sabato 7 novembre 2020

"Le Mans ’66 - La grande sfida”, James Mangold (2019)

Questo film può essere apprezzato emotivamente grazie alla indubbia abilità di Mangold sia nel coinvolgere lo spettatore sul piano spettacolare che nel farlo entrare in rapporto empatico con i due protagonisti (anche se le esigenze di cassetta portano spesso la sceneggiatura un po’ sopra le righe). Andando più in profondità, in questa pellicola troviamo anche un concetto molto caro al cinema americano, vale a dire la lotta fra il sistema e l’eroe solitario, fra l’omologazione e l'irregolarità. La metafora è molto chiara: da una parte abbiamo il sistema, rappresentato dalla squadra di manager della Ford tutti vestiti di scuro con camicia bianca, strettamente omologati al pensiero del presidente Henry Ford II. Dall’altra troviamo l’eroe solitario, un irregolare, un “beatnik” viene definito, cioè Ken Miles (Christian Bale), meccanico/pilota geniale ma ribelle a qualsiasi regola. Come spesso accade nelle rappresentazioni cinematografiche di questa opposizione, alla fine si assiste alla sconfitta dell’eroe solitario e al trionfo dell’establishment; su questo tema mi vengono in mente due film per me di culto: "Nick mano fredda (Stuart Rosenberg, 1967) e "Punto zero (Richard Sarafian, 1971). Non a caso entrambe le pellicole risalgono a subito prima e subito dopo il 1968, quando in America e nel mondo iniziò il processo di rivolta giovanile contro l’omologazione al sistema. E non a caso in entrambi i film l’eroe solitario muore per mano degli uomini del sistema; l’idea di fondo era infatti quella di creare un martire caduto per la causa della libertà. In questo film l’eroe solitario non viene ucciso ma viene imbrogliato dal sistema nel momento in cui, alla fine della gara a Le Mans nel 1966, il vicepresidente della Ford Leo Beebe (Josh Lucas) convince Ken Miles,  ormai dato vincente, a ridurre la velocità per permettere alle altre due Ford in gara di tagliare il traguardo insieme a lui, ben sapendo che la vittoria non sarebbe stata condivisa a pari merito dai tre piloti ma sarebbe andata a Bruce McLaren che, essendo partito in posizione arretrata rispetto agli altri due, aveva percorso più chilometri. A questa contrapposizione standard "sistema vs eroe solitario", Mangold aggiunge due figure interessanti: dalla parte della Ford, Lee Iacocca (Jon Bernthal), a quel tempo giovane manager di quell’azienda, e dalla parte opposta Carrol Shelby (Matt Damon), ex-pilota e costruttore di automobili da corsa, amico/mentore di Miles, sul quale proietta le sue ambizioni di pilota, prematuramente bruciate a causa di un problema cardiaco congenito riacutizzatosi dopo la vittoria alla 24 ore di Le Mans nel 1959. Questi due personaggi, seppur militanti in campi opposti, svolgono un ruolo di mediazione fra il sistema e Ken, cercando di volta in volta di smussare gli angoli e di trovare un compromesso, ma senza successo a causa della rigidità delle due parti. Se consideriamo come si sono poi svolti i fatti, nel caso di Lee Iacocca si può dire che questa attitudine alla mediazione alla fine pagò, egli divenne infatti uno dei più celebri manager americani della storia nelle vesti di presidente, e salvatore dal fallimento, della Chrysler negli anni ’80. Forse la stessa fortuna nel lavoro avrebbe potuto arridere anche a Shelby, visto il successo della AC Cobra da lui prodotta, la granturismo più veloce dell’epoca, ma l’imprevisto è sempre in agguato: in questo caso dopo la morte di Miles durante una sessione di prove della Ford GT 40 Mk IV, Shelby abbandonerà la produzione di auto da corsa. Ecco quindi che le decisioni della vita vengono a dipendere da un approccio emozionale più che razionale, approccio suggellato metaforicamente alla fine del film quando la chiave inglese che Miles aveva lanciato anni prima in un momento di rabbia contro Shelby viene da questi regalata al figlio, il piccolo Peter Miles (Noah Jupe). 

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