domenica 25 maggio 2025

"Il quadro rubato", Pascal Bonitzer (2024)

L'argomento non è nuovo, pensiamo ad esempio a "Woman in gold" (Simon Curtis, 2015). Bonitzer lo affronta però nel suo film da una prospettiva originale e cioè quella dell'effetto che il ritrovamento di un quadro sottratto produce in vari soggetti, in diverso modo interessati al caso.

André Masson lavora in un'importante casa d'aste, Scottie's, ovvia parafrasi di Christie's, ed è abituato ad aver a che fare con opere di grande livello (nelle sequenze iniziali lo vediamo trattare un Degas: "La Tinozza", 1886). Disincantato e cinico, strettamente legato agli status symbol (guida una Aston Martin ed ha una collezione di orologi preziosi), gli viene assegnata una stagista taciturna ed introversa, Aurore (Louise Chevillotte) afflitta da gravi problemi famigliari, con la quale non tarda ad entrare in conflitto. Insieme alla ex moglie Bertina (Léa Drucker) egli assume l'incarico di gestire una preziosissima opera di Egon Schiele, “I Girasoli”, reperita casualmente da un operaio chimico, Martin Keller (Arcadi Radeff), nella casa acquistata 5 anni prima. In questa cornice si inseriscono anche gli eredi del quadro, risparmiato da un addetto della Wehrmacht al rogo destinato dai nazisti alla cosiddetta “arte degenerata”, una famiglia ebrea emigrata in America rappresentata da uno dei 9 fratelli, Bob Whalberg (Doug Rand).

André vede nella possibilità di mettere all’asta il quadro un punto di svolta decisivo nella sua carriera e si muove quindi in modo da sfruttarla appieno. Al contrario Martin, giovane e candido, non vuole saperne di avanzare alcun diritto poichè non vuole aver a che fare con un’opera che “gronda sangue”. A metà strada gli Whalberg, molto facoltosi, che desiderano avere il quadro per motivi affettivi e sono disposti a cedere il 10% del ricavo a Martin come ringraziamento, indipendentemente dalla cifra ricavata, tant’è che si apprestano a cederlo per 8 M di euro al primo offerente, in base ad una stima basata su un falso expertise. Avvertito da Aurore del tentativo truffaldino, André convince Bob a non accettare l’offerta ed il quadro andrà venduto in asta da Scottie’s per 25 M di euro.

E alla fine cosa succede a questi personaggi dopo la vendita del quadro? Martin si limita a comperare una casa per la madre e continua il suo lavoro di operaio chimico notturno senza dire nulla a colleghi ed amici per non cambiare il suo stile di vita. Ad André viene offerta una promozione dal capo di Scottie’s, ma egli la rifiuta per iniziare una carriera autonoma nel mercato dell’arte insieme a Bertina ed Aurore (che ha risolto i suoi problemi famigliari) con la quale si è riconciliato, desideroso di conquistare la libertà chiudendo con un lavoro da dipendente sempre in balia delle decisioni di un superiore. E gli Whalberg se ne tornano a New York con il loro quadro dopo un ricevimento in onore di un emozionatissimo Martin. Un curioso happy ending per un film ambientato nel mercato dell’arte in cui di happy nei rapporti interpersonali abbiamo visto esservi ben poco.

 

sabato 10 maggio 2025

“Black bag”, Steven Soderbergh (2025)

