venerdì 17 settembre 2021

“Il collezionista di carte”, Paul Schrader (2021)

 William Tillich (Oscar Isaac) ci viene presentato come un solitario, freddo, amimico ed anempatico giocatore di professione la cui grande abilità consiste nel mantenere il conto delle carte man mano che escono durante le partite di BlackJack e Poker cui partecipa (caratteristica esplicita nel titolo originale “The card counter”, ma accuratamente occultata nella traduzione in italiano). Ben presto però ci accorgiamo che qualcosa non quadra in questo ritratto: perchè si fa chiamare William Tell, invece di Tillich? E perchè nelle camere di motel in cui alloggia fascia accuratamente con teli bianchi tutti i mobili? Dopo l’incontro con il giovane Cirk (Tye Sheridan), in cerca di vendetta per il suicidio del padre dovuto agli orrori cui aveva partecipato nel carcere di Abu Ghraib durante la guerra in Iraq, incominciamo a penetrare nel passato di William. Ed ecco che egli appare per quello che realmente è: un uomo tormentato dal rimorso per le torture che ha inflitto, sotto la direzione del famigerato maggiore John Gordo (Willem Dafoe), in quel carcere. William cerca di nascondere dietro la maschera del freddo giocatore il tormento che lo consuma, ma i suoi incubi ricorrenti che con un realismo agghiacciante ci portano in quel carcere, non lo lasciano stare, egli sente che gli otto anni che ha passato in prigione non sono sufficienti a redimerlo e cova anche rabbia per il fatto che i superiori (Gordon appunto) l’hanno passata liscia, contrariamente a lui stesso ed al padre di Cirk. E tutto diviene chiaro: i mobili fasciati di bianco per cancellare il ricordo dei pavimenti e delle pareti sporche di sangue, feci e urine di Abu Ghraib, il nome William (Guglielmo) Tell, che evoca freddezza e precisione, caratteristiche che si è ritagliato addosso nel gioco delle carte appreso durante la carcerazione e che contrastano con il caos terrificante e la assenza di regole che vigevano nel carcere iracheno. La redenzione alla fine arriverà, segnata dal sangue e dalla morte come era destino, ma illuminata dalla figura di La Linda (Tiffany Haddish), finanziatrice di giocatori d’azzardo, che, Schrader ci lascia intuire, potrà forse donare a William la pace dopo che egli avrà pagato il suo debito con la giustizia, ma soprattutto con se stesso. 

Dopo gli innumerevoli film dedicati alla tragedia del Vietnam, il cinema americano ci propone ora quelli dedicati alle tragedie delle guerre medio-orientali. E non vi è nulla di nuovo sotto il sole, una volta si trattava del villaggio di My Lai, teatro di un massacro di donne e bambini vietnamiti ad opera di soldati americani, ed oggi del carcere di Abu Ghraib. Questi film hanno una caratteristica comune ed è la ricerca di una redenzione attraverso la confessione, il pentimento e la pena. Questi concetti sono tipici del mondo protestante, in particolare puritano, basti ricordare il reverendo Dimmesdale di “La lettera scarlatta” (Nathaniel Hawthorne, 1850): tormentato dal rimorso per aver commesso adulterio e non aver avuto il coraggio di ammetterlo, si flagella, digiuna, si priva del sonno per punirsi, fino alla confessione pubblica liberatoria, seguita dalla sua morte. Questo desiderio di confessare pubblicamente le proprie colpe attraverso cinema e letteratura ha contribuito a diffondere la figura dell’americano cattivo, noto come Amerikano in Italia e Ugly American nel resto del mondo. Gli americani non sono però né più cattivi né più buoni di altri popoli; possono sembrare più cattivi perché questo loro retaggio culturale li porta a rendere manifeste le proprie colpe, mentre altri popoli preferiscono spazzarle silenziosamente sotto il tappeto. 

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