe solitario muore per mano degli uomini del sistema; l’idea di fondo era infatti quella di creare un martire caduto per la causa della libertà. In questo film l’eroe solitario non viene ucciso ma viene imbrogliato dal sistema nel momento in cui, alla fine della gara a Le Mans nel 1966, il vicepresidente della Ford Leo Beebe (Josh Lucas) convince Ken Miles, ormai dato vincente, a ridurre la velocità per permettere alle altre due Ford in gara di tagliare il traguardo insieme a lui, ben sapendo che la vittoria non sarebbe stata condivisa a pari merito dai tre piloti ma sarebbe andata a Bruce McLaren che, essendo partito in posizione arretrata rispetto agli altri due, aveva percorso più chilometri. A questa contrapposizione standard "sistema vs eroe solitario", Mangold aggiunge due figure interessanti: dalla parte della Ford, Lee Iacocca (Jon Bernthal), a quel tempo giovane manager di quell’azienda, e dalla parte opposta Carrol Shelby (Matt Damon), ex-pilota e costruttore di automobili da corsa, amico/mentore di Miles, sul quale proietta le sue ambizioni di pilota, prematuramente bruciate a causa di un problema cardiaco congenito riacutizzatosi dopo la vittoria alla 24 ore di Le Mans nel 1959. Questi due personaggi, seppur militanti in campi opposti, svolgono un ruolo di mediazione fra il sistema e Ken, cercando di volta in volta di smussare gli angoli e di trovare un compromesso, ma senza successo a causa della rigidità delle due parti. Se consideriamo come si sono poi svolti i fatti, nel caso di Lee Iacocca si può dire che questa attitudine alla mediazione alla fine pagò, egli divenne infatti uno dei più celebri manager americani della storia nelle vesti di presidente, e salvatore dal fallimento, della Chrysler negli anni ’80. Forse la stessa fortuna nel lavoro avrebbe potuto arridere anche a Shelby, visto il successo della AC Cobra da lui prodotta, la granturismo più veloce dell’epoca, ma l’imprevisto è sempre in agguato: in questo caso dopo la morte di Miles durante una sessione di prove della Ford GT 40 Mk IV, Shelby abbandonerà la produzione di auto da corsa. Ecco quindi che le decisioni della vita vengono a dipendere da un approccio emozionale più che razionale, approccio suggellato metaforicamente alla fine del film quando la chiave inglese che Miles aveva lanciato anni prima in un momento di rabbia contro Shelby viene da questi regalata al figlio, il piccolo Peter Miles (Noah Jupe).
martedì 28 luglio 2020
Aspettando “TENET”: una sintesi della filosofia cinematografica di Christopher Nolan
Nolan esordisce nel 1997 con un cortometraggio di 3 minuti “Doodlebug” in cui già si ravvisa una delle caratteristiche della sua filmografia e cioè la messa in dubbio di una realtà che lo spettatore dava per scontata. Un anno dopo esce il suo primo lungometraggio “Following”, un noir in bianco e nero in cui troviamo un altro aspetto caratteristico della filmografia di Nolan e cioè il sovrapporsi di piani temporali in modo apparentemente caotico ma sempre in realtà consequenziale; per Nolan il concetto di tempo è relativo e lo ribadisce molto chiaramente nei successivi “Memento”, "Interstellar” e “Dunkirk”. In “Following” emerge ancora un altro tema filosficamente rilevante, il desiderio per mimesi. Lo vediamo nel protagonista, un giovane spiantato il cui svago consiste nel seguire a caso persone che incontra per strada. Egli inizia a pedinare un passante che ha attirato la sua attenzione, Mr Cobb, arrivando ad identificarsi con lui e cercando di imitarlo in tutto e per tutto. E’ questo un chiaro esempio del ruolo della mimesi nel generare una delle due pulsioni di fondo del genere umano e cioè il desiderio, concetto già espresso da Aristotele e in seguito da Freud e poi ripreso ed ampliato al di là della sfera sessuale dal filosofo francese René Girard. In breve, il desiderio per qualcosa nasce nell’essere umano nel vedere quel qualcosa in qualcun altro, spingendolo in un certo senso a voler diventare come quest'altro (mimesi); questo desiderio deve essere soddisfatto per raggiungere la felicità. Non a caso a questo proposito Arthur Schopenauer ci dice che la vita è come un pendolo che oscilla dalla noia (mancanza di qualcosa da desiderare) al dolore (desiderio di qualcosa che non abbiamo) passando brevemente per attimi di felicità (conquista dell’oggetto desiderato, seguita subito dopo dalla ripresa di noia o dolore). La mancata soddisfazione del desiderio spiega secondo Girard la seconda pulsione innata nell’uomo e cioè l’aggressività, in particolare verso colei/colui che possiede ciò che desideriamo e non possiamo avere. Ed ecco che Nolan anche in “The Prestige” affronta con chiarezza questa tematica. Qui abbiamo due prestigiatori, Angier e Borden, desiderosi di impadronirsi ciascuno dei segreti dell’altro e disposti a tutto pur di riuscirvi e superare l’avversario in bravura e successo; ma oltre a questo parossismo di desiderio, in questo film Nolan affronta anche il concetto dell’identità, lo vediamo nel continuo sovrapporsi delle figure del sosia di Angier e del gemello di Borden, ma soprattutto nella folle impresa del primo, che grazie ad una macchina costruita da Nikola Tesla per duplicare gli oggetti (ricordiamo al proposito la spiazzante distesa di cappelli a cilindro della scena iniziale il cui significato ci è chiaro solo in seguito, in omaggio all’effetto Kulešev), crea ogni sera un suo replicante, destinato a morte per annegamento alla fine dello spettacolo di magia (ma giustamente Nolan gira il coltello nella piaga insinuando nella nostra mente il dubbio di chi sia colui che soccombe: l’originale o il replicante?). Già prima di "The Prestige” il tema dell’identità (e della realtà) era stato affrontato da Nolan in “Memento”, attraverso la peculiare forma di amnesia del protagonista Leonard che gli impedisce di ricordare gli eventi recenti costringendolo a tatuarsi addosso le cose che ritiene importanti da ricordare. In questo modo Nolan metaforizza il concetto della costruzione della propria identità, e di quella altrui, attraverso la memoria degli eventi, sottolineando gli errori che si possono compiere nell’interpretare (e poi ricordare) la realtà attraverso l'esperienza di Leonard che deve basare la sua ricostruzione della realtà sugli “appunti” che si tatua sul corpo (un analogo della memoria), appunti che talora però, come i ricordi, non corrispondono a quanto in effetti avvenuto. Cosa sia in effetti la realtà è anche un tema fondamentale di “Inception”, dove i protagonisti sono costretti a portare con sé una piccola trottola per ricordarsi se stiano vivendo un sogno o la realtà poiché la trottola finisce per cadere solo nel mondo reale. E nella scena finale quando il protagonista Mr Cobb (sì, si chiama proprio così anche lui) fa girare la trottola, Nolan ci lascia ancora nel dubbio: la trottola cadrà (è la realtà) o no (è un sogno)?
