mercoledì 19 novembre 2025

“I colori del tempo”, Cédric Klapisch (2025)

L’uso che facciamo del tempo, questo il tema del film di Klapisch. Il titolo originale La venue de l’avenir è molto più significativo di quello italiano, che ha però il vantaggio di essere molto accattivante e correlato al frequente riferimento alla pittura presente nel film. "L’avvento dell’avvenire" (traduzione letterale che però lascia aperta la possibilità di una suggestiva interpretazione fonetica: l’avenue de l’avenir ossia il viale dell'avvenire) ci introduce infatti al tema, mettendo in relazione diretta passato e futuro. Fin dall’inizio lo cogliamo nelle parole di uno dei personaggi, Céline (Julia Planton) che, parlando di come vede questa relazione, propone due possibilità: flusso continuo dal passato al futuro (ecco appunto il viale) o rottura netta fra i due, dichiarandosi apertamente favorevole alla seconda, in questo chiaramente influenzata dalla sua professione aperta al nuovo che la porta a passare dal computer al cellulare senza posa. Agli antipodi Guy (Vincent Macaigne), apicoltore incapace di usare un cellulare di vent’anni fa, che rabbrividisce all’idea di trasformare la vecchia casa di campagna in Normandia di cui entrambi (insieme a parecchi altri personaggi) sono eredi in un centro commerciale con parcheggio da 3.000 auto. Le simpatie del regista vanno chiaramente a favore dell’apicoltore, a confermarlo basta guardare i titoli di coda, e non si può non essere d'accordo: il passato è una chiara risorsa per progettare il futuro, se dimenticassimo il passato non riusciremmo neanche a trovare la via di casa. Ma, come in tutte le cose umane il passato ha anche un aspetto negativo, è anche un vincolo che può essere molto tenace. Un esempio attuale è rappresentato dalle vicende in corso a Gaza: un bambino palestinese che ha avuto la famiglia sterminata dalle bombe israeliane o un genitore israeliano che ha avuto il neonato massacrato il 7 ottobre 2023 saranno per tutta la vita influenzati da questo passato che può solo portare ad un odio fra i due popoli destinato purtroppo ad essere trasmesso alle generazioni future. 

Klapitsch ci parla però anche del presente, stigmatizzando l’egocentrismo che caratterizza i nostri tempi, in scena fin dall'inizio (geniale) con i visitatori al museo de l’Orangerie di Parigi che si scattano sorridenti i selfie di fronte ai quadri ma soprattutto dalla modella Leslie (Cassandra Cano) che, fotografata davanti alle ninfee di Claude Monet, desidera essere il centro dell’immagine quasi annullando il quadro che le fa da sfondo o ancora dai pubblicitari che in post-produzione vogliono cambiare la tonalità dei colori delle ninfee per essere in armonia con l’abito della modella. E anche qui Klapitsch non nasconde il suo pensiero contrapponendo alla modella la figura di Rose (Raïka Hazanavicius) che invece teme di sminuire lo sfondo della vecchia Parigi quando viene ripresa mentre canta le sue canzoni. 

Ed eccoci arrivati alla fine senza aver nemmeno tentato di riassumere la trama, ma va bene così, a questa infatti, pur non essendo particolarmente complessa, non rende giustizia il racconto verbale o scritto, molto meglio vedere il film tenendo ben presente la “sospensione dell’incredulità” proposta da Coleridge ai primi dell’800, necessaria per apprezzare ogni favola che, seppure inverosimile, ci aiuta a capire il mondo.

 

sabato 15 novembre 2025

"Cinque secondi", Paolo Virzì (2025)

Adriano (Valerio Mastandea), una volta titolare di un prestigioso studio legale, vive solitario in affitto nelle scuderie ristrutturate di una villa abbandonata nella campagna toscana. Il suo desiderio è di evitare nel modo più assoluto i contatti con altri esseri umani (esige addirittura che il postino firmi le raccomandate pur di non incontrarlo). L’unica persona che accetta di vedere è una ex socia, Giuliana (Valeria Tedeschi), che mantiene i suoi contatti con il mondo. È facile quindi capire che l'arrivo di un gruppo di giovani chiassosi decisi ad installarsi nella villa e a rimettere artigianalmente in opera la vigna accanto alle ex-scuderie è per lui inizialmente un vero e proprio “tsunami”; nel tempo però vediamo Adriano farsi sempre più vicino ai ragazzi fino a difenderli quando la polizia cerca di sgomberare la villa. 

L'analisi di questo film corre su due linee principali. Da un lato l'aspetto umano, cioè la figura di Adriano, che ha voluto ritirarsi dal mondo, oppresso dall'evento più tragico che possa avvenire ad un padre e cioè la morte per annegamento della figlia (affetta da una grave malattia degenerativa cerebrale), aggravato dall'essere accusato per questa vicenda di omicidio colposo e vedere per sovrappiù nel banco dell'accusa l'ex moglie ed il figlio. Adriano non teme un'eventuale condanna, anzi vuole essere punito, cerca in questo modo una redenzione per una colpa che però non è quella di cui viene accusato in tribunale. Egli si ritiene colpevole di aver aspettato volutamente i 5 secondi del titolo prima di soccorrere la figlia per ragioni che chi ha visto il film conosce, ragioni che la legge non è in grado di giudicare, o che può giudicare in astratto in base ai suoi codici; chi giudica in questo caso è il singolo spettatore che il regista chiama in causa. E quindi capiamo perché, sempre per redimere la colpa che lo opprime, Adriano manifesta un attaccamento quasi morboso ad una dei giovani, Matilde (Galatea Bellugi), che egli vede come se fosse una sua figlia e cerca di tutelarla in ogni modo, giungendo ad aiutarla a far nascere la bambina che essa portava in grembo, come se il portare alla luce una vita potesse compensare la colpa che riteneva di portare sulle spalle. Che le cose stiano così lo capiamo nell'inquadratura finale che vede Adriano guidare verso il sole nascente all'uscita dall'ospedale dove aveva portato Matilde e la neonata, a testimoniare una sua rinascita dopo il periodo di esilio volontario.

Il secondo aspetto riguarda il rapporto dell'umanità con la natura ed è imperniato sull'allegro, se vogliamo fin troppo allegro, gruppo di ragazzi. Questa raffigurazione oleografica in stile New Age può sembrare sopra le righe ma in realtà è funzionale alla narrazione. Vediamo infatti che, nonostante l’apparente goliardica uguaglianza, il gruppo ha in realtà un capo e un capo anche piuttosto severo; si tratta di Matilde, forse non a caso discendente della nobile famiglia che in passato possedeva la villa. Cade quindi il mito dell’allegra uguaglianza, seguito a ruota dal mito del ritorno idilliaco alla natura poiché il vino prodotto artigianalmente pestando (sempre allegramente) l’uva con i piedi risulta imbevibile. Infine, Matilde, nemica della modernità e quindi dei medici e degli ospedali, vuole a tutti i costi partorire nella villa con l’aiuto di Adriano il quale però si trova costretto a portare di forza lei e la neonata in ospedale per il rischio che entrambe perdano la vita. Tutto ciò significa un richiamo alla moderazione, al non ritenere che, se è vero che il rispetto per la Natura e la tutela dell’ambiente sono sacrosanti, ciò non significa che sia opportuno tornare a vivere come nel Neolitico, periodo storico nel quale tra l’altro dubito che non esistessero i capi. 



sabato 8 novembre 2025

“A house of dynamite”, Kathryn Bigelow (2025)

