martedì 16 settembre 2025

"The Brutalist", Brady Corbet (2024)

Il protagonista del film, l'architetto László Thot (Adrien Brody), non è mai esistito, non stiamo quindi parlando di un biopic ma di un'opera di fiction vera e propria. Peraltro non mancano gli esempi di architetti ebrei fuggiti dalla Germania in America negli anni '40, un nome per tutti quello di Marcel Breuer, allievo di Walter Gropius e realizzatore del museo Whitney di New York e, non a caso, della sedia Wassily che vediamo nel film come creazione di Toth.

Due sono i temi che l'opera principalmente affronta: la difficile condizione degli immigrati e la complessità del rapporto fra committente ed esecutore di un'opera d'arte cui si correla il tema della libertà di espressione del secondo. 

Già all’inizio del film, l'immagine (vedi il poster a fianco) che riproduce la statua della Libertà capovolta ed obliqua così come la vede Toth al suo tanto atteso arrivo negli Stati Uniti ci dice che la vita in America non sarà per lui per nulla facile e così in effetti avviene. Inizialmente accolto con gioia dal cugino Attila (Alessandro Nivola), viene in seguito rapidamente allontanato per un problema di lavoro di cui non era in realtà responsabile e con l'accusa (falsa) di averci voluto provare con la moglie di Attila, Audrey (Emma Laird). In seguito inizia il lungo rapporto con il miliardario Harrison van Buren (Guy Pearce), personaggio molto instabile sul piano psicologico, il quale gli affida la costruzione di una sorta di mausoleo in onore della madre, da adibire alla fruizione del pubblico. I lavori si svolgono con difficoltà per il cozzare degli interessi fra committente (che vuole risparmiare) ed esecutore (che non tollera modifiche al suo progetto). L’apice della crisi viene raggiunto durante un viaggio a Carrara per scegliere del marmo per il mausoleo, nel corso del quale si verifica un episodio (a mio modo di vedere non ben comprensibile) di aggressione sessuale da parte di van Buren nei confronti di Toth. L’episodio, in seguito platealmente sottolineato dalla moglie dell’architetto, Erzsébet (Felicity Jones), di fronte a tutta la famiglia van Buren, determina non solo la chiusura definitiva del rapporto fra i due, ma anche l'inspiegata scomparsa di Harrison. 

Il film si chiude con il trionfo professionale di Toth, anziano e in sedia a rotelle, celebrato alla Biennale dell’Architettura di Venezia, dove la nipote Zsófia (Raffey Cassidy) pronuncia un breve discorso esplicativo dei motivi alla base dell’opera di Toth, in particolare influenzata dalla permanenza nel campo di concentramento di Buchenwald. E la chiosa del discorso è una frase che Szófia attribuisce allo zio Non lasciarti ingannare da nessuno Szófia, non importa cosa gli altri cerchino di venderti, è la destinazione che conta non il viaggio. Ma siamo sicuri che sia veramente così? Se il viaggio di Toth non fosse passato da Buchenwald avrebbe potuto egli costruire gli edifici per cui è poi diventato famoso? Il viaggio in realtà è il processo formativo che porta al risultato cioè alla destinazione, quindi la frase deve essere letta al contrario.

venerdì 12 settembre 2025

“Itaca - il Ritorno”, Uberto Pasolini (2025)

Oggetto di questo film sono gli ultimi 12 dei 24 libri dell’Odissea, dedicati al ritorno di Ulisse in patria dopo vent’anni di assenza a causa della guerra di Troia. La trama è ben nota e non vale la pena di soffermarvisi, ciò che è interessante nel film è l’analisi psicologica che il regista fa, operando alcune modifiche rispetto al testo omerico, dei tre principali personaggi: Ulisse (Ralph Fiennes), Penelope (Juliette Binoche) e il loro figlio Telemaco (Charlie Plummer).