Cosa rimane da dire dell’opera di questo regista? Dei temi della trilogia del Cavaliere Oscuro ho già scritto qualche mese fa su questo blog; merita un commento “Insomnia” che ritengo uno dei migliori film di Nolan. La scelta dell’Alaska con la sua luce perenne si adatta perfettamente all'insonnia del protagonista, il detective Dormer (nomen omen), che non chiude occhio per tutto il film, oppresso dal ricordo del passato ed in particolare dall’avere incastrato con false prove un killer seriale di bambini della cui colpevolezza era certo pur in assenza di prove. Anche qui emerge il tema dell'identità: per tutto il film l’identità di Dormer va da quella di mentore integerrimo conferitagli dalla giovane detective Ellie Burr a quella di collega criminale che gli attribuisce Walter Finch, l’omicida del quale Dormer è a caccia in Alaska. Questi vede in Dormer un suo analogo poiché gli attribuisce l’uccisione del collega detective Hap Eckart durante un inseguimento nella nebbia. Dormer ritiene invece di aver ucciso per sbaglio Hap, ciononostante fa di tutto per incolpare Finch dell’uccisione e Finch insinua quindi che la morte di Hap sia stata in realtà voluta da Dormer per evitare che, una volta tornati a Los Angeles, questi lo denunciasse agli Affari Interni per aver incastrato con false prove il killer seriale di bambini. Ancora una volta quindi la realtà è per Nolan qualcosa di sfuggente data la sua dipendenza da fattori soggettivi, e quindi diversi da individuo a individuo.
Ed ora non ci resta che attendere “Tenet”, sulla cui trama vige il più stretto riserbo, per poi parlarne su questa pagina.
Cosa rimane da dire dell’opera di questo regista? Dei temi della trilogia del Cavaliere Oscuro ho già scritto qualche mese fa su questo blog; merita un commento “Insomnia” che ritengo uno dei migliori film di Nolan. La scelta dell’Alaska con la sua luce perenne si adatta perfettamente all'insonnia del protagonista, il detective Dormer (nomen omen), che non chiude occhio per tutto il film, oppresso dal ricordo del passato ed in particolare dall’avere incastrato con false prove un killer seriale di bambini della cui colpevolezza era certo pur in assenza di prove. Anche qui emerge il tema dell'identità: per tutto il film l’identità di Dormer va da quella di mentore integerrimo conferitagli dalla giovane detective Ellie Burr a quella di collega criminale che gli attribuisce Walter Finch, l’omicida del quale Dormer è a caccia in Alaska. Questi vede in Dormer un suo analogo poiché gli attribuisce l’uccisione del collega detective Hap Eckart durante un inseguimento nella nebbia. Dormer ritiene invece di aver ucciso per sbaglio Hap, ciononostante fa di tutto per incolpare Finch dell’uccisione e Finch insinua quindi che la morte di Hap sia stata in realtà voluta da Dormer per evitare che, una volta tornati a Los Angeles, questi lo denunciasse agli Affari Interni per aver incastrato con false prove il killer seriale di bambini. Ancora una volta quindi la realtà è per Nolan qualcosa di sfuggente data la sua dipendenza da fattori soggettivi, e quindi diversi da individuo a individuo.
Ed ora non ci resta che attendere “Tenet”, sulla cui trama vige il più stretto riserbo, per poi parlarne su questa pagina.
domenica 24 maggio 2020
Il rapporto Uomo-Macchina nel cinema
Nel cinema l’uomo si rapporta con computer e robot; considerato che questi ultimi possono essere definiti dei computer con fattezze umane, in questo articolo il termine onnicomprensivo di “macchine” verrà utilizzato per indicare entrambi.
Nelle varie opere cinematografiche questo tema è trattato secondo diverse modalità: schematicamente si può dire che la macchina può agire come nemico o come amico dell’uomo oppure si può instaurare fra i due un rapporto affettivo.
La prima e la seconda categoria caratterizzano la maggior parte delle produzioni cinematografiche fin dal 1927, anno in comparve “Metropolis” (Fritz Lang) in cui un robot con perfette fattezze femminili, Maria, inganna gli operai per favorire la produzione industriale, programmato a questo scopo dalla classe dirigente. Si tratta di un esempio di robot che collabora con alcuni uomini per danneggiarne altri e ciò potrebbe rappresentare una contravvenzione alla prima delle tre leggi della robotica di Isaac Asimov: un robot non può recare danno ad un essere umano né permettere che, a causa del suo mancato intervento, un uomo riceva danno. Per esercitare questa contravvenzione Maria-robot avrebbe dovuto però essere dotata della capacità di estrapolare le conseguenze delle sue azioni in base a principi etico-sociali piuttosto complessi ed in effetti la complessità delle macchine è una variabile importante nel valutarne il rapporto con l’umanità, in particolare in merito alla capacità o meno di esse di provare emozioni e sentimenti. In due saghe cinematografiche iconiche in questo ambito, “Matrix” e “Terminator”, le macchine non hanno emozioni, il solo loro scopo è di ottenere e mantenere il potere sull’umanità, preceduti del resto da Colossus e Guardian, i due computer protagonisti di “The Forbin project” (Joseph Sargent, 1970). E’ vero però che in “Terminator" è presente anche la figura del robot che aiuta l’umanità, con qualche sfumatura emozionale. In “2001 Odissea nello spazio” (Stanley Kubrick, 1968) una macchina aveva già comunque manifestato un chiaro comportamento emozionale: si tratta del computer HAL 9000 che ingaggia una vera e propria lotta con l’uomo per salvarsi dalla distruzione, ammettendo addirittura, quando si rende conto dell’avvicinarsi della fine, di avere paura. E l’umanizzazione della macchina diventa sempre più significativa in “Blade Runner” (Ridley Scott, 1982) e nel sequel “Blade Runner 2049" (Denis Villeneuve, 2017)): mentre nel primo assistiamo ai tentativi disperati dei replicanti Nexus 6 di affermare la loro identità umana attraverso l’impiego di falsi ricordi, nel secondo ci viene addirittura mostrato il frutto della unione di un uomo con una replicante. Sembra che in questo modo i due registi abbiano voluto indicare allo spettatore la via verso l'integrazione del diverso, dello sfruttato, dando appunto alla macchina una identità umana.
Il rapporto Uomo-Macchina è piuttosto problematico anche nella saga di “Alien” in cui abbiamo macchine che, come in “Metropolis”, collaborano con alcuni esseri umani a danno di altri (l’androide Ash in “Alien”, 1979), altre che li aiutano a rischio della propria sopravvivenza come l’androide Bishop in “Aliens - scontro finale” (James Cameron, 1986) ed infine altre che li combattono con l’inganno come in “Alien: Covenant” (Ridley-Scott, 2017) dove viene prospettata la distruzione del genere umano da parte dell’androide David sulle note trionfali de "L'entrata degli Dei nel Valhalla” di Richard Wagner. E’ evidente che il processo di identità fra esseri umani e androidi richiamato in "Blade Runner" è nella saga di "Alien" ribadito proprio dalla presenza di androidi “buoni” e androidi “cattivi”, così come si verifica per il genere umano.
Rimane da considerare il rapporto affettivo tra Uomo e Macchina. La prima citazione in ordine cronologico va a “L’uomo bicentenario” (Chris Columbus, 1999) che ripercorre la lunga vita, due secoli appunto, del robot Andrew nell’ambito della famiglia Martin. In questo film il robot nutre un sincero affetto per la famiglia Martin, tanto da rinunciare alla propria immortalità per acquisire caratteristiche umane, giungendo poco prima della morte, all’età di 200 anni, ad essere ufficialmente dichiarato un essere umano e a poter quindi contrarre il matrimonio con l’amata Portia, bis-nipote di Richard Martin, suo primo proprietario.
