lunedì 22 marzo 2021

“Volevo nascondermi”, Giorgio Diritti (2020)

La scena di apertura (Antonio Ligabue ragazzo che si nasconde in una coperta dalla quale compare a tratti un occhio) e l’epitaffio posto sulla sua tomba nel cimitero di Gualtieri: “Il rimpianto del suo spirito, che tanto seppe creare attraverso la solitudine e il dolore, è rimasto in quelli che compresero come sino all’ultimo giorno della sua vita egli desiderasse soltanto libertà e amore” permettono di afferrare con immediatezza il significato di quest’opera. Antonio (un formidabile Elio Germano) ha imparato a nascondersi fin da bambino durante i primi anni di scuola quando, a causa della sua ”diversità” veniva sbeffeggiato, bullizzato per un usare un neologismo, dai compagni. E sia un insegnante dotato di una crudeltà maggiore di quella dei compagni che il suo padre adottivo gli insegnano involontariamente a nascondersi quando, per punirlo dei suoi comportamenti “diversi”, il primo lo chiude in un sacco ed il secondo gli tuffa la testa nell’acqua. Solo il preside della scuola elementare svizzera (Peter Hottinger) lo aveva incoraggiato ad avere fiducia in se stesso, a sviluppare il talento che ognuno di noi porta dentro di sè. Antonio vuole nascondersi perché non è accettato dagli altri a causa della sua “diversità”, dagli altri ottiene solo cattiveria e non l’amore che ha sempre desiderato e non a caso, quando gli viene fatto notare che indossa il cappotto in luglio, ci dice metaforicamente di aver sempre sofferto il freddo. Antonio ha di conseguenza imparato a temere gli altri fin dalla più tenera infanzia. Solo due persone, e non a caso due donne dotate di grande e spontanea sensibilità, riescono a suscitare la sua fiducia, la madre adottiva Elise (Dagny Jioulami) e Adalgisa (Orietta Notari), madre di Renato Marino Mazzacurati (Pietro Traldi). Per fortuna esiste la pittura e per fortuna il Mazzacurati invita Antonio a dedicarsi ad essa, unico modo per esprimere ciò che egli porta dentro di sé e che non riesce a dire con parole. Ed ecco comparire sulla tela gli animali e la natura, con i colori violenti della passione (che il regista pone abilmente a contrasto con il bianco e nero dei paesaggi svizzeri dell’infanzia) che appunto cova inespressa dentro di lui, gli autoritratti, giustamente avvicinati a quelli di van Gogh, dallo sguardo dei quali, sempre obliquo, traspare il travaglio interiore dell’uomo. Questo bel film offre anche l’opportunità di meditare sul rapporto che la società intrattiene con il “diverso”, in particolare con chi è affetto da patologie psichiatriche o disagio psicologico. All’approccio biologico della psichiatria, attento ai criteri diagnostici ed alla ricerca di esami che possano permettere di incasellare il singolo paziente (termine che qui vorrei usare nel senso etimologico di “colui che sta soffrendo” e non di malato) si è fortunatamente diffuso dalla prima metà del '900 l’approccio fenomenologico. Quest'ultimo è volto a cercare di capire, attraverso il rapporto empatico, il perché della “diversità”, di indagarne la ragione, non ottenendo necessariamente un ritorno alla “norma” (già difficile con i farmaci), ma almeno facilitando il reinserimento nell’ambito sociale. E qui entra in giuoco il concetto di identità, concetto naturalmente lecito ma che va applicato cum grano salis affinché non si renda strumento della emarginazione del diverso.

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