Ulisse si presenta stanco e vecchio, sembra quasi del tutto privo della volontà di riprendere il suo posto come re dell’isola, una carica minacciata, come lo informa il pastore Eumeo (Claudio Santamaria), dalle pretese dei Proci. Certo, dopo essere passato attraverso le avventure menzionate dal V al XII libro dell’Odissea non lo si può biasimare, ma probabilmente c’è qualcosa di più della stanchezza, c’è il timore di non avere la capacità morale e fisica di svolgere questo compito, come se la guerra a Troia ed il ritorno in patria avessero esaurito una volta per tutte le sue risorse. Ed in effetti prima di decidere di iniziare l’impresa passa del tempo; probabilmente lo stimolo decisivo ad entrare in azione gli viene dall’assistere allo spettacolo dei Proci che bivaccano nel palazzo come volgari invasori, pretendendo in modo piò o meno aggressivo la mano di Penelope. 

Penelope, appunto; per tutta la narrazione la vediamo in preda a un dubbio: continuare ad attendere il marito, nella parte della sposa fedele, o accettare le profferte di matrimonio di qualcuno dei Proci, sacrificando la fedeltà coniugale al benessere di Itaca? L’isola, in assenza di un re, era in effetti andata incontro ad un progressivo e grave decadimento. Come noto, grazie al trucco del telaio, ella prenderà tempo, ma l’ansia di non sapere per certo quale sia il ruolo da scegliere è in lei ben evidente, anche perché il figlio Telemaco insiste affinché sposi uno dei Proci e riporti Itaca al suo splendore.

Telemaco in effetti non nasconde un'avversione nei confronti della figura del padre, lo accusa infatti apertamente nei colloqui con la madre di essersi assentato per vent’anni per combattere una guerra inutile, portando con sé la miglior gioventù dell’isola a morire a Troia. Tutto ciò fa pensare che Telemaco fosse preda di un complesso di Edipo e che volesse quindi far scomparire la figura del padre, far sposare alla madre un pretendente che certo non avrebbe mai amato e tenere quindi per sé tutto il suo affetto.

Ed alla fine, come noto, Ulisse si svela, ma come si svela? Da un lato dimostrando la sua prestanza ed abilità nel combattimento quando riesce a tendere il suo arco e a far passare la freccia attraverso l’occhiello di 12 asce in serie e dall’altro descrivendo correttamente a Penelope il talamo nuziale. Il messaggio sottinteso è quindi chiaro: il re, per essere tale, deve essere capace sia di combattere che di procreare, doti che gli permettono di perseguire il suo destino di mantenere e far prosperare la propria terra.

giovedì 4 settembre 2025

"A complete Unknown”, James Mangold (2024)

Robert Zimmerman, alias Bob Dylan, è il "Completo Sconosciuto" del titolo di questo film. Perché questo titolo, tratto da una strofa della celeberrima "Like a Rolling Stone"? Lo capiamo nel corso della narrazione, assistendo alle multiple e variabili sfaccettature della personalità di Dylan (Timothée Chalamet). All’inizio lo vediamo giungere a New York da Minneapolis con uno zaino e una chitarra al solo scopo di conoscere il suo idolo, Woody Guthrie (Scoot McNairy) gravemente malato in un letto di ospedale. Le cose poi cambiano poiché lo vediamo dimostrare scarso interesse ed empatia per chi lo circonda, in particolare per le donne con cui intrattiene relazioni e soprattutto con Sylvie (Elle Fanning) ed infine assume prese di posizione autoreferenziali come la decisione di esibirsi nel 1965 con una chitarra elettrica al festival di Newport, tempio della tradizionale musica folk, creando grande scandalo. Da questo punto di vista è illuminante il breve colloquio che si svolge fra Dylan e Bobby Neuwirth (Will Harrison), anch'egli musicista, in ascensore all'uscita da un evento privato dove Bob si era brevemente esibito. Qui egli commenta che ognuno dei presenti all'evento avrebbe voluto che lui fosse qualcun altro e che si f*****o e lo lascino essere, con un giuoco di parole intraducibile: "let me be" significa infatti sia "lasciarmi stare" che "lasciarmi essere", al che Neuwirth ribatte e chi dovrebbero lasciarti essere? e Dylan risponde non lo so, ma loro senz'altro lo sanno. Ecco che quindi Dylan risulta uno sconosciuto anche a se stesso, addossando ai suoi fan la scelta di decidere chi egli sia. E la peculiarità del carattere di Dylan è ulteriormente esaltata dal costante raffronto con quello di Pete Seeger (Edward Norton) che rimane sempre uguale a se stesso nella vita, sia sul piano artistico e di impegno sociale che sul piano famigliare. 
Todd Haynes nel 2007 aveva già descritto Dylan nel film "Io non sono qui” attraverso le vicende di sei personaggi che ne illustrano le sfaccettature del carattere e dell'opera, creando un biopic molto originale, contrariamente al presente che è costruito secondo i canoni abituali per questo tipo di narrazione. E forse non è un caso che entrambi i film abbiano un titolo in negativo (non sono qui e non conosciuto) proprio a sottolineare la difficoltà di descrivere Dylan. 
Per persone della mia età questo film è molto godibile anche solo per la colonna sonora che ci riporta ai tempi della nostra gioventù, ma è anche fonte di sconforto se consideriamo che, nonostante le energie spese allora con grande ottimismo per cambiare in meglio il mondo, con buona pace di Voltaire ci troviamo oggi a vivere in un mondo ancora più stupido e crudele di allora. 
 