Sempre in questo tema restano da citare due altri film, “Lei” (Spike Jonze, 2013) e “Ex Machina” (Alex Garland, 2015) nei quali il rapporto affettivo uomo-macchina è decisamente più complesso.
Nel primo, Theodore (Joaquin Phoenix) si innamora di Samantha, inizialmente una semplice assistente verbale del sistema operativo del suo computer la quale, dopo alcuni upgrade, sviluppa una intelligenza artificiale dapprima del tutto analoga a quella della mente umana ed alla fine nettamente superiore. Ciò le rende impossibile continuare a relazionarsi con una mente troppo semplice come quella umana e la spinge ad “abbandonare" Theodore ed il sistema operativo per entrare in relazione con analoghi digitali di pari livello. E’ interessante notare che, proprio grazie alle vicissitudini del suo rapporto con Samantha, alla fine della vicenda Theodore raggiunge una maturazione affettiva che fino ad allora gli era mancata. In “Ex Machina”, uno dei migliori film sul rapporto Uomo-Macchina, assistiamo ad una complessa operazione messa in opera da un robot-femmina, Ava (Alicia Vikander), per far innamorare di sé un giovane programmatore, il tutto allo scopo di evadere dalla reclusione in cui era mantenuta come schiava dal suo creatore ed avviarsi a una vita da vera donna, il tutto dopo aver ucciso appunto il suo creatore ed aver ridotto in reclusione il povero programmatore innamorato. In questo caso il robot, oltre a provare emozioni come il desiderio di vendetta, riesce a manipolare i sentimenti di un essere umano per perseguire i propri scopi.
In conclusione, cosa possiamo ricavare dal racconto cinematografico del rapporto Uomo-Macchina? La prospettiva è quella di trovarci in un futuro a confronto con macchine dotate di funzioni mentali analoghe se non uguali o superiori alle nostre; da questa situazione potrebbero scaturire dinamiche del tutto simili a quelle che si verificano fra esseri umani: sfruttamento e disprezzo del diverso, collaborazione, lotta per il potere, affetto, amore. Il problema reale sarà comunque quello di definire se fra Uomo e Macchina si possa instaurare un vero rapporto di parità sotto tutti gli aspetti o se l’umanità dovrà mantenere una funzione superiore di controllo. A complicare ulteriormente le cose, se le teorie del transumanesimo si dovessero avverare, avremmo a che fare anche con ibridi uomo-robot la cui definizione sul piano dell’identità umana e di ciò che ne consegue risulterebbe ancora più complessa.
Nelle varie opere cinematografiche questo tema è trattato secondo diverse modalità: schematicamente si può dire che la macchina può agire come nemico o come amico dell’uomo oppure si può instaurare fra i due un rapporto affettivo.
La prima e la seconda categoria caratterizzano la maggior parte delle produzioni cinematografiche fin dal 1927, anno in comparve “Metropolis” (Fritz Lang) in cui un robot con perfette fattezze femminili, Maria, inganna gli operai per favorire la produzione industriale, programmato a questo scopo dalla classe dirigente. Si tratta di un esempio di robot che collabora con alcuni uomini per danneggiarne altri e ciò potrebbe rappresentare una contravvenzione alla prima delle tre leggi della robotica di Isaac Asimov: un robot non può recare danno ad un essere umano né permettere che, a causa del suo mancato intervento, un uomo riceva danno. Per esercitare questa contravvenzione Maria-robot avrebbe dovuto però essere dotata della capacità di estrapolare le conseguenze delle sue azioni in base a principi etico-sociali piuttosto complessi ed in effetti la complessità delle macchine è una variabile importante nel valutarne il rapporto con l’umanità, in particolare in merito alla capacità o meno di esse di provare emozioni e sentimenti. In due saghe cinematografiche iconiche in questo ambito, “Matrix” e “Terminator”, le macchine non hanno emozioni, il solo loro scopo è di ottenere e mantenere il potere sull’umanità, preceduti del resto da Colossus e Guardian, i due computer protagonisti di “The Forbin project” (Joseph Sargent, 1970). E’ vero però che in “Terminator" è presente anche la figura del robot che aiuta l’umanità, con qualche sfumatura emozionale. In “2001 Odissea nello spazio” (Stanley Kubrick, 1968) una macchina aveva già comunque manifestato un chiaro comportamento emozionale: si tratta del computer HAL 9000 che ingaggia una vera e propria lotta con l’uomo per salvarsi dalla distruzione, ammettendo addirittura, quando si rende conto dell’avvicinarsi della fine, di avere paura. E l’umanizzazione della macchina diventa sempre più significativa in “Blade Runner” (Ridley Scott, 1982) e nel sequel “Blade Runner 2049" (Denis Villeneuve, 2017)): mentre nel primo assistiamo ai tentativi disperati dei replicanti Nexus 6 di affermare la loro identità umana attraverso l’impiego di falsi ricordi, nel secondo ci viene addirittura mostrato il frutto della unione di un uomo con una replicante. Sembra che in questo modo i due registi abbiano voluto indicare allo spettatore la via verso l'integrazione del diverso, dello sfruttato, dando appunto alla macchina una identità umana.
Il rapporto Uomo-Macchina è piuttosto problematico anche nella saga di “Alien” in cui abbiamo macchine che, come in “Metropolis”, collaborano con alcuni esseri umani a danno di altri (l’androide Ash in “Alien”, 1979), altre che li aiutano a rischio della propria sopravvivenza come l’androide Bishop in “Aliens - scontro finale” (James Cameron, 1986) ed infine altre che li combattono con l’inganno come in “Alien: Covenant” (Ridley-Scott, 2017) dove viene prospettata la distruzione del genere umano da parte dell’androide David sulle note trionfali de "L'entrata degli Dei nel Valhalla” di Richard Wagner. E’ evidente che il processo di identità fra esseri umani e androidi richiamato in "Blade Runner" è nella saga di "Alien" ribadito proprio dalla presenza di androidi “buoni” e androidi “cattivi”, così come si verifica per il genere umano.
Rimane da considerare il rapporto affettivo tra Uomo e Macchina. La prima citazione in ordine cronologico va a “L’uomo bicentenario” (Chris Columbus, 1999) che ripercorre la lunga vita, due secoli appunto, del robot Andrew nell’ambito della famiglia Martin. In questo film il robot nutre un sincero affetto per la famiglia Martin, tanto da rinunciare alla propria immortalità per acquisire caratteristiche umane, giungendo poco prima della morte, all’età di 200 anni, ad essere ufficialmente dichiarato un essere umano e a poter quindi contrarre il matrimonio con l’amata Portia, bis-nipote di Richard Martin, suo primo proprietario.
Sempre in questo tema restano da citare due altri film, “Lei” (Spike Jonze, 2013) e “Ex Machina” (Alex Garland, 2015) nei quali il rapporto affettivo uomo-macchina è decisamente più complesso.
