"The Irishman" si svolge a cavallo fra gli anni ’60 e ’70 ed è basato su personaggi realmente esistiti: Frank Sheeran (De Niro), un autista di origini irlandesi, Russel Bufalino (Joe Pesci), boss della mafia di Filadelfia che assume Frank come suo fidato sicario e collaboratore e Jimmy Hoffa (Al Pacino), potentissimo capo del sindacato dei camionisti.
Come struttura il film è in linea con lo stile dei gangster movie di Martin Scorsese, da “Mean Streets” (1973) passando per “Quei bravi ragazzi” (1990) e “Casinò” (1995) fino a “The Departed” (2006), ma come quest’ultimo è per certi versi atipico rispetto agli standard di questo regista e vedremo come.
In primo luogo la trama è riccamente intrecciata con avvenimenti e personaggi dell’epoca, il che conferisce al racconto una cornice storica utile alla comprensione delle vicende narrate. Si parla in particolare della famiglia Kennedy e dei suoi rapporti con la mafia e della figura di Jimmy Hoffa, anch’egli compromesso con la malavita. Hoffa scomparve misteriosamente nel luglio del 1975 e sulla sua scomparsa il film fornisce una spiegazione molto esplicita, di cui non parlerò per ovvi motivi ma che non è ufficialmente riconosciuta. E comunque lo stesso Scorsese, intervistato in merito alla veridicità di questa sua spiegazione ha detto che la cosa non lo interessa, a riprova di quanto sia importante il concetto di "sospensione dell’incredulità" (Samuel T. Coleridge, 1817) quando si parla di opere d’arte.
Un altro elemento che differenzia “The Irishman” dalle opere di Scorsese ricordate in precedenza è che il regista non ci fa partecipi in tempo reale delle gesta dei gangster ma lascia all’ormai anziano Sheeran, ricoverato in una casa di riposo, il compito di raccontarle in prima persona; questo flash-back crea un alone malinconico e nostalgico che soffonde tutta la storia ed è probabile che Scorsese l’abbia impiegato perchè, giunto a settantasette anni, è portato a pensare al passato e ai propri ricordi. Il flashback viene utilizzato anche in un altro film di gangster, “C’era una volta in America” (1984) di Sergio Leone, anch’esso interpretato da De Niro. L’analogia però si ferma qui, poichè nel film di Leone l’interesse è centrato sul processo di formazione dei mafiosi a partire dalla prima giovinezza, da quando ragazzini compivano le prime rapine di strada. A Scorsese interessa invece fotografare come detto un periodo ben preciso e cioè quello di massima attività criminale dei protagonisti del film, inquadrando la vicenda nel “qui ed ora” dell’epoca.
La sceneggiatura è quella abituale dei film di Scorsese, i dialoghi tra mafiosi si svolgono sempre secondo l’abituale routine vale a dire secondo schemi prefissati, frasi fatte, come se essi non riuscissero ad esprimersi al di fuori di binari ben definiti, incapaci di un libero ragionamento, con esiti quasi esilaranti come nei dialoghi surreali fra Jimmy Hoffa ed il mafioso Tony Provenzano (Stephen Graham). E qui Scorsese inserisce un aspetto interessante: contrariamente alla rigidità mentale ed alla testardaggine dei mafiosi che li circondano, Bufalino e Sheeran sono capaci di ragionare, di cambiare opinione, di adattarsi e, soprattutto nel caso di Sheeran, di cercare il compromesso attraverso una paziente opera di mediazione. Fatte le ovvie differenze, il loro modo di agire ricorda quello rispettivamente di Don Vito Corleone e del suo fido consigliere Tom Hagen nella saga de “Il padrino” di Francis F. Coppola. Inoltre, forse non è un caso che sia Sheeran, irlandese, che Hagen, tedesco-irlandese, non abbiano ascendenze italiane. Questo permette loro da un lato di conquistarsi la piena fiducia dei loro capi poiché era impensabile che dei non italiani potessero scalzare i boss della mafia e prendere il loro posto e dall’altro di vedere gli affari della mafia da un’ottica più fredda ed obiettiva, utile a svolgere al meglio il ruolo di consiglieri.
In chiusura va citato il finale del film di cui possiamo parlare senza rischiare lo spoiling. Qui in una ventina di minuti Scorsese mette a fuoco aspetti molto importanti, quali il rapporto fra colpa e redenzione che emerge dal dialogo fra Sheeran ed un giovane sacerdote che lo viene a visitare, lo scorrere del tempo e la caducità delle cose umane che si ricava invece dal dialogo con una giovane infermiera che non ha idea di chi siano stati Jimmy Hoffa e men che meno Bufalino e Sheeran ed infine il dramma del fine vita, espresso nelle semplici ma significative parole che Sheeran rivolge al sacerdote nell’accomiatarsi da lui: Don’t shut the door all the way, I don’t like it. Just…leave it open a little bit (“Non chiudere del tutto la porta, non mi piace. Lasciala appena un po’ aperta”) dopodichè la macchina da presa compie un lento zoom-out mantenendo lo sguardo fisso su Sheeran seduto sulla sua carrozzina, un uomo che sa di avere davanti a sé la morte, ma non vuole rassegnarsi a vedere quella porta chiudersi per sempre.
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