domenica 25 maggio 2025

"Il quadro rubato", Pascal Bonitzer (2024)

L'argomento non è nuovo, pensiamo ad esempio a "Woman in gold" (Simon Curtis, 2015). Bonitzer lo affronta però nel suo film da una prospettiva originale e cioè quella dell'effetto che il ritrovamento di un quadro sottratto produce in vari soggetti, in diverso modo interessati al caso.

André Masson lavora in un'importante casa d'aste, Scottie's, ovvia parafrasi di Christie's, ed è abituato ad aver a che fare con opere di grande livello (nelle sequenze iniziali lo vediamo trattare un Degas: "La Tinozza", 1886). Disincantato e cinico, strettamente legato agli status symbol (guida una Aston Martin ed ha una collezione di orologi preziosi), gli viene assegnata una stagista taciturna ed introversa, Aurore (Louise Chevillotte) afflitta da gravi problemi famigliari, con la quale non tarda ad entrare in conflitto. Insieme alla ex moglie Bertina (Léa Drucker) egli assume l'incarico di gestire una preziosissima opera di Egon Schiele, “I Girasoli”, reperita casualmente da un operaio chimico, Martin Keller (Arcadi Radeff), nella casa acquistata 5 anni prima. In questa cornice si inseriscono anche gli eredi del quadro, risparmiato da un addetto della Wehrmacht al rogo destinato dai nazisti alla cosiddetta “arte degenerata”, una famiglia ebrea emigrata in America rappresentata da uno dei 9 fratelli, Bob Whalberg (Doug Rand).

André vede nella possibilità di mettere all’asta il quadro un punto di svolta decisivo nella sua carriera e si muove quindi in modo da sfruttarla appieno. Al contrario Martin, giovane e candido, non vuole saperne di avanzare alcun diritto poichè non vuole aver a che fare con un’opera che “gronda sangue”. A metà strada gli Whalberg, molto facoltosi, che desiderano avere il quadro per motivi affettivi e sono disposti a cedere il 10% del ricavo a Martin come ringraziamento, indipendentemente dalla cifra ricavata, tant’è che si apprestano a cederlo per 8 M di euro al primo offerente, in base ad una stima basata su un falso expertise. Avvertito da Aurore del tentativo truffaldino, André convince Bob a non accettare l’offerta ed il quadro andrà venduto in asta da Scottie’s per 25 M di euro.