Un missile partito da un luogo sconosciuto e diretto verso gli Stati Uniti viene avvistato dalle centrali militari americane addette a scrutare mare ed cielo per avvistare attacchi nemici. Mentre all’inizio l’evento viene ritenuto un innocuo test, ben presto appare chiaro dalla traiettoria che l'obiettivo è una delle più grandi città americane, Chicago, con 10.000.000 di morti da mettere in conto in caso attacco nucleare. A questo punto entriamo nel cuore del film della Bigelow che, attraverso una tecnica di montaggio ben nota, ci mostra con sequenze consecutive come lo stesso evento viene vissuto dal punto di vista di militari, politici, analisti. Ed è proprio questo il problema principale che Bigelow vuole sottolineare, non le interessa chi ha lanciato il missile perché non vuole attribuire la responsabilità del lancio al solito “cattivo”, che siano i nord-coreani, i cinesi o i russi né le interessa se Chicago verrà distrutta o no. Il messaggio del film è diverso, è quello di dimostrare come l’umanità ha costruito la “Casa di dinamite” del titolo, cioè un mondo pieno di arsenali nucleari in grado di distruggere il pianeta, avendo però una capacità di controllo del tutto inadeguata, nonostante l’utilizzo di tecnologie non disponibili in passato (vedi il richiamo alla battaglia di Gettysburg). E questa capacità manca, ci spiega Bigelow, a causa del fattore umano, per definizione imprevedibile e portato a decidere, come ben sanno gli psicologi, più in base all'emozione che alla ragione. E quindi vediamo Jake (Gabriel Basso), una colomba che si batte per non dar luogo ad una rappresaglia, che prende questa decisione non per razionalità ma perché non vuole mettere in pericolo la moglie incinta. E poi il ministro della difesa Baker (Jared Harris), che nell’impossibilità di far fuggire la figlia che abita proprio a Chicago si suicida, il maggiore Gonzalez (Anthony Ramos) che all’apice della crisi crolla e abbandona la sua postazione di importanza cruciale in una base militare in Alaska perché la sua donna lo ha lasciato. Ed infine Potus (Idris Elba), nome convenzionale dei presidenti degli Stati Uniti, che confessa all’attendente che lo accompagna ovunque con la valigetta contenente il necessario per autorizzare un attacco nucleare, di essere totalmente impreparato a prendere questa decisione e quindi di non avere la minima idea di cosa fare. L’unico che rimane fermo sulle sue posizioni è il generale Brady (Tracy Letts) che difende tenacemente l’ipotesi della rappresaglia. E qui il pensiero va a Stanley Kubrick ed al suo “Il dottor Stranamore” (1964) in cui regnano sovrane l’irrazionalità e l’aggressività, in particolare nella figura del generale Jack D. Ripper (non a caso “ripper" significa in inglese “sventratore”) che si inventa un attacco russo contro l’America per iniziare una guerra nucleare con la Russia. Eravamo allora in piena guerra fredda ed il film era apertamente satirico, ora la guerra fredda è finita, ma questo film ci spiega come i pericoli siano forse maggiori di allora e per di più lo fa senza alcuna satira.

 

venerdì 24 ottobre 2025

"Le città di pianura”, Francesco Sossai (2025)

Carlobianchi (Sergio Romano) e Doriano (Pierpaolo Capovilla) vivono perennemente on the road per le vie del Veneto a bordo di una vecchia Jaguar “S-type” un po’ malconcia, ricordo di un passato truffaldino economicamente florido. Il loro girovagare non è però casuale, essi sono alla perenne ricerca per bar, trattorie, night club dell’ultimo bicchiere (una volta lo si definiva "il bicchiere della staffa”) che però non è mai l’ultimo perché ce n'è sempre un altro che lo segue. Del tutto casualmente una  notte incontrano Giulio, giovane e timido studente di Architettura e, nonostante le sue rimostranze, lo caricano in macchina e lo coinvolgono, proprio lui così metodico e ordinato, nella loro vita vagabonda. Nel corso di questa scorribanda Giulio berrà abbondantemente, dormirà molto poco, imparerà a mentire vendendosi come architetto e perderà la verginità.

Il tema principale di questo film è il rimpianto del passato, passato che riaffiora nei racconti di Carlobianchi e Doriano, arricchiti da flash back e venati di nostalgia, racconti che ci fanno capire come l’esigenza dei due sia in definitiva di dimenticare il passato e non pensare al futuro attraverso l’ossessiva ricerca del mitico ultimo bicchiere. Ma aldilà della nostalgia del passato individuale dei due protagonisti, il film è permeato dalla nostalgia generale di un tempo che non c’è più, un tempo in cui la pianura non era costellata dalle cittadine del titolo di cui il regista ci mostra scorrere attraverso i finestrini dell’auto le orrende case. E gli affreschi della villa in cui Giulio si finge architetto mostrano un paesaggio ideale che unisce i monti al mare attraverso una pianura priva di costruzioni. Sempre a questo proposito, quando i tre si recano a visitare il memoriale Brioni, che la memoria involontaria aveva proustianamente evocato alla mente di Giulio alla vista di due cerchi intrecciati lasciati sulla tovaglia da due bicchieri, questi ricorda ai due compagni che Carlo Scarpa, artefice del memoriale, si era fatto seppellire in piedi, come i samurai, su un rialzo per godere della vista della pianura fino al mare, vista che ora appunto gli sarebbe preclusa dalle case di pianura.

Oltre al tema della nostalgia e del rimpianto quest’opera è anche un romanzo di formazione, la formazione di Giulio che alla fine della vicenda, quando sale sul treno per andare a Verona da Giulia, compagna di corso che amava senza mai averlo confessato, ci appare tranquillo e sicuro di sé e possiamo scommettere che le dichiarerà il suo amore senza problemi. È questo un chiaro esempio delle metamorfosi che la vita ci impone attraverso i nostri contatti con l’Altro, proprio quel All that changes you che Isaac Julien ritrae nella sua videoinstallazione attualmente in mostra al palazzo Te di Mantova. E la scena in cui Carlobianchi e Doriano si affiancano al treno dove viaggia Giulio, sbracciandosi dal finestrino per salutarlo, sottolinea la differenza che si è creata fra il loro mondo ed il suo. Egli infatti guarda davanti a sé e pensa con sicurezza al futuro che lo aspetta, senza accorgersi dei due che gli scorrono a fianco urlando il suo nome, chiusi in un presente senza futuro, se non per il santo Graal dell’ultimo bicchiere.    


domenica 19 ottobre 2025

"Un crimine imperfetto”, Franck Dubosc (2024)


Diretto, sceneggiato (insieme a Sarah Kaminski) ed interpretato da Franck Dubosc, questo film rientra nella categoria "humor nero”, alla quale i fratelli Cohen hanno contribuito in modo importante con le loro opere. È però sbagliato, come è stato fatto, paragonare sprezzantemente questo film a quelli di Joel e Ethan. Questi ultimi sono infatti caratterizzati da una marcata (e ben riuscita) sfumatura intellettuale che ne contorna i significati, sfumatura arricchita da aspetti umoristici. Il film di Dubosc è invece tutt’altra cosa poiché di intellettuale non c’è assolutamente niente, ma in effetti non ci vuole essere niente, l'intento dell'opera è semplicemente di divertire lo spettatore (e ci riesce)

Ciò detto, è però vero che di significati di cui parlare, in particolare di tipo etico/legale, questo film sicuramente ne ha. In sintesi, Michel (Franck Dubosc) e Cathy (Laure Calami), due coniugi cui ormai è rimasto poco da dirsi, vivono insieme per abitudine insieme al figlio autistico Dominique detto Dou Dou (Timéo Mahaut) gestendo una coltivazione di abeti in un paesino sperduto nei monti del Giura. Michel, per schivare un grosso orso, colpisce con la sua un’altra automobile ferma che, a causa dell'urto, investe a sua volta il passeggero fermo di fianco alla macchina causandone la morte; il guidatore del mezzo investito, alla vista dell'accaduto, scivola sulla neve, cade e muore trafitto dal ramo di un albero. Nel baule della macchina i due coniugi trovano una borsa contenente una grossa somma di denaro e decidono di tenerla per sé, procedendo ad un (maldestro) tentativo di occultamento dei due cadaveri. La narrazione poi porta alla graduale scoperta da parte del commissario Roland (Benoît Poelvoorde) di come si sono svolti in effetti i fatti ed infine alla condivisione del malloppo fra tutti i personaggi, in pratica quasi tutta la popolazione del paesino. Come ciliegina sulla torta l'happy ending comprende anche una ritrovata armonia coniugale fra Michel e Cathy. Tutto bene e tutti contenti quindi, i cattivi morti e i buoni ricchi e rasserenati, ma non mancano le questioni di cui discutere.

Un primo punto è la responsabilità di Michel nella morte del passeggero. Se è vero che in effetti egli aveva perso il controllo della sua macchina perché si era trovato davanti un orso, pur sempre di omicidio si tratta, anche se colposo. Il guidatore invece ha fatto tutto da solo e si tratta di una morte accidentale con la quale Michel non ha avuto a che fare. Abbiamo poi un altro problema che questa volta coinvolge entrambi i coniugi: occultamento di cadaveri e si potrebbe forse ipotizzare anche il vilipendio di cadaveri, avendoli cosparsi di miele nella speranza che l'orso si rifaccia vivo e li divori, senza peraltro alcun successo. L’omicidio del sicario spedito a recuperare il denaro raffigura un caso di legittima difesa, come pure l’uccisione del commerciante di droga da parte di Dou Dou poiché nel prima caso era a serio rischio la vita del commissario e nel secondo quella di Cathy, si tratta quindi di atti moralmente e legalmente accettabili. Forse il problema più difficile da risolvere è se sia moralmente accettabile tenersi il gruzzolo trovato in macchina (che apprendiamo essere il frutto di commercio di droga ed esseri umani); in altre parole se sia lecito rubare ad un ladro il frutto dei suoi furti. Se non risultassero eredi, non essendovi prove della provenienza illegittima del gruzzolo ed essendo comunque per di più impossibile rendere la refurtiva ai legittimi proprietari, potrebbe essere eticamente accettabile che il denaro vada a chi lo ha trovato. Tanti problemi quindi evoca questo film; forse il modo migliore di risolverli è dare la colpa all'orso che ha innescato la cascata di eventi, come può suggerire il titolo originale "Un Ours dans le Jura". 

lunedì 13 ottobre 2025

“Una battaglia dopo l’altra”, Paul Thomas Anderson (2025)


La pace per Paul Thomas Anderson non esiste. Il mondo che raffigura nel suo film, con una crudezza a tratti eccessiva, è infatti caratterizzato da una eterna guerra fra le forze del Bene (rivoluzionarie e progressiste) e quelle del Male (establishment reazionario). Nel film le battaglie fra queste due forze si susseguono in effetti attraverso le generazioni, dai genitori di Perfidia (Deyana Taylor) a lei stessa ed al compagno Pat (Leonardo Di Caprio) fino alla figlia Charlene (Chase Infiniti). Dalla parte della reazione troneggia invece il capitano Steven J. Lockjaw (Sean Penn in una grande interpretazione), impegnato a combattere immigranti, latini, neri e via dicendo, in pratica tutti coloro che non sono wasp
Ma non tutti i ribelli sono uguali. Perfidia in apparenza personifica la ribellione dura e pura, è lei che decide come muoversi nell’organizzare attentati ed è lei che abbandona la piccola Charlene ed il compagno Pat perché mette se stessa e la lotta al sistema al primo posto. Ma il suo nome nasconde il suo destino: catturata da Lockjaw due volte, la seconda, per sfuggire ad una lunga detenzione, tradisce i compagni del gruppo estremista French 75 di cui fa parte, causando la decimazione del gruppo stesso nonché l’ingresso in clandestinità di Pat e Charlene che cambiano nome rispettivamente in Bob e Willa. Alla fine però, con una giravolta inaspettata scrive alla figlia una lettera struggente di scuse e rimpianti per non aver svolto il suo compito di madre. Pat/Bob è invece un uomo incerto e pieno di dubbi, non del tutto a suo agio nella lotta, ma attentissimo alla figlia Charlene/Willa (il fatto che per buona parte del film indossi una vestaglia da camera già lo identifica come un casalingo) la quale invece è molto simile alla madre, tanto che tiene testa al cattivissimo capitano Lockjaw e ben presto lascia il padre per dedicarsi alla lotta armata.
Il contraltare dei ribelli è il capitano Lockjaw. La traduzione letterale di questo cognome è “serra-mascella” o "mascella serrata” e questo è proprio l’aspetto che Sean Penn dà al personaggio per sottolinearne la durezza nello svolgere i suoi compiti di repressione senza il minimo segno di umanità.
La dura ribelle e il duro repressore però, in occasione del primo arresto di Perfidia, hanno un rapporto sessuale apparentemente coercitivo (Perfidia accetta il rapporto in cambio della libertà), ma resta aperta la possibilità che essa abbia gradito la cosa anche perché un coinvolgimento sessuale fra i due sembra emergere già dal loro primo incontro all’inizio del film. Dal rapporto nasce Charlene/Willa ed è questo il motivo per cui Lockjaw verrà eliminato da un sicario della società segreta di ultradestra “I Pionieri del Natale” cui voleva affiliarsi; fare sesso con persone non bianche e per di più mettere al mondo un meticcio e per di più ancora negare il tutto era infatti considerato da questa società di suprematisti bianchi un atto imperdonabile.
La domanda da porsi in conclusione è se Anderson abbia ritratto un mondo potenzialmente reale o solo immaginario. Purtroppo la prima ipotesi potrebbe essere vera. La situazione politica negli Stati Uniti durante l’attuale presidenza è infatti caratterizzata da una spaccatura nella società sempre più profonda, con l’identificazione degli avversari politici come veri e propri nemici da combattere senza esitazione. E c’è solo da augurarsi che il risultato non sia quello ritratto in un altro recente film, “Civil War” (Alex Garland, 2024), nel quale proprio questa radicalizzazione esita appunto in una vera e propria guerra civile.

venerdì 26 settembre 2025

"Highest 2 Lowest”, Spike Lee (2025)

David King (Denzel Washington) è un produttore musicale newyorkese di grande successo; peraltro, alcune sue recenti scelte finanziarie rischiano di mettere in pericolo l’impero economico che ha costruito dal nulla, provenendo dai ghetti del Bronx. A queste difficoltà si aggiunge il rapimento del figlio Trey (Aubrey Joseph) per il quale viene chiesto un riscatto molto sostanzioso; ma i rapitori hanno preso per errore un amico di Trey, Kyle (Elijah Wright), figlio a sua volta di uno strettissimo collaboratore ed amico di David, Paul Cristopher (Jeffrey Wright). E qui nasce il problema su cui fa principalmente perno il film: deve David pagare per il figlio dell’amico rischiando il disastro economico poiché i suoi creditori esigono il rientro di una cifra molto elevata entro due sole settimane? O può rifiutarsi di pagare mettendo a rischio la vita del figlio di un caro amico e rischiando anche di essere crocifisso sui social con conseguenze potenzialmente disastrose per il suo lavoro?
Indubbiamente Spike Lee ha seguito nella sua carriera una traiettoria di cui questo film rappresenta un nuovo punto, dalle prime opere come “Fai la cosa giusta” (1989) caratterizzate da una visione del mondo in cui esistono solo il bianco e il nero (sia metaforicamente che letteralmente) ad una visione ironica se non addirittura umoristica del problema razziale, come in “Blackkklansman” (2018) per approdare a questo film in cui il suo interesse segue una traccia che si distacca da quelle abituali su razzismo, droga, violenza. 
Tornando alla trama, per quanto riguarda il dilemma etico se pagare o non pagare il riscatto per Kyle, David lo risolve seguendo il cuore, e quindi pagando, dopodiché, in perfetto American style, armi in pugno e lasciata da parte la polizia (che peraltro ignora la traccia da lui proposta) va a caccia del rapitore insieme all’amico Paul. La caccia si risolve positivamente ed il rapitore risulta essere un giovane rapper, in arte Yung Felon (Rakim Atelaston Mayers), arrabbiato per non essere mai riuscito a raggiungere David e proporgli le sue creazioni musicali. Da qui il titolo del film: David è al più alto (highest) gradino della scala nel mondo della musica, mentre Felon è al più basso (lowest).
Ed eccoci alle conclusioni: 1) Il rapitore finisce in galera, ma lo vediamo osannato da una folla di  giovani all’ingresso in tribunale, da cui si ricava che grande è la confusione sotto il cielo (Mao Tse Tung) per quanto riguarda i valori morali, 2) David decide di ripartire con una nuova etichetta musicale ed ingaggia allo scopo una cantante amica di Trey, da cui si ricava che se sei amico della persona giusta entri nello show business, se non conosci nessuno rimani invece in cantina, se ti va bene, o in galera, come il rapitore, se ti va male. Emerge quindi con chiarezza il netto divario che Spike Lee evidenzia fra chi può e chi non può (il tutto indipendentemente dal colore della pelle), dimostrandoci come in un apparente happy ending si nasconda fra le righe molta amarezza.