George Woodhouse (Michael Fassbender) è un uomo glaciale, raziocinate e (apparentemente) sempre in controllo. Queste doti gli sono molti utili nel suo lavoro alla NCSC, branca dei servizi di intelligence britannici dedicata alla cyber-sicurezza. George ha due passioni, la cucina cui si dedica con attenzione maniacale e la pesca che, lui dice, lo aiuta a concentrarsi. Sono due passioni metaforiche poiché nel suo lavoro egli deve analizzare e combinare vari fattori, come gli elementi di una ricetta, per giungere ad identificare (e quindi a “pescare") le talpe che inevitabilmente si annidano nei servizi di intelligence. E il rischio sempre presente che egli corre di incappare in false piste è sottolineato dalla metafora degli occhiali che gli si appannano per il vapore mentre cucina. Ma è possibile che George non abbia un tallone di Achille, un punto debole che incrini il suo algido raziocinio? Ebbene questo punto debole esiste ed è sua moglie Kathryn (Cate Blanchett) alla quale è talmente legato (e ricambiato) da non aver voluto figli che si intromettessero nel loro rapporto. Sfortunatamente Kathryn lavora anch’essa all’NCSC, il che porta con sé il rischio di un conflitto di interessi. Per ovviare a questo rischio i due hanno coniato l’espressione black bag con la quale si riferiscono a questioni che non devono essere discusse fra di loro. 
Partendo da queste premesse Soderbergh e l’autore della sceneggiatura originale, David Koepp, sviluppano la narrazione, basata sulla ricerca di una talpa all’interno del NCSC che cerca di vendere a servizi segreti di altre nazioni un potente malware, nome in gergo “Severus", in grado di causare la fusione del nocciolo delle centrali nucleari con conseguenze evidentemente terrificanti. La rosa dei candidati fra cui George deve identificare la talpa comprende cinque soggetti, uno dei quali è sfortunatamente Kathryn.   
Il film può essere incluso nella categoria delle spy-stories, ma è decisamente atipico rispetto alla media di questi prodotti, basti pensare che in 93 minuti di narrazione assistiamo ad un solo colpo di pistola e alla esplosione di una sola automobile. Il motivo è che l’interesse è in primis legato ai rapporti interpersonali, da una parte quello fra Kathryn e George, solido come una roccia e dall’altra quelli degli altri 4 candidati che intrecciano fra di loro relazioni amorose assai volubili. E la differenza è il matrimonio, che lega i primi in due, implicando un legame (teoricamente) più saldo di una semplice relazione più o meno fugace. 
Per svolgere il suo compito George organizza due cene, una all’inizio del film, allo scopo di studiare i candidati per definire il loro possibile ruolo ed una alla fine per indicare a tutti la talpa (in stile Agatha Christie). Fra queste due cene egli svolge le sue indagini che per forza di cose coinvolgono, separatamente rispetto agli altri, anche la moglie. Ed è qui che per l’unica volta nel film George perde la sua impassibilità, vale a dire quando durante una riunione rischia seriamente di emergere la possibilità che Kathryn sia la talpa. In questa occasione, durante una inquadratura di qualche secondo Fassbender perde l’abituale espressione glaciale per dimostrare con un cambio di mimica tanto fugace quanto magistrale il terrore che attanaglia George. 
Il problema di fondo che caratterizza il film è quindi se George si troverà a dover scegliere fra l’amore per la moglie e l’amor di patria; dovrà egli affrontare questa scelta? E se sì, sceglierà Kathryn o la patria? 

lunedì 21 aprile 2025

“La Gazza ladra”, Robert Guédiguian (2024)