E alla fine cosa succede a questi personaggi dopo la vendita del quadro? Martin si limita a comperare una casa per la madre e continua il suo lavoro di operaio chimico notturno senza dire nulla a colleghi ed amici per non cambiare il suo stile di vita. Ad André viene offerta una promozione dal capo di Scottie’s, ma egli la rifiuta per iniziare una carriera autonoma nel mercato dell’arte insieme a Bertina ed Aurore (che ha risolto i suoi problemi famigliari) con la quale si è riconciliato, desideroso di conquistare la libertà chiudendo con un lavoro da dipendente sempre in balia delle decisioni di un superiore. E gli Whalberg se ne tornano a New York con il loro quadro dopo un ricevimento in onore di un emozionatissimo Martin. Un curioso happy ending per un film ambientato nel mercato dell’arte in cui di happy nei rapporti interpersonali abbiamo visto esservi ben poco.

 

sabato 10 maggio 2025

“Black bag”, Steven Soderbergh (2025)

George Woodhouse (Michael Fassbender) è un uomo glaciale, raziocinate e (apparentemente) sempre in controllo. Queste doti gli sono molti utili nel suo lavoro alla NCSC, branca dei servizi di intelligence britannici dedicata alla cyber-sicurezza. George ha due passioni, la cucina cui si dedica con attenzione maniacale e la pesca che, lui dice, lo aiuta a concentrarsi. Sono due passioni metaforiche poiché nel suo lavoro egli deve analizzare e combinare vari fattori, come gli elementi di una ricetta, per giungere ad identificare (e quindi a “pescare") le talpe che inevitabilmente si annidano nei servizi di intelligence. E il rischio sempre presente che egli corre di incappare in false piste è sottolineato dalla metafora degli occhiali che gli si appannano per il vapore mentre cucina. Ma è possibile che George non abbia un tallone di Achille, un punto debole che incrini il suo algido raziocinio? Ebbene questo punto debole esiste ed è sua moglie Kathryn (Cate Blanchett) alla quale è talmente legato (e ricambiato) da non aver voluto figli che si intromettessero nel loro rapporto. Sfortunatamente Kathryn lavora anch’essa all’NCSC, il che porta con sé il rischio di un conflitto di interessi. Per ovviare a questo rischio i due hanno coniato l’espressione black bag con la quale si riferiscono a questioni che non devono essere discusse fra di loro. 
Partendo da queste premesse Soderbergh e l’autore della sceneggiatura originale, David Koepp, sviluppano la narrazione, basata sulla ricerca di una talpa all’interno del NCSC che cerca di vendere a servizi segreti di altre nazioni un potente malware, nome in gergo “Severus", in grado di causare la fusione del nocciolo delle centrali nucleari con conseguenze evidentemente terrificanti. La rosa dei candidati fra cui George deve identificare la talpa comprende cinque soggetti, uno dei quali è sfortunatamente Kathryn.   
Il film può essere incluso nella categoria delle spy-stories, ma è decisamente atipico rispetto alla media di questi prodotti, basti pensare che in 93 minuti di narrazione assistiamo ad un solo colpo di pistola e alla esplosione di una sola automobile. Il motivo è che l’interesse è in primis legato ai rapporti interpersonali, da una parte quello fra Kathryn e George, solido come una roccia e dall’altra quelli degli altri 4 candidati che intrecciano fra di loro relazioni amorose assai volubili. E la differenza è il matrimonio, che lega i primi in due, implicando un legame (teoricamente) più saldo di una semplice relazione più o meno fugace. 
Per svolgere il suo compito George organizza due cene, una all’inizio del film, allo scopo di studiare i candidati per definire il loro possibile ruolo ed una alla fine per indicare a tutti la talpa (in stile Agatha Christie). Fra queste due cene egli svolge le sue indagini che per forza di cose coinvolgono, separatamente rispetto agli altri, anche la moglie. Ed è qui che per l’unica volta nel film George perde la sua impassibilità, vale a dire quando durante una riunione rischia seriamente di emergere la possibilità che Kathryn sia la talpa. In questa occasione, durante una inquadratura di qualche secondo Fassbender perde l’abituale espressione glaciale per dimostrare con un cambio di mimica tanto fugace quanto magistrale il terrore che attanaglia George. 
Il problema di fondo che caratterizza il film è quindi se George si troverà a dover scegliere fra l’amore per la moglie e l’amor di patria; dovrà egli affrontare questa scelta? E se sì, sceglierà Kathryn o la patria? 

lunedì 21 aprile 2025

“La Gazza ladra”, Robert Guédiguian (2024)

Maria (Ariane Ascaride) ha tre passioni: le ostriche, la musica e il nipote Nicolas (Thorvald Sonnengaard), anch’egli musicista appassionato, al quale essa paga l’affitto del pianoforte e le lezioni di piano. Inoltre, insieme al marito Bruno (Gérard Meylan) aveva acquistato una casa vista mare con piscinetta a l’Estaque, periferia di Marsiglia. Mettendo insieme tutto ciò e in più la passione di Bruno per il giuoco d’azzardo si capisce facilmente come il bilancio famigliare sia tutt’altro che brillante, considerato anche che Maria si guadagna da vivere assistendo persone anziane a domicilio e Bruno riceve una misera pensione. Per far quadrare i conti Maria pensa quindi di fare delle piccole “creste" sulle spese che fa per conto dei suoi assistiti e non proprio piccole perché noleggio del piano e lezioni sono piuttosto care. A fare le spese di tutto ciò è prevalentemente il signor Moreau (Jean-Pierre Darroussin), solo, paraplegico e con un unico figlio con cui ha rapporti rari e poco felici, che sente per Maria un profondo affetto, come del resto tutti coloro che ella assiste. Questa situazione entra in crisi nel momento in cui le creste di Maria vengono scoperte e a questo punto la storia prende un andamento non più lineare, ma complesso e variegato, che ricorda l’andamento del "pensiero rizomatico” di Gilles Deleuze. In questo modo il regista ha modo di mettere in scena una serie di comportamenti e situazioni che riflettono quanto si verifica ogni giorno nella "Comédie humaine”, il tutto reso in modo fortemente empatico, tanto da poter forse evocare un'accusa (che non condivido) di melensaggine, in particolare dagli amanti del riduzionismo cinematografico
I sentimenti dei vari personaggi sono quindi espressi senza sottintesi, ad esempio il rimpianto di Maria nel guardare la foto del matrimonio o quello di Moreau  per le immagini del figlio bambino, il colpo di fulmine che colpisce il figlio di Moreau, Laurent (Grégoire Leprince-ringuet), e la figlia di Maria, Jennifer (Marilou Assilloux), la diversa reazione di fronte a questo evento della moglie di Laurent, (Lola Naymark), vendicativa,  e del marito di Jennifer, Kevin (Robinson Stévenin), che nulla obietta purché la moglie sia felice e gli rimanga amica. E ancora, come cambia il comportamento di Laurent, prima freddo manipolatore nei confronti del padre e poi pronto a perdere tutto pur di seguire Jennifer.
Ci si potrebbe a questo punto chiedere se con questo film si vogliano sdoganare comportamenti come rubare, lavorare in nero (Bruno ha una misera pensione perché così ha svolto la sua attività lavorativa) o tradire la moglie. Non credo che il regista intendesse emettere giudizi in merito alle azioni dei suoi personaggi, il suo scopo era semplicemente di farci vedere come gli esseri umani si comportano nel bene e nel male nella vita di tutti i giorni. Trattandosi di cinema e non di un tribunale, la decisione in merito a cosa sia comprensibile o lecito e cosa no non sarà affidata alla rigidità della Legge, ma alla flessibile sensibilità del singolo spettatore. 

 

sabato 29 marzo 2025

"The Alto Knights: i due volti del crimine", Barry Levinson (2025)

Frank Costello e Vito Genovese (Robert De Niro), figli di immigrati italiani, sono cresciuti insieme agli inizi del ‘900 nel Lower East Side di Manhattan ed insieme hanno iniziato la loro carriera nell'ambito della malavita organizzata. L'accordo che li aveva da sempre legati si va sfilacciando nel tempo fino a rompersi del tutto quando Vito è costretto ad assentarsi dagli Stati Uniti per evitare l'arresto e, causa il sopravvenire della seconda guerra mondiale, non può ritornarvi prima di 15 anni. Al suo ritorