sabato 4 dicembre 2021

“È stata la mano di Dio”, Paolo Sorrentino (2021)

L'opera ultima di Paolo Sorrentino mi suggerisce una valutazione meno asettica rispetto alle mie analisi abituali, probabilmente perché è un film autobiografico in cui il regista ci espone un pezzo significativo della sua formazione, vale a dire il periodo dell’adolescenza. Per un film personale mi viene quindi spontanea una valutazione prevalentemente personale. Ed è una valutazione ricca di elementi contrastanti. L’elemento che più ho apprezzato, e che traspare fin dal titolo, è l’alone trascendente che, ci dice il regista, caratterizza la Weltaanschaung napoletana. Una caratteristica con cui giustamente Sorrentino apre il suo film, con sequenze irreali fra le quali l'immagine del lampadario caduto a terra ed ivi giacente obliquo che ci introduce in un mondo che non è quello dell’immanenza. E, credo non a caso, questa introduzione ruota intorno al personaggio di zia Patrizia (Luisa Ranieri), donna dall’equilibrio psichico assai instabile e quindi adatta a farsi interprete di quel mondo di mezzo, la metaxú platonica, situato fra ragione apollinea e follia dionisiaca. Patrizia ricomparirà in seguito spesso nel corso della narrazione come pure troveremo spesso lo zio Alfredo (Renato Carpentieri) che evoca ancora una volta la trascendenza, cioè la mano di Dio, quando ad esempio Maradona segna un goal con la mano (mano de Dios come fu appunto definita) rappresentando, a detta di Alfredo, un messaggio divino di disprezzo per gli inglesi in ricordo della guerra delle Malvinas. Al divino Maradona il protagonista Fabietto Schisa (Filippo Scotti) attribuisce poi il dono della vita, essendosi salvato dalla morte per avvelenamento da CO perché era andato a vederlo giuocare.  Il film è poi costellato di immagini ed eventi che Sorrentino pesca nei suoi ricordi, con effetti, a mio ribadisco personalissimo modo di vedere, non sempre felici. Ho trovato ad esempio molto bella la sequenza del pranzo sotto la pergola. Qui troviamo il piacere dell’irrisione un po’ cattiva delle sventure altrui nelle scene che coinvolgono il personaggio del laringectomizzato; questa capacità, penso inconsciamente catartica e forse rispondente all’animo napoletano, di ridere in circostanze drammatiche riemerge prepotentemente nella scena del parcheggio dell’ospedale di Roccaraso, nel bel mezzo di un terribile dramma famigliare. Ho trovato invece sgradevole, sempre sul piano personale, la scena riguardante la perdita della verginità di Fabietto; è vero che le cose avvenute devono essere narrate, altrimenti che autobiografia sarebbe, ma rimango dell’idea, sicuramente démodé, che in ambito filmico valga più il linguaggio allusivo, senz’altro difficile, rispetto a quello diretto, decisamente più facile. E per finire, mi è molto piaciuta la presenza costante del mare, questo mare dove più e più volte ci si bagna, dove i contrabbandieri sfuggono in motoscafo alle forze dell’ordine. Nell’acqua ci bagniamo per ottenere pulizia, anche metaforica, e dall’acqua di mare è nata la vita per cui la vicinanza con il mare, sembra dirci il regista, è un punto di forza per chi è nato e vissuto a Napoli.

sabato 20 novembre 2021

“Madres paralelas”, Pedro Almodovar (2021)



Aλήθεια (aletheia), questo è il nome con cui gli antichi Greci indicavano la verità, nome che sta a significare “non nascosta”, sottintendendo quindi che per essi la verità doveva essere rivelata. E a questo etimo si ispira Almodóvar nel suo ultimo film. In particolare la Storia, che di verità è nutrita, deve riemergere, e non solo quella con la S maiuscola, ma anche quella con la s minuscola e quindi sia quella delle fosse comuni riempite dai cadaveri delle vittime dei falangisti durante la guerra civile spagnola che quella del rapporto fra Janis (Penelope Cruz) e Ana (Milena 
Smit), due madri separate dall’anagrafe (la prima potrebbe essere madre della seconda), ma accomunate dai tempi del parto e da una storia famigliare turbolenta. La madre di Janis è infatti morta di overdose a 27 anni e quella di Ana insegue il sogno di diventare attrice teatrale, lasciando la figlia sola ad affrontare il difficile periodo del post-partum per andare in tournée. I padri non sono da meno, quello di Ana si fa vivo sì e no per telefono, di quello di Janis mancano notizie. Non solo, Ana è rimasta incinta dopo un’orgia e non ha idea di chi sia il padre di sua figlia; Janis vive invece un rapporto un po’ complesso con un antropologo forense da lei contattato allo scopo di riesumare il cadavere del nonno e di altri suoi compaesani, uccisi dai falangisti e gettati in una fossa comune. La famiglia è quindi nel caos più totale e sembra dalla narrazione che Almodóvar ci indichi nella figura femminile l'unica depositaria della salvezza di questo istituto, pur con le riserve dovute al comportamento delle madri della generazione precedente. E la responsabilità di sostenere l’istituto famigliare ha un peso, peso che Janis dovrà portare dopo molta esitazione e con grande sofferenza. Essa dovrà infatti svelare la verità ad Ana per ricostituire il giusto rapporto madre-figlia, che è alla base dell’istituto famigliare. Verità che è anche alla base del rapporto fra membri della Società e per un motivo molto semplice: come ci ricorda il filosofo spagnolo Jorges Santayana (1863-1962) “Chi non conosce il passato è condannato a ripeterlo” e questa condanna è adombrata nell’inquadratura finale che attualizza il passato mostrandoci i cadaveri di alcuni giovani sistemati nella fossa comune così come lo erano gli scheletri dei loro nonni. Fortunatamente, subito prima dei titoli di coda, la citazione dell’intellettuale uruguaiano Eduardo Ughes Galeano (1940-2015): “Per quanto si tenti di ridurla al silenzio, la storia umana si rifiuta di tacere” ci ispira un po’ di fiducia nel futuro. 

venerdì 17 settembre 2021

“Il collezionista di carte”, Paul Schrader (2021)

 William Tillich (Oscar Isaac) ci viene presentato come un solitario, freddo, amimico ed anempatico giocatore di professione la cui grande abilità consiste nel mantenere il conto delle carte man mano che escono durante le partite di BlackJack e Poker cui partecipa (caratteristica esplicita nel titolo originale “The card counter”, ma accuratamente occultata nella traduzione in italiano). Ben presto però ci accorgiamo che qualcosa non quadra in questo ritratto: perchè si fa chiamare William Tell, invece di Tillich? E perchè nelle camere di motel in cui alloggia fascia accuratamente con teli bianchi tutti i mobili? Dopo l’incontro con il giovane Cirk (Tye Sheridan), in cerca di vendetta per il suicidio del padre dovuto agli orrori cui aveva partecipato nel carcere di Abu Ghraib durante la guerra in Iraq, incominciamo a penetrare nel passato di William. Ed ecco che egli appare per quello che realmente è: un uomo tormentato dal rimorso per le torture che ha inflitto, sotto la direzione del famigerato maggiore John Gordo (Willem Dafoe), in quel carcere. William cerca di nascondere dietro la maschera del freddo giocatore il tormento che lo consuma, ma i suoi incubi ricorrenti che con un realismo agghiacciante ci portano in quel carcere, non lo lasciano stare, egli sente che gli otto anni che ha passato in prigione non sono sufficienti a redimerlo e cova anche rabbia per il fatto che i superiori (Gordon appunto) l’hanno passata liscia, contrariamente a lui stesso ed al padre di Cirk. E tutto diviene chiaro: i mobili fasciati di bianco per cancellare il ricordo dei pavimenti e delle pareti sporche di sangue, feci e urine di Abu Ghraib, il nome William (Guglielmo) Tell, che evoca freddezza e precisione, caratteristiche che si è ritagliato addosso nel gioco delle carte appreso durante la carcerazione e che contrastano con il caos terrificante e la assenza di regole che vigevano nel carcere iracheno. La redenzione alla fine arriverà, segnata dal sangue e dalla morte come era destino, ma illuminata dalla figura di La Linda (Tiffany Haddish), finanziatrice di giocatori d’azzardo, che, Schrader ci lascia intuire, potrà forse donare a William la pace dopo che egli avrà pagato il suo debito con la giustizia, ma soprattutto con se stesso. 

Dopo gli innumerevoli film dedicati alla tragedia del Vietnam, il cinema americano ci propone ora quelli dedicati alle tragedie delle guerre medio-orientali. E non vi è nulla di nuovo sotto il sole, una volta si trattava del villaggio di My Lai, teatro di un massacro di donne e bambini vietnamiti ad opera di soldati americani, ed oggi del carcere di Abu Ghraib. Questi film hanno una caratteristica comune ed è la ricerca di una redenzione attraverso la confessione, il pentimento e la pena. Questi concetti sono tipici del mondo protestante, in particolare puritano, basti ricordare il reverendo Dimmesdale di “La lettera scarlatta” (Nathaniel Hawthorne, 1850): tormentato dal rimorso per aver commesso adulterio e non aver avuto il coraggio di ammetterlo, si flagella, digiuna, si priva del sonno per punirsi, fino alla confessione pubblica liberatoria, seguita dalla sua morte. Questo desiderio di confessare pubblicamente le proprie colpe attraverso cinema e letteratura ha contribuito a diffondere la figura dell’americano cattivo, noto come Amerikano in Italia e Ugly American nel resto del mondo. Gli americani non sono però né più cattivi né più buoni di altri popoli; possono sembrare più cattivi perché questo loro retaggio culturale li porta a rendere manifeste le proprie colpe, mentre altri popoli preferiscono spazzarle silenziosamente sotto il tappeto. 

lunedì 22 marzo 2021

“Volevo nascondermi”, Giorgio Diritti (2020)

La scena di apertura (Antonio Ligabue ragazzo che si nasconde in una coperta dalla quale compare a tratti un occhio) e l’epitaffio posto sulla sua tomba nel cimitero di Gualtieri: “Il rimpianto del suo spirito, che tanto seppe creare attraverso la solitudine e il dolore, è rimasto in quelli che compresero come sino all’ultimo giorno della sua vita egli desiderasse soltanto libertà e amore” permettono di afferrare con immediatezza il significato di quest’opera. Antonio (un formidabile Elio Germano) ha imparato a nascondersi fin da bambino durante i primi anni di scuola quando, a causa della sua ”diversità” veniva sbeffeggiato, bullizzato per un usare un neologismo, dai compagni. E sia un insegnante dotato di una crudeltà maggiore di quella dei compagni che il suo padre adottivo gli insegnano involontariamente a nascondersi quando, per punirlo dei suoi comportamenti “diversi”, il primo lo chiude in un sacco ed il secondo gli tuffa la testa nell’acqua. Solo il preside della scuola elementare svizzera (Peter Hottinger) lo aveva incoraggiato ad avere fiducia in se stesso, a sviluppare il talento che ognuno di noi porta dentro di sè. Antonio vuole nascondersi perché non è accettato dagli altri a causa della sua “diversità”, dagli altri ottiene solo cattiveria e non l’amore che ha sempre desiderato e non a caso, quando gli viene fatto notare che indossa il cappotto in luglio, ci dice metaforicamente di aver sempre sofferto il freddo. Antonio ha di conseguenza imparato a temere gli altri fin dalla più tenera infanzia. Solo due persone, e non a caso due donne dotate di grande e spontanea sensibilità, riescono a suscitare la sua fiducia, la madre adottiva Elise (Dagny Jioulami) e Adalgisa (Orietta Notari), madre di Renato Marino Mazzacurati (Pietro Traldi). Per fortuna esiste la pittura e per fortuna il Mazzacurati invita Antonio a dedicarsi ad essa, unico modo per esprimere ciò che egli porta dentro di sé e che non riesce a dire con parole. Ed ecco comparire sulla tela gli animali e la natura, con i colori violenti della passione (che il regista pone abilmente a contrasto con il bianco e nero dei paesaggi svizzeri dell’infanzia) che appunto cova inespressa dentro di lui, gli autoritratti, giustamente avvicinati a quelli di van Gogh, dallo sguardo dei quali, sempre obliquo, traspare il travaglio interiore dell’uomo. Questo bel film offre anche l’opportunità di meditare sul rapporto che la società intrattiene con il “diverso”, in particolare con chi è affetto da patologie psichiatriche o disagio psicologico. All’approccio biologico della psichiatria, attento ai criteri diagnostici ed alla ricerca di esami che possano permettere di incasellare il singolo paziente (termine che qui vorrei usare nel senso etimologico di “colui che sta soffrendo” e non di malato) si è fortunatamente diffuso dalla prima metà del '900 l’approccio fenomenologico. Quest'ultimo è volto a cercare di capire, attraverso il rapporto empatico, il perché della “diversità”, di indagarne la ragione, non ottenendo necessariamente un ritorno alla “norma” (già difficile con i farmaci), ma almeno facilitando il reinserimento nell’ambito sociale. E qui entra in giuoco il concetto di identità, concetto naturalmente lecito ma che va applicato cum grano salis affinché non si renda strumento della emarginazione del diverso.

venerdì 12 febbraio 2021

“La Conversazione”, Francis Ford Coppola (1974)


Harry Caul (Gene Hackman) è uno specialista in intercettazioni ambientali, conosciuto ed ammirato in tutti gli Stati Uniti. Per svolgere al meglio la sua attività come intercettatore free-lance, Harry ribadisce chiaramente con i colleghi ed i collaboratori l’esigenza di non interessarsi del contenuto delle intercettazioni, di ciò che si dicono le persone intercettate. Può darsi che questo atteggiamento derivi anche da un tratto caratteriale: la sua personalità è caratterizzata da una chiusura verso gli altri, una difficoltà relazionale che si manifesta sia in ambito personale che lavorativo, oltre ad una sospettosità che sfiora la paranoia; possiamo definirlo quindi un sociopatico paranoico. Peraltro nel corso della narrazione veniamo a conoscenza di un drammatico evento che, innestatosi su un carattere psicologicamente predisposto,  può aver contribuito a  questo atteggiamento: i componenti di una famiglia che gli era stato chiesto di intercettare  furono uccisi a seguito dei risultati della sua intercettazione. E qui veniamo al tema centrale del film: se e quanto la coscienza morale debba pesare sulla pratica delle nostre attività, in particolare lavorative. La risposta potrebbe essere di primo acchito: sì al 100%, ma le cose non sono così semplici. Gli esempi sono molti, pensiamo ad esempio alla crisi di coscienza di Julius R. Oppenheimer, che contribuì alle scoperte sulla fissione nucleare e che, all’indomani di Hiroshima, dichiarò che "i fisici avevano conosciuto il peccato”, rifiutando quindi l’assoluzione derivante dal concetto che la responsabilità di un malfatto sia da imputare esclusivamente all'utilizzatore dei risultati delle altrui ricerche. O più semplicemente alle pubblicità ingannevoli: dovrebbero i testimonial valutare la veridicità del messaggio loro affidato? E’ lecito dubitare che ciò avvenga, non a caso già i Latini avevano coniato l’espressione Pecunia non olet, il denaro non puzza, per esprimere la prevalenza dell’interesse sulla coscienza. Ma non di solo denaro si tratta, pensiamo ad esempio al personale dei lager nazisti che giustificava il proprio operato in base al fatto che avevano obbedito a degli ordini. Bene ha fatto a questo proposito Hanna Arendt a ricordare che “Nessuno ha il diritto di obbedire” e quindi nessuno è esentato dal valutare sul piano etico ciò che gli viene ordinato di fare. Ma torniamo al nostro Harry. Quando gli viene chiesto di intercettare una giovane coppia, nell’ascoltare le registrazioni (ovviamente solo per essere certo della loro intelligibilità) egli si rende conto che vi è la concreta possibilità che si verifichi un crimine. Di fronte a questa epifania e memore di quanto già gli era avvenuto con la precedente intercettazione di cui abbiamo parlato, Harry contravviene al suo freddo atteggiamento di disinteresse e si adopera per impedire che l’omicidio venga compiuto, senza peraltro riuscirci e per di più scoprendo che l’ucciso è colui che egli, in base alle sue intercettazioni, pensava sarebbe stato l’uccisore. Intercettato a sua volta dai mandanti dell'omicidio, alla fine del film il povero Harry distrugge in pratica il suo appartamento alla ricerca della cimice, che non riuscirà a trovare, e cercherà una consolazione solitaria, in accordo con il tratto sociopatico del suo carattere, nel suonare solo soletto il sassofono, unica cosa rimasta intatta nell’appartamento (è probabile quindi che la cimice fosse stata piazzata proprio lì!). Un commento finale va riservato alla regia. Coppola in questo film utilizza una tecnica ispirata al concetto di Gilles Deleuze della "immagine-tempo", in contrapposizione alla "immagine-movimento". Lo vediamo molto chiaramente nel continuo ricorrere degli spezzoni di registrazione che Harry ascolta a ripetizione, vere e proprie “falde di passato”, per usare la terminologia di Deleuze, che interrompono il flusso del tempo cronologico stratificandosi idealmente nell’immagine del cono rovesciato proposta da Henri Bergson il cui apice rappresenta la percezione della realtà nel presente, in gran parte frutto della memoria del passato. Ma attenzione, l’errore di interpretazione di Harry sta anche a dimostrare che la realtà percepita, come insegna Schopenauer, può essere una semplice rappresentazione.