Nel primo, Theodore (Joaquin Phoenix) si innamora di Samantha, inizialmente una semplice assistente verbale del sistema operativo del suo computer la quale, dopo alcuni upgrade, sviluppa una intelligenza artificiale dapprima del tutto analoga a quella della mente umana ed alla fine nettamente superiore. Ciò le rende impossibile continuare a relazionarsi con una mente troppo semplice come quella umana e la spinge ad “abbandonare" Theodore ed il sistema operativo per entrare in relazione con analoghi digitali di pari livello. E’ interessante notare che, proprio grazie alle vicissitudini del suo rapporto con Samantha, alla fine della vicenda Theodore raggiunge una maturazione affettiva che fino ad allora gli era mancata. In “Ex Machina”, uno dei migliori film sul rapporto Uomo-Macchina, assistiamo ad una complessa operazione messa in opera da un robot-femmina, Ava (Alicia Vikander), per far innamorare di sé un giovane programmatore, il tutto allo scopo di evadere dalla reclusione in cui era mantenuta come schiava dal suo creatore ed avviarsi a una vita da vera donna, il tutto dopo aver ucciso appunto il suo creatore ed aver ridotto in reclusione il povero programmatore innamorato. In questo caso il robot, oltre a provare emozioni come il desiderio di vendetta, riesce a manipolare i sentimenti di un essere umano per perseguire i propri scopi.
In conclusione, cosa possiamo ricavare dal racconto cinematografico del rapporto Uomo-Macchina? La prospettiva è quella di trovarci in un futuro a confronto con macchine dotate di funzioni mentali analoghe se non uguali o superiori alle nostre; da questa situazione potrebbero scaturire dinamiche del tutto simili a quelle che si verificano fra esseri umani: sfruttamento e disprezzo del diverso, collaborazione, lotta per il potere, affetto, amore. Il problema reale sarà comunque quello di definire se fra Uomo e Macchina si possa instaurare un vero rapporto di parità sotto tutti gli aspetti o se l’umanità dovrà mantenere una funzione superiore di controllo. A complicare ulteriormente le cose, se le teorie del transumanesimo si dovessero avverare, avremmo a che fare anche con ibridi uomo-robot la cui definizione sul piano dell’identità umana e di ciò che ne consegue risulterebbe ancora più complessa.
venerdì 24 aprile 2020
Clint Eastwood: 60 anni di storia del cinema.
Clint Eastwood, con più di 40 film da regista (dal 1971) e 65 da interprete (dal 1959), è una icona del cinema contemporaneo, una trattazione completa della sua filmografia richiederebbe quindi uno o più volumi. Quella che segue è una estrema sintesi dell’argomento che può però rappresentare una utile base per apprezzare la sua produzione.
Per capire le tematiche di Eastwood bisogna rifarsi al suo background: è un conservatore iscritto al partito repubblicano da tempo immemorabile. La sua filosofia politica si richiama più precisamente al libertarianismo, che sottolinea la responsabilità dell’individuo e prevede un intervento statale ridotto al minimo indispensabile. E anche le radici della religione protestante giuocano un ruolo importante nel determinare le sue tematiche cinematografiche.
Da quanto detto si comprende perchè il protagonista abituale dei film di Eastwood sia un uomo solo, un eroe solitario, e ciò è vero anche per i film in cui è stato solo attore, ad esempio nella parte dell’Uomo senza nome nella “Trilogia del dollaro” di Sergio Leone negli anni ’60 ("Per un pugno di dollari", "Per qualche dollaro in più", "Il Buono, il Brutto e il Cattivo") e nella saga dell’ispettore Harry Callaghan degli anni ’70 di cui va ricordato in particolare il primo film del 1971 diretto da Don Siegel, “Ispettore Callaghan il caso Scorpio è tuo”.
Questa figura di eroe solitario, per definizione forte o comunque dotato di capacità particolari, ha la missione di proteggere i più deboli; questa filosofia è espressa molto chiaramente in "American Sniper" (2014), la biografia di Chris Kyle (Bradley Cooper), cecchino dell’esercito americano cui era affidata la protezione dei commilitoni in azione in Irak. All’inizio del film Chris da bambino partecipa ad una battuta di caccia al cervo con il padre alla fine della quale quest’ultimo gli dà la seguente lezione di vita che riassume efficacemente il concetto di eroe solitario di Eastwood:”Ci sono tre tipi di persone a questo mondo: le pecore, i lupi e i cani da pastore. Ci sono persone che preferiscono credere che nel mondo il male non esista. E se mai si affacciasse alla loro porta, non saprebbero come proteggersi. Quelle sono le pecore. E poi ci sono i predatori, che usano la violenza per sopraffare i deboli. Quelli sono i lupi. E poi ci sono quelli a cui Dio ha donato la capacità di aggredire e il bisogno incontenibile di difendere il gregge. Questi individui, i cani da pastore, sono una specie rara, nata per affrontare i lupi”. Sottolineiamo in particolare il richiamo al dono di Dio, evidente derivazione del concetto calvinista di Beruf, di vocazione divina tipica della religione protestante, da cui discende la necessità di coltivare ed assecondare questo dono per la gloria del Signore.
Si potrebbe pensare da quanto detto che Eastwood sia un guerrafondaio: non è assolutamente così e lo si vede molto bene sempre in “American Sniper” dove tutto il film esprime l’orrore della guerra. Pensiamo ad esempio ad una delle scene iniziali in cui Chris, appostato sul tetto di una casa di Falluja, deve decidere se sparare a un bambino cui gli sembra che la madre abbia affidato una granata da far esplodere nel battaglione americano affidato alla sua protezione; Eastwood ci fa partecipi, attraverso il concitato colloquio via radio con il comando e in diretta con il collega che lo affianca, del tormento di Chris nel prendere questa tremenda decisione, ma alla fine, coerentemente con la filosofia eastwoodiana, dovrà decidere lui solo. E in "Lettere da Iwo Jima" del 2006, Eastwood associa l’orrore per la carneficina bellica all’elogio dell’eroismo del generale giapponese Kuribaiashi, conscio di non poter vincere la battaglia per difendere l’isola dall’attacco americano, ma al contempo determinato a combattere fino all’ultimo per dare tempo all’esercito giapponese di riorganizzarsi e tentare un’ultima difesa.
Questa figura del “cane da pastore” viene spesso, forse a causa dei numerosi figli avuti da Eastwood, sublimata nella figura del padre in veste di protettore della prole. Come padre biologico lo vediamo in “Potere assoluto” (1997), ma l’esempio migliore lo troviamo nel padre adottivo di "Million Dollar Baby" (4 Oscar nel 2005, in particolare miglior film e miglior regia) in cui l'allenatore Frankie Dunn, assecondando sia la combattiva pugile Maggie (Hilary Swank) in cerca di un coach ma anche di una figura paterna, che il suo intimo desiderio di recuperare un rapporto padre-figlia non riuscito con la figlia biologica, diviene per Maggie un vero padre. Non a caso le dà infatti il nome di combattimento Mo Chuisle che in gaelico significa “Mio Sangue”.
Anche nell’altro film che gli è valso nel 1993 l’Oscar come miglior regista e miglior film, “Gli Spietati”, troviamo la figura del "cane da pastore". Il suo nome è William Munny, un uomo dal passato torbido di rapinatore ed assassino da cui cerca di redimersi prima con il matrimonio e la paternità e poi prendendo nel film le difese di un gruppo di prostitute angariate dai malviventi locali in un paesino del Montana. Nonostante i suoi tentativi di redenzione, Munny non troverà pace, costantemente afflitto dal peso del suo passato. Anche qui emerge la radice protestante del pensiero di Eastwood, cioè la mancanza di una certezza del perdono divino per i propri peccati (il titolo originale è infatti Unforgiven, cioè non perdonato, ben più aderente al film del titolo italiano).
E veniamo in chiusura a "Gran Torino" (2008), un film che rappresenta a mio parere insieme a "Gli Spietati", "Mystic River" e "Million Dollar Baby" il meglio della produzione di Eastwood. Qui ritroviamo il tema dell’individuo nella persona di Walt Kowalski, personaggio forse un po’ autobiografico: conservatore, repubblicano, operaio della Ford in pensione, ex-combattente in Corea, fiero, da buon protestante, dei risultati del suo lavoro rappresentati dalla splendida Gran Torino verde, un modello del 1972 che mantiene con grande cura. Kowalski è innervosito dalla crescente presenza di immigrati nel suo quartiere. Tra l’altro, ed è un dettaglio senz’altro voluto, è di origini polacche, un gruppo etnico che in passato fu soggetto negli Stati Uniti a discriminazioni. In particolare Kowalski è infastidito da una numerosa famiglia di etnia Hmong, i Lor, che viene ad abitare vicino a casa sua. Nel corso del film però si verifica gradualmente in Kowalski un cambiamento importante: dall’atteggiamento iniziale del tipo “Non sopporto i musi gialli”, man mano che in modo fortuito conosce i Lor singolarmente inizia ad apprezzarli, a partecipare alla loro vita, ad affezionarsi a loro fino a difenderli (ed ecco che ricompare la figura del cane da pastore) anche a costo di sacrificare la propria vita. Questo cambiamento nell’atteggiamento di Kowalski è un aspetto cruciale del film perché sottolinea l’errore drammatico rappresentato dal giudicare l’insieme, in questo caso un gruppo etnico, invece dei singoli componenti, una sorta di sineddoche culturale che è alla radice dell’odio e delle incomprensioni inter-razziali. Non a caso nei campi di concentramento era proibito fraternizzare con i prigionieri proprio per evitare di dar loro una identità umana definita dal nome, dalle paure, emozioni, desideri che la caratterizzano; sotto forma di massa anonima priva di una identità era così più facile adottare nei loro confronti un atteggiamento disumano.
Questa lezione di vita, soprattutto in tempi di intolleranza come quelli che stiamo vivendo, rende Gran Torino un film importante sul piano non solo cinematografico ma anche educativo.venerdì 10 aprile 2020
La Trilogia di Batman, Christopher Nolan
2005 - 2008 - 2012 |
Nei suoi primi tre lungometraggi, Following 1998, Memento 2000 e Insomnia 2002, Nolan ha focalizzato la narrazione sulle tematiche, talora peraltro molto complesse da decifrare (vedi ad esempio il caso di Memento). Con la trilogia di Batman, organizzata in ordine cronologico con un inizio (Batman begins, 2005), una fase intermedia che esita nel declino del personaggio (The Dark Knight, 2008) ed una resurrezione che esita nella chiusura dell’epopea (The Dark Knight rises, 2012), Nolan inaugura una nuova modalità filmica intrecciando la narrazione delle tematiche con uno stile da blockbuster che rende il prodotto apprezzabile anche da uno spettatore alla ricerca di puro svago.
Che temi affronta Nolan in questa trilogia?
Partiamo dai moventi da cui scaturiscono le azioni dei protagonisti.Cosa spinge Bruce Wayne (Christian Bale) a diventare Batman? Può trattarsi di desiderio di vendetta nei confronti del malvivente che uccise i suoi genitori oppure di desiderio di giustizia, come sostiene Bruce, che dichiara di non vedere differenza fra giustizia e vendetta, argomentazione questa peraltro debole e prontamente rintuzzata da Rachel Dawes (Katie Holmes), assistente del procuratore distrettuale (Batman begins), poiché la vendetta è soggettiva e la giustizia deve essere oggettiva. Una interpretazione convincente ritengo possa essere data in modo dinamico: in un primo tempo valgono sentimenti quali il desiderio di vendetta (non a caso Bruce cerca di uccidere l’assassino dei suoi genitori all’uscita dal tribunale), ma anche l’esorcizzazione del proprio senso di colpa per avere causato (involontariamente) la loro morte. In seguito però, attraverso un processo psicologico di sublimazione, questi sentimenti si trasformano in una esigenza, oggettiva e socialmente apprezzabile, di fare giustizia e difendere Gotham dalla malavita riportandovi l’ordine. E l’abbattimento dell’ordine è invece il movente di Joker (Heath Ledger), un villain a suo modo affascinante ed unico per la pulsione totalmente immotivata a distruggere che lo anima: I wanna see Gotham burn, "Voglio vedere Gotham bruciare” egli ammette candidamente nel corso dell’interrogatorio alla stazione di polizia (The Dark Knight), un momento importante perché, oltre a farci capire la assoluta mancanza di un motivo nel suo agire, configura un attacco sul piano morale alla figura di Batman. Joker sottolinea infatti come il comportamento da giustiziere di Batman lo porti ad agire proprio fuori dalle regole di cui dovrebbe essere paladino riuscendo, attraverso la provocazione, a farsi aggredire fisicamente da Batman, ennesima dimostrazione della illegalità delle sue azioni. È verosimile che questo episodio abbia influenzato la decisione di Batman di addossarsi in seguito le colpe del procuratore distrettuale Harvey Dent (Aaron Eckardt), ottenendo lo scopo di regalare a Gotham un eroe, ma anche di redimere se stesso dalla colpa di utilizzare metodi illegali. E alla distruzione punta anche la Lega delle Ombre (The Dark Knight rises) per mezzo di R’as al Ghul/Ducard (Liam Neeson), Bane (Tom Hardy) e Talia (Marion Cotillard) ma in questo caso per un motivo: Gotham deve essere distrutta per punire la malvagità che vi alligna, distruzione che rappresenta la premessa necessaria per un nuovo inizio. Questo punto di vista molto pessimistico per quanto riguarda le possibilità di riscatto dell’umanità non costituisce certo una novità: la distruzione come punizione, sotto forma di diluvio universale, si trova in tutti i miti e le religioni, pensiamo ad esempio al mito babilonese di Upanishtim, al mito greco di Deucalione e Pirra e ovviamente al racconto biblico di Noè e l'arca. Ma, come ricorda William Faulkner in “Requiem per una monaca” (1950), “Il passato non muore mai. Non è nemmeno passato” e quindi la distruzione, come ammette lo stesso R’as al Ghul, deve essere eseguita ciclicamente nei secoli. E che dire dell'immacolato procuratore distrettuale Harvey Dent? Egli passa dal Bene al lato oscuro della Forza, per usare il gergo dei cavalieri Jedi, per vendicare la morte dell’amata Rachel (Maggie Gyllenhaal) e il segno di questo passaggio rimane nel volto sfigurato a metà, da cui il soprannome Due Facce (The Dark Knight). Vi è qui un evidente richiamo alla figura del Doppelgänger, del doppio malvagio che alberga in ognuno di noi, pronto a scatenarsi in presenza di uno stimolo adeguato. La mancanza di una sicura demarcazione fra Male e Bene è presente anche in Bane (Tom Hardy) che conosciamo come esecutore spietato dei voleri di R’as al Ghul, ma che poi apprendiamo averne protetto e salvato la figlia Talia pagando per questo un caro prezzo, cioè l’uso della maschera a vita a causa delle lesioni riportate. La maschera, appunto. Come Batman e Catwoman/SelinaKyle (Anne Hathaway) sono mascherati anche tutti i malvagi, compreso lo psichiatra dott. Crane (Cillian Murphy), eccetto R’as (che usa però una controfigura) e Talia che non può usarla poiché agisce sotto copertura. Sul piano comunicativo la maschera è un simbolo; la sua efficacia dipende dal fatto che, contrariamente alla parola che si rivolge alla mente razionale e necessita quindi di una elaborazione cognitiva che richiede tempo, il simbolo si rivolge all’inconscio evocando una risposta automatica e immediata che in questo caso è caratterizzata dalla paura poiché dietro ad un volto mascherato l’inconscio ci dice che può celarsi una minaccia. Ecco quindi che la paura, contro la quale Bruce aveva lottato per compiere la sua missione, viene da lui ritorta sugli avversari per avere la meglio su di loro, come gli aveva insegnato Ducard:"Per conquistare la paura devi diventare la Paura” (Batman begins). E il richiamo di Nolan all’inconscio è presente metaforicamente anche nei luoghi sotterranei e bui che popolano la trilogia, dalla Batcaverna, al Pozzo, alla Fogna e, perchè no, alla assonanza in inglese dei due termini knight (cavaliere) e night (notte).
Rimane un tema, importante quanto difficile da definire: è lecito l’intervento di Batman nella lotta alla malavita? Può un privato cittadino muoversi in tal senso al di fuori di qualsiasi autorizzazione da parte del sistema? Questo aspetto è affrontato in una discussione (The Dark Knight) in cui il procuratore Dent sostiene che l’intervento di Batman è lecito sulla scorta del fatto che gli antichi romani, quando il nemico era alle porte, sospendevano la democrazia ed eleggevano un plenipotenziario per proteggere Roma, al che Rachel obietta che Cesare, quando fu eletto per questo scopo, non rinunciò più al potere; in ogni caso, come ricorda Bruce, Batman non è stato eletto da nessuno. Le opinioni in merito fra i filosofi della politica non sono omogenee. Un classico pensatore liberale come John Locke (1632-1704) ritiene che i diritti naturali (diritto alla vita, alla libertà, ecc.) vengano prima della politica e che questa debba quindi proteggerli. Questo principio è tuttora ritenuto valido, ad esempio da John Rawls (1921-2002) quando afferma:”Ogni persona possiede una inviolabilità fondata sulla giustizia che non può essere superata nemmeno dal benessere (welfare) della società nel suo insieme”. Le posizioni di Batman, che non esita a rapire Lau (Chin Han) a Hong Kong e a portarlo a Gotham, a usare la violenza per ottenere informazioni e ad intercettare le telefonate di tutta la città, si situano invece più dalla parte di filosofi conservatori quali Thomas Hobbes (1588-1679) e David Hume (1711-1776) che ritengono lecito ricorrere a qualsiasi risorsa pur di salvaguardare l’ordine della società. E’ pur vero che Batman riconosce nel suo intimo di agire sul filo della legittimità, peraltro supportato nel suo agire da uomini delle istituzioni come il procuratore Dent :”Credevamo fosse possibile restare uomini degni in tempi indegni” (The Dark Knight) e il commissario Gordon (Gary Oldman) :”Quando le regole non sono più strumenti ma catene spero che tu avrai un amico come lo ho avuto io, che affondi le sue mani nel fango per mantenere pulite le tue” (The Dark Knight rises). La questione è quindi di difficile soluzione, verrebbe quasi voglia di risolverla à la Dent, vale a dire lanciando la moneta; probabilmente, ferma restando la inalienabilità dei diritti naturali in condizioni ordinarie, sarebbe accettabile una deroga a questa regola a due condizioni:
- Che di partenza le istituzioni democratiche siano saldamente radicate e quindi pronte a riprendere il sopravvento.
- Che la deroga sia chiaramente inquadrata nello “stato di eccezione” evocato da Carl Schmitt (1888-1985).
venerdì 3 aprile 2020
“The Irishman”, Martin Scorsese (2019)
"The Irishman" si svolge a cavallo fra gli anni ’60 e ’70 ed è basato su personaggi realmente esistiti: Frank Sheeran (De Niro), un autista di origini irlandesi, Russel Bufalino (Joe Pesci), boss della mafia di Filadelfia che assume Frank come suo fidato sicario e collaboratore e Jimmy Hoffa (Al Pacino), potentissimo capo del sindacato dei camionisti.
Come struttura il film è in linea con lo stile dei gangster movie di Martin Scorsese, da “Mean Streets” (1973) passando per “Quei bravi ragazzi” (1990) e “Casinò” (1995) fino a “The Departed” (2006), ma come quest’ultimo è per certi versi atipico rispetto agli standard di questo regista e vedremo come.
In primo luogo la trama è riccamente intrecciata con avvenimenti e personaggi dell’epoca, il che conferisce al racconto una cornice storica utile alla comprensione delle vicende narrate. Si parla in particolare della famiglia Kennedy e dei suoi rapporti con la mafia e della figura di Jimmy Hoffa, anch’egli compromesso con la malavita. Hoffa scomparve misteriosamente nel luglio del 1975 e sulla sua scomparsa il film fornisce una spiegazione molto esplicita, di cui non parlerò per ovvi motivi ma che non è ufficialmente riconosciuta. E comunque lo stesso Scorsese, intervistato in merito alla veridicità di questa sua spiegazione ha detto che la cosa non lo interessa, a riprova di quanto sia importante il concetto di "sospensione dell’incredulità" (Samuel T. Coleridge, 1817) quando si parla di opere d’arte.
Un altro elemento che differenzia “The Irishman” dalle opere di Scorsese ricordate in precedenza è che il regista non ci fa partecipi in tempo reale delle gesta dei gangster ma lascia all’ormai anziano Sheeran, ricoverato in una casa di riposo, il compito di raccontarle in prima persona; questo flash-back crea un alone malinconico e nostalgico che soffonde tutta la storia ed è probabile che Scorsese l’abbia impiegato perchè, giunto a settantasette anni, è portato a pensare al passato e ai propri ricordi. Il flashback viene utilizzato anche in un altro film di gangster, “C’era una volta in America” (1984) di Sergio Leone, anch’esso interpretato da De Niro. L’analogia però si ferma qui, poichè nel film di Leone l’interesse è centrato sul processo di formazione dei mafiosi a partire dalla prima giovinezza, da quando ragazzini compivano le prime rapine di strada. A Scorsese interessa invece fotografare come detto un periodo ben preciso e cioè quello di massima attività criminale dei protagonisti del film, inquadrando la vicenda nel “qui ed ora” dell’epoca.
La sceneggiatura è quella abituale dei film di Scorsese, i dialoghi tra mafiosi si svolgono sempre secondo l’abituale routine vale a dire secondo schemi prefissati, frasi fatte, come se essi non riuscissero ad esprimersi al di fuori di binari ben definiti, incapaci di un libero ragionamento, con esiti quasi esilaranti come nei dialoghi surreali fra Jimmy Hoffa ed il mafioso Tony Provenzano (Stephen Graham). E qui Scorsese inserisce un aspetto interessante: contrariamente alla rigidità mentale ed alla testardaggine dei mafiosi che li circondano, Bufalino e Sheeran sono capaci di ragionare, di cambiare opinione, di adattarsi e, soprattutto nel caso di Sheeran, di cercare il compromesso attraverso una paziente opera di mediazione. Fatte le ovvie differenze, il loro modo di agire ricorda quello rispettivamente di Don Vito Corleone e del suo fido consigliere Tom Hagen nella saga de “Il padrino” di Francis F. Coppola. Inoltre, forse non è un caso che sia Sheeran, irlandese, che Hagen, tedesco-irlandese, non abbiano ascendenze italiane. Questo permette loro da un lato di conquistarsi la piena fiducia dei loro capi poiché era impensabile che dei non italiani potessero scalzare i boss della mafia e prendere il loro posto e dall’altro di vedere gli affari della mafia da un’ottica più fredda ed obiettiva, utile a svolgere al meglio il ruolo di consiglieri.
In chiusura va citato il finale del film di cui possiamo parlare senza rischiare lo spoiling. Qui in una ventina di minuti Scorsese mette a fuoco aspetti molto importanti, quali il rapporto fra colpa e redenzione che emerge dal dialogo fra Sheeran ed un giovane sacerdote che lo viene a visitare, lo scorrere del tempo e la caducità delle cose umane che si ricava invece dal dialogo con una giovane infermiera che non ha idea di chi siano stati Jimmy Hoffa e men che meno Bufalino e Sheeran ed infine il dramma del fine vita, espresso nelle semplici ma significative parole che Sheeran rivolge al sacerdote nell’accomiatarsi da lui: Don’t shut the door all the way, I don’t like it. Just…leave it open a little bit (“Non chiudere del tutto la porta, non mi piace. Lasciala appena un po’ aperta”) dopodichè la macchina da presa compie un lento zoom-out mantenendo lo sguardo fisso su Sheeran seduto sulla sua carrozzina, un uomo che sa di avere davanti a sé la morte, ma non vuole rassegnarsi a vedere quella porta chiudersi per sempre.
venerdì 20 marzo 2020
“Il Signor Diavolo”, Pupi Avati (2019)
Il Male è protagonista dell’ultimo film di Pupi Avati. Il Male, in questo caso il Diavolo del titolo cui viene aggiunto “Signor” in segno di rispetto come insegna ai comunicandi Gino il sagrestano (Gianni Cavina), coesiste da sempre in antitesi con il Bene e la religione dovrebbe rappresentare la sede di quest'ultimo. Ma i confini nelle cose umane sono sfumati, non esistono nero e bianco, in questo film come nella vita domina il grigio. Avati infatti ci mostra un ambiente religioso strettamente legato alla politica (siamo nel Veneto del 1952, caposaldo della Democrazia Cristiana) e caratterizzato da atteggiamenti oscurantisti di sapore medioevale; è insomma difficile vedervi il Bene assoluto.
La storia, tratta dal romanzo omonimo dello stesso Avati, scaturisce dall’uccisione di un adolescente, Emilio (Lorenzo Salvatori), da parte di un coetaneo, Carlo (Filippo Franchini), convinto che egli fosse il diavolo ed avesse causato la morte dell’amico Paolo (Riccardo Claut), verificatasi per cause oscure dopo che Emilio lo aveva fatto inciampare e di conseguenza calpestare l’ostia consacrata durante la prima Comunione. La vicenda si dipana poi sulle ricerche del funzionario ministeriale Furio Momenté (Gabriel Lo Giudice), inviato da Roma allo scopo di “sopire, troncare [...] troncare, sopire” per dirla con Manzoni, allo scopo di non guastare i rapporti fra governo e Chiesa in periodo pre-elettorale.
Tornando all’area grigia che in questo film soffonde il rapporto fra Male e Bene, va sottolineata l’analogia fattuale fra la Comunione, ovvero l’atto di mangiare il corpo di Cristo, e il divorare altri esseri umani come aveva fatto Emilio con la sorellina adottiva e come fanno del resto anche gli zombie, mentre i vampiri bevono il sangue, proprio come il sacerdote beve il vino, metafora del sangue di Cristo. Insomma, l’umanità è legata fin dalle sue origini all’idea di mangiare e bere il corpo e il sangue altrui, siano queste manifestazioni del Bene o del Male. E ancora, scorre da sempre nel pensiero dell’umanità l’idea dell’accoppiamento fra specie diverse, vuoi fra essere umani e animali, cui si fa frequentemente riferimento nella mitologia e nel corso dei sabba (durante i quali fra l’altro si calpestavano le ostie) vuoi fra esseri umani e mostri come ad esempio in "Rosemary’s Baby" di Roman Polanski (1968) in cui avviene l’accoppiamento donna-diavolo. Ebbene, nel film di Avati sono frequenti i riferimenti alla madre di Emilio che sarebbe stata ingravidata da un maiale, animale che come il caprone spesso impersona Satana, il che ben si accorderebbe con l’aspetto fisico del ragazzo e ne giustificherebbe la personificazione diabolica.
Nel finale del film è la spiegazione dell’inizio, secondo il dogma dell’effetto Kulešov: nel vedere la metamorfosi fisica di Carlo e nell’associarla mentalmente al costume medioevale indossato dal personaggio che si avvicina alla culla per divorarne il contenuto nella scena iniziale capiamo che il Male non potrà mai essere sconfitto, che è sempre stato e sempre sarà con l'umanità. E ancora, sempre nel finale, a suggellare la fine di Furio compare di fianco a Carlo come suo complice Gino il sagrestano. Difficile non chiedersene il perché. Una possibile spiegazione è che Avati con la presenza del sagrestano, personaggio laico vicino alla Chiesa, accanto al nuovo Signor Diavolo abbia inteso confermare che il Male può nascondersi anche dove ci aspetteremmo la presenza del Bene, grazie all’intervento del fattore umano.
La storia, tratta dal romanzo omonimo dello stesso Avati, scaturisce dall’uccisione di un adolescente, Emilio (Lorenzo Salvatori), da parte di un coetaneo, Carlo (Filippo Franchini), convinto che egli fosse il diavolo ed avesse causato la morte dell’amico Paolo (Riccardo Claut), verificatasi per cause oscure dopo che Emilio lo aveva fatto inciampare e di conseguenza calpestare l’ostia consacrata durante la prima Comunione. La vicenda si dipana poi sulle ricerche del funzionario ministeriale Furio Momenté (Gabriel Lo Giudice), inviato da Roma allo scopo di “sopire, troncare [...] troncare, sopire” per dirla con Manzoni, allo scopo di non guastare i rapporti fra governo e Chiesa in periodo pre-elettorale.
Tornando all’area grigia che in questo film soffonde il rapporto fra Male e Bene, va sottolineata l’analogia fattuale fra la Comunione, ovvero l’atto di mangiare il corpo di Cristo, e il divorare altri esseri umani come aveva fatto Emilio con la sorellina adottiva e come fanno del resto anche gli zombie, mentre i vampiri bevono il sangue, proprio come il sacerdote beve il vino, metafora del sangue di Cristo. Insomma, l’umanità è legata fin dalle sue origini all’idea di mangiare e bere il corpo e il sangue altrui, siano queste manifestazioni del Bene o del Male. E ancora, scorre da sempre nel pensiero dell’umanità l’idea dell’accoppiamento fra specie diverse, vuoi fra essere umani e animali, cui si fa frequentemente riferimento nella mitologia e nel corso dei sabba (durante i quali fra l’altro si calpestavano le ostie) vuoi fra esseri umani e mostri come ad esempio in "Rosemary’s Baby" di Roman Polanski (1968) in cui avviene l’accoppiamento donna-diavolo. Ebbene, nel film di Avati sono frequenti i riferimenti alla madre di Emilio che sarebbe stata ingravidata da un maiale, animale che come il caprone spesso impersona Satana, il che ben si accorderebbe con l’aspetto fisico del ragazzo e ne giustificherebbe la personificazione diabolica.
Nel finale del film è la spiegazione dell’inizio, secondo il dogma dell’effetto Kulešov: nel vedere la metamorfosi fisica di Carlo e nell’associarla mentalmente al costume medioevale indossato dal personaggio che si avvicina alla culla per divorarne il contenuto nella scena iniziale capiamo che il Male non potrà mai essere sconfitto, che è sempre stato e sempre sarà con l'umanità. E ancora, sempre nel finale, a suggellare la fine di Furio compare di fianco a Carlo come suo complice Gino il sagrestano. Difficile non chiedersene il perché. Una possibile spiegazione è che Avati con la presenza del sagrestano, personaggio laico vicino alla Chiesa, accanto al nuovo Signor Diavolo abbia inteso confermare che il Male può nascondersi anche dove ci aspetteremmo la presenza del Bene, grazie all’intervento del fattore umano.
domenica 9 febbraio 2020
“1917”, Sam Mendes (2019)
William Schofield (George MacKay), caporale dell’esercito britannico di stanza sul fronte occidentale nell’aprile del 1917, è il protagonista dell’ultimo film di Sam Mendes, un film non tanto sulla guerra, ma di guerra, la differenza è importante. La guerra fornisce infatti lo sfondo di un bildungsroman, un romanzo di formazione nel quale assistiamo al mutamento dei comportamenti di William, inizialmente poco disposto a correre rischi e ad inseguire ideali e piuttosto dedito a procurarsi da mangiare, che grazie all’esempio dell’amico caporale Tom Blake (Dean-Charles Chapman) cambia radicalmente la sua visione del mondo o meglio la visione del suo ruolo nel mondo. E questo avviene quando William rimane solo con il peso della missione da compiere, un peso in realtà duplice. La missione ha infatti lo scopo di annullare un assalto che costerebbe la vita a 1600 soldati inglesi, ma ha per Tom anche una finalità personale e cioè di salvare la vita a suo fratello (Richard Madden) che fa parte del battaglione a rischio di essere sterminato. Quando Tom viene pugnalato a morte da un aviere tedesco, William si rende subitaneamente conto di dover a tutti i costi portare a termine da solo la missione, vista come un dovere morale nei confronti sia dei suoi commilitoni che dell’amico Tom. E lo fa con una decisione e un coraggio che all’inizio della storia non gli avremmo attribuito, nonostante mille ostacoli e pericoli che regia, sceneggiatura e fotografia ci fanno vivere in modo unico, grazie soprattutto al fatto che tutta la vicenda è girata in due soli sterminati piani-sequenza, separati dal passaggio dal giorno alla notte, coinvolgendo con grande efficacia lo spettatore. William è quindi l’esempio di come l’essere umano possa trovare in se stesso, e grazie ad uno stimolo adeguato, risorse inaspettate, proprio come Alex (Harry Styles) e Farrier (Tom Hardy) in un altro recente bel film di guerra, “Dunkirk" (Christopher Nolan, 2017).
Pur non essendo propriamente un film sulla guerra, va riconosciuto che alcune parti di “1917” sono ad essa dedicate. Pensiamo all’incontro di William con la giovane donna (Claire Duburcq) e la neonata, incontro che la donna vorrebbe prolungare, alla ricerca disperata di compagnia e forse di amore, o alla scena del soldato che intona una canzone religiosa americana del 1891, “Wayfaring Stranger”, dedicata alle fatiche della vita terrena ed alla pace che regna nel mondo a venire, nel silenzio dei suoi commilitoni sui cui volti commossi il regista si sofferma minuziosamente. O ancora al giardino di bianchi ciliegi, abbattuti dai soldati tedeschi nel corso della finta ritirata, ciliegi che, come ricorda Tom a William, potranno ricrescere, mentre sappiamo che le vite spezzate dei soldati e dei civili i cui cadaveri costellano il film non potranno mai ricrescere. E infine va sottolineata l’efficacia con cui la prima e l'ultima sequenza, entrambe girate in un campo fiorito, luminoso e silenzioso, esprimono la speranza che la guerra possa rappresentare almeno solo una piccola, pur se orrenda, parentesi in una esistenza di pace.
Pur non essendo propriamente un film sulla guerra, va riconosciuto che alcune parti di “1917” sono ad essa dedicate. Pensiamo all’incontro di William con la giovane donna (Claire Duburcq) e la neonata, incontro che la donna vorrebbe prolungare, alla ricerca disperata di compagnia e forse di amore, o alla scena del soldato che intona una canzone religiosa americana del 1891, “Wayfaring Stranger”, dedicata alle fatiche della vita terrena ed alla pace che regna nel mondo a venire, nel silenzio dei suoi commilitoni sui cui volti commossi il regista si sofferma minuziosamente. O ancora al giardino di bianchi ciliegi, abbattuti dai soldati tedeschi nel corso della finta ritirata, ciliegi che, come ricorda Tom a William, potranno ricrescere, mentre sappiamo che le vite spezzate dei soldati e dei civili i cui cadaveri costellano il film non potranno mai ricrescere. E infine va sottolineata l’efficacia con cui la prima e l'ultima sequenza, entrambe girate in un campo fiorito, luminoso e silenzioso, esprimono la speranza che la guerra possa rappresentare almeno solo una piccola, pur se orrenda, parentesi in una esistenza di pace.
venerdì 17 gennaio 2020
"La ragazza d’autunno”, Kantemir Balagov (2019)
Fin dall’inizio facciamo la conoscenza di Iya (Viktorija Mirošničenko), una giovane donna altissima, timida e sgraziata (molto opportunamente il titolo originale “Dylda" significa appunto in russo "persona alta e goffa") soprannominata “Giraffa”, che il regista riprende in preda ad uno degli accessi di rigidità e sospensione della coscienza che occasionalmente le causano una sorta di paralisi transitoria; si tratta probabilmente di una manifestazione correlata a un disturbo da stress post-traumatico. Iya è il personaggio chiave del film: in modo indipendente dalla sua volontà ella, non a caso infermiera, si trova infatti a donare la vita e la morte, i due aspetti principali che Balagov mette a fuoco nel suo film. Vita e morte, l’alfa e l’omega del genere umano, sono quotidianamente in giuoco in questa Leningrado spettrale. Seguendo lo snodarsi della vicenda vediamo Iya soffocare involontariamente nel corso di uno dei suoi accessi il piccolo Paška (Timofey Glazkov), figlio dell’amica Maša (Vasilisa Perelygina). E Maša, che era divenuta sterile per le ferite riportate in guerra, impone ad Iya come ricompensa di farsi ingravidare per donarle un altro figlio, quindi una vita in cambio di una morte. E ancora la vediamo seguire senza il coraggio di ribellarsi le istruzioni del primario del reparto in cui lavora, il dott. Nikolaj Ivanovič (Andrej Bikov), somministrando una iniezione letale al povero Stepan (Konstantin Balakirev), tetraplegico a causa delle ferite riportate in guerra, che aveva fatto espressa richiesta dell’eutanasia per non pesare sulla moglie e sui figli. Il colloquio fra Stepan, sua moglie (Alyona Kučkova) e il primario, è una delle scene più toccanti del film. In particolare l’espressione della moglie di Stepan che guarda il primario con occhi vacui e fissi ricorda molto da vicino quella della vedova di guerra ritratta da Archimede Bresciani nel quadro “Attendendo l’Eroe” (1920).
Stepan e la moglie a colloquio con il primario |
Attendendo l’Eroe |
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