Maria (Ariane Ascaride) ha tre passioni: le ostriche, la musica e il nipote Nicolas (Thorvald Sonnengaard), anch’egli musicista appassionato, al quale essa paga l’affitto del pianoforte e le lezioni di piano. Inoltre, insieme al marito Bruno (Gérard Meylan) aveva acquistato una casa vista mare con piscinetta a l’Estaque, periferia di Marsiglia. Mettendo insieme tutto ciò e in più la passione di Bruno per il giuoco d’azzardo si capisce facilmente come il bilancio famigliare sia tutt’altro che brillante, considerato anche che Maria si guadagna da vivere assistendo persone anziane a domicilio e Bruno riceve una misera pensione. Per far quadrare i conti Maria pensa quindi di fare delle piccole “creste" sulle spese che fa per conto dei suoi assistiti e non proprio piccole perché noleggio del piano e lezioni sono piuttosto care. A fare le spese di tutto ciò è prevalentemente il signor Moreau (Jean-Pierre Darroussin), solo, paraplegico e con un unico figlio con cui ha rapporti rari e poco felici, che sente per Maria un profondo affetto, come del resto tutti coloro che ella assiste. Questa situazione entra in crisi nel momento in cui le creste di Maria vengono scoperte e a questo punto la storia prende un andamento non più lineare, ma complesso e variegato, che ricorda l’andamento del "pensiero rizomatico” di Gilles Deleuze. In questo modo il regista ha modo di mettere in scena una serie di comportamenti e situazioni che riflettono quanto si verifica ogni giorno nella "Comédie humaine”, il tutto reso in modo fortemente empatico, tanto da poter forse evocare un'accusa (che non condivido) di melensaggine, in particolare dagli amanti del riduzionismo cinematografico
I sentimenti dei vari personaggi sono quindi espressi senza sottintesi, ad esempio il rimpianto di Maria nel guardare la foto del matrimonio o quello di Moreau  per le immagini del figlio bambino, il colpo di fulmine che colpisce il figlio di Moreau, Laurent (Grégoire Leprince-ringuet), e la figlia di Maria, Jennifer (Marilou Assilloux), la diversa reazione di fronte a questo evento della moglie di Laurent, (Lola Naymark), vendicativa,  e del marito di Jennifer, Kevin (Robinson Stévenin), che nulla obietta purché la moglie sia felice e gli rimanga amica. E ancora, come cambia il comportamento di Laurent, prima freddo manipolatore nei confronti del padre e poi pronto a perdere tutto pur di seguire Jennifer.
Ci si potrebbe a questo punto chiedere se con questo film si vogliano sdoganare comportamenti come rubare, lavorare in nero (Bruno ha una misera pensione perché così ha svolto la sua attività lavorativa) o tradire la moglie. Non credo che il regista intendesse emettere giudizi in merito alle azioni dei suoi personaggi, il suo scopo era semplicemente di farci vedere come gli esseri umani si comportano nel bene e nel male nella vita di tutti i giorni. Trattandosi di cinema e non di un tribunale, la decisione in merito a cosa sia comprensibile o lecito e cosa no non sarà affidata alla rigidità della Legge, ma alla flessibile sensibilità del singolo spettatore. 

 

sabato 29 marzo 2025

"The Alto Knights: i due volti del crimine", Barry Levinson (2025)

Frank Costello e Vito Genovese (Robert De Niro), figli di immigrati italiani, sono cresciuti insieme agli inizi del ‘900 nel Lower East Side di Manhattan ed insieme hanno iniziato la loro carriera nell'ambito della malavita organizzata. L'accordo che li aveva da sempre legati si va sfilacciando nel tempo fino a rompersi del tutto quando Vito è costretto ad assentarsi dagli Stati Uniti per evitare l'arresto e, causa il sopravvenire della seconda guerra mondiale, non può ritornarvi prima di 15 anni. Al suo ritorno egli reclama il suo posto di boss della malavita che però Costello non è ben disposto a cedergli.
Una volta tanto il titolo italiano riesce a rendere bene la sostanza del film, il cui svolgersi è diverso dai ganster movies cui siamo abituati, a partire da "La Furia umana" (Raoul Walsh, 1949) con il grande James Cagney, uno spezzone del quale compare non a caso nel corso del film. Il regista pone infatti l'accento più che sulle azioni criminali, sulla diversità con cui il male si manifesta in queste due persone, dimostrando come in effetti questo possa essere non così banale rispetto a come lo ha descritto Hannah Arendt. La narrazione è quindi basata prevalentemente sul parlato più che sull’azione e questo permette sia allo spettatore di “entrare” nella psicologia dei due soggetti che a De Niro di dimostrare la sua bravura nell’interpretare due parti così diverse. Sì perché Costello e Genovese sono agli antipodi, tanto il primo è cauto nel muoversi e preferisce basare la sua azione su trame ordite dietro le quinte utilizzando preferibilmente corruzione e ricatto, quanto il secondo è impulsivo e portato a ricorrere senza esitazione alla violenza il che, a causa degli spunti paranoici del suo carattere, lo porta inevitabilmente ad eccedere. Fanno da contorno a queste personalità drasticamente diverse le due mogli, altrettanto diverse: quieta e razionale Bobbie Costello (Debra Messing), nevrotica ed esplosiva Anna Genovese (Katherine Narducci) ed una serie di compari dai nomi ben noti, Albert Anastasia (Michael Rispoli) e Carlo Gambino (James Ciccone) per citarne due ben conosciuti, personaggi stereotipati che si muovono sempre in accordo con il loro boss, sia esso Costello o Genovese. 
In conclusione, il male può presentarsi con diverse facce; il rischio cui bisogna stare molto attenti è che la sua faccia quieta (Costello) possa ispirare simpatia a confronto di quella violenta (Genovese), mentre in realtà sono entrambe pericolose, con la prima che, seppur in apparenza più tranquillizzante, può essere per questo più difficile da identificare.     

mercoledì 19 marzo 2025

"L'orto americano", Pupi Avanti (2024)

In che categoria si può inquadrare quest'ultimo film di Pupi Avati, tratto dal suo ultimo omonimo romanzo? Lo si vede inserito nell'ambito dei "giallo, thriller, horror" e non si può dire che si tratti di una etichettatura scorretta, visto che certo la suspense non manca. C'è però in questo film ben di più; infatti, oltre all'horror di "La casa con le finestre che ridono"(1976), in questo film Avati ritorna su un altro tema, già affrontato in "Lei mi parla ancora" (2021): il rapporto fra il mondo dei vivi e quello dei morti. 
Protagonista del film è un giovane scrittore (Filippo Scotti) di cui non ci viene reso noto il nome, forse intendendo con questo significare che potrebbe essere ognuno di noi, il quale si innamora perdutamente di un'ausiliaria americana fugacemente vista a Bologna nell'immediato dopoguerra. Trasferitosi per un breve periodo negli Stati Uniti per trovare ispirazione per un nuovo romanzo, si trova come vicina di casa un'anziana signora (Rita Tushingam) che non si rassegna all'idea che la figlia Barbara, ausiliaria dell'esercito dalle cui foto lo scrittore capisce trattarsi della giovane donna vista a Bologna, sia stata data per morta durante la guerra nella zona di Argenta. Iniziamo a questo punto a conoscere meglio lo scrittore ed in particolare la sua capacità di confrontarsi con i morti. Lo vediamo infatti chiedere consiglio ai morti di famiglia le cui fotografie si porta sempre appresso in un album. Inoltre ode lamenti provenienti dall'orto che separa la sua casa da quella dell'anziana signora e scopre che questi provengono da un vaso di vetro ripieno di un liquido opaco, che non riesce ad aprire, dotato di un'etichetta di difficile interpretazione poiché vi sono mescolati versi dell'Epinicio V di Bacchilide con quella che risulta alla fine essere una descrizione dell'effettivo contenuto, vale a dire un verosimile frammento di un corpo umano. Costretto a tornare in Italia per evitare il carcere a causa della violazione di proprietà privata, lo scrittore inizia la sua ricerca di Barbara che lo porta a seguire il processo imbastito contro Glauco (Armando De Ceccon) per l'omicidio di tre giovani donne, e forse anche di Barbara, processo che si concluderà con un'ingiusta sentenza di morte. La sua ricerca, attraverso varie peripezie, lo porterà alla fine in una casa nel delta del Po, dove gli è stato detto esservi una donna che potrebbe sapergli dare notizie di Barbara. E qui il film bruscamente si chiude.
Nella vita del giovane scrittore vi è stato un ricovero in ospedale psichiatrico da cui si potrebbe desumere che egli sia uno dei cosiddetti idiot savant, persone con alterato stato mentale in grado  di vedere e capire cose che ai cosiddetti normali sono interdette, come ad esempio parlare con i morti. Ma siamo sicuri che il ricovero in ospedale psichiatrico fosse giustificato? Forse no se consideriamo che il secondo ricovero di questo tipo cui viene sottoposto lo scrittore è motivato dall'avere egli riferito alla polizia eventi realmente avvenuti cui però nessuno crede. Avati ci chiede quindi di valutare con attenzione prima di applicare etichette di integrità o malattia mentale, come anche di innocenza o colpevolezza. Pensiamo infatti alle popolane che applaudono il plotone militare dopo l'ingiusta fucilazione di Glauco, sullo stile delle tricoteuses della rivoluzione francese, manifestazione che ricorda con chiarezza il sollievo per l'uccisione del. capro espiatorio, non importa se colpevole o innocente, che, come ricorda René Girard, riporta l'equilibrio e quindi il sollievo, all'interno del gruppo sociale. Nel finale assistiamo ad un ulteriore richiamo al rapporto fra mondo dei vivi e mondo dei morti: la casa nel delta del Po si trova infatti in una sorta di mondo di mezzo, là dove le acque del fiume si mescolano con quelle del mare e "gli aironi parlano con gli angeli", a significare appunto ancora una volta la contiguità fra vivi e morti. I film si chiude a questo punto lasciandoci due messaggi che riassumono in metafora quella che Edgar Morin ha definito l'aventure de la vie: incertezza (non sapremo mai se Barbara in effetti sia viva e si trovi in quella casa) e minaccia, nelle vesti di un ghignante Emilio (Roberto De Francesco), fratello del povero Glauco ingiustamente fucilato. Con questo finale Avati ci dice infatti che nella vita non si può mai esser certi di trovare ciò che cerchiamo ed al contempo che siamo perennemente sotto la spada di Damocle di una minaccia che ci attende dietro l'angolo.  
 

giovedì 6 marzo 2025

"A real pain", Jesse Eisenberg (2024)

Il dolore ("pain") è il nucleo centrale della narrazione in questo film, un dolore evocato spesso e con toni e coloriture emotive diverse. Va inoltre definito quale sia il vero ("real") dolore.

David (Jesse Eisenberg) e Benji (Kieran Culkin), primi cugini ebrei americani, sono totalmente agli antipodi: mentre il primo è tanto metodico da sconfinare nella nevrosi (e in effetti assume farmaci per un problema ossessivo-compulsivo) il secondo sembra vivere la vita in modo spensierato, senza orari e programmi e con zero organizzazione. Peraltro, questa coppia improbabile è saldamente unita grazie ai legami famigliari ed anche grazie al fatto che l'uno vorrebbe essere un po' come l'altro e viceversa. Il loro legame è quindi dovuto anche ad una sorta di invidia, intesa nel senso buono del termine. Quando la loro adorata nonna Dory muore, lascia un gruzzoletto da destinare loro per un viaggio della memoria in Polonia, nei luoghi di origine e di sofferenza della famiglia e nel corso di questo viaggio, intrapreso insieme ad un piccolo gruppo di persone accomunate da storie famigliari dolorose, emergono le diverse sensibilità individuali nei confronti del dolore. Benji ad esempio non sopporta che parte del viaggio in Polonia si svolga in vagoni di prima classe poiché i suoi famigliari avevano percorso gli stessi itinerari stipati in carri-bestiame senza cibo né acqua. Ecco che il dolore morale e fisico dei deportati si traduce nel dolore morale di Benji. E ancora, egli trova intollerabile che nel cimitero di Lublino, di fronte alla più vecchia lapide mortuaria della Polonia la guida del gruppo si perda in descrizioni storiche invece di raccogliersi nella dolorosa memoria di chi vi è sepolto, facendone testimonianza con un tocco materiale: un sasso posato sulla lapide in segno di ricordo. E che dire di David? Dietro la sua nevrosi si cela un malessere che emerge con chiarezza durante un monologo in presenza dei compagni di viaggio. In questa occasione egli riconosce le sue angosce e preoccupazioni legate al mantenere il lavoro, far crescere il figlio e tenere unita la famiglia, il tutto in una realtà complessa come quella di New York. Queste angosce sono per lui ancor più dolorose e difficili da tollerare e da esprimere perché gli sembrano cose da nulla se paragonate a quanto hanno sofferto i suoi famigliari nei campi di sterminio. E un'altra fonte di dolore per David è proprio Benji che, nonostante l'apparente allegria, sei mesi prima aveva tentato il suicidio. A David sembra ingiusto avere un lavoro, una famiglia ed una casa mentre il cugino non ha lavoro, vive ancora con la madre e arriva a tentare di togliersi la vita. Questo sentimento di ingiustizia ricorda il dolore di alcuni sopravvissuti alla Shoah che ritenevano ingiusto essere ancora vivi mentre tanti loro amici e parenti erano deceduti nei campi di sterminio. 
Volendo fare un bilancio di sofferenza fra David e Benji, ne emerge che il secondo indubbiamente soffre di più, come dimostra anche metaforicamente il grosso zaino che si porta sulle spalle paragonato al bagaglio agevole di David. Un'ulteriore conferma la troviamo nella sequenza finale. David e Benji sono sbarcati dall'aereo che li ha riportati a New York, David invita Benji a cena ma lui declina l'invito perchè, dice, mi piace stare qui, è pieno di gente fuori di testa. Segue un lungo primo piano del volto di Benji che guarda la gente seduta nella sala d'aspetto intorno a lui, cercando a tratti di abbozzare un sorriso che subito si spegne. Questa sequenza, che da sola merita il film, ci fa capire quale è il vero dolore, quello di vivere. 

sabato 22 febbraio 2025

"In the Mood for Love", Wong Kar-wai (2000)

La Signora Chan (Maggie Cheung) ed il Signor Chow (Tony Leung Chiu-wai) fanno casualmente conoscenza avendo affittato a Hong Kong con i rispettivi coniugi due stanze contigue nello stesso edificio. I coniugi intrecciano una relazione sentimentale di cui i due protagonisti si accorgono nel corso della narrazione; ne deriva lo sviluppo di una relazione fra i due la cui natura non è facile da definire. Verrebbe da pensare che il tutto preluda allo sviluppo di un rapporto sentimentale, ma con grande abilità il regista fa sì che questa ipotesi rimanga non provata; a volte si ha anche la sensazione che Chan e Chow provino una sorta di vergogna per l'attrazione che provano l'uno per l'altra poichè è conseguenza di un atto illecito, il tradimento operato dai rispettivi coniugi (il poster a fianco è molto eloquente al riguardo). Seguiamo quindi lo svolgersi di questo rapporto, facilitato dalla condivisione di interessi come la lettura e la scrittura, il tutto descritto con grande delicatezza fra sguardi e silenzi, in contrasto con la confusione che regna nell'edificio dove i due vivono. Un dettaglio di non poco conto sul piano estetico, ma non solo, è rappresentato dalla bellezza ed eleganza dei Cheongsam indossati dalla protagonista che contrastano nettamente con lo squallore del quartiere e dell'edificio in cui si svolge la narrazione, come per sottolineare ulteriormente la delicatezza della storia di Chan e Chow. Verso la fine del film i due protagonisti attraversano una serie di vicende che in un modo o nell’altro impediscono loro di incontrarsi, il tutto in modo casuale, come se il regista volesse introdurre nella vicenda anche la mano del destino che scompiglia le carte in modo imprevedibile. Nel finale Chow si reca in Cambogia dove lo vediamo visitare i templi di Angkor-Wat. In questo sito che evoca il passato, una voce narrante esprime i suoi pensieri: Egli ricorda quegli anni svaniti. Come se visto attraverso una finestra impolverata, il passato è qualcosa che egli poteva vedere ma non toccare. E tutto ciò che vede è sfumato e indistinto”. È da questa bella metafora del passato che emerge nella narrazione un aspetto nuovo, vale a dire l'irrimediabilità di ciò che è avvenuto (vedere ma non toccare), l'impossibilità di correggere azioni o omissioni compiute, un rimpianto dei più gravi fra quelli che affliggono gli esseri umani. 
"In the Mood for Love" è un film fuori tempo (in senso positivo) sia ora che 25 anni fa quando uscì nelle sale, un film che si basa più sul non detto che sul detto, che predilige sia inquadrature insolite che possono ricordare quelle predilette da Ozu sia il soffermarsi su dettagli apparentemente privi di significato (un paio di ciabattine, la mano di Chan sullo stipite della porta) nello stile di Rohmer. Una cinematografia insomma che non esiste più, ma che possiamo ancora apprezzare e per fortuna non in modo sfumato e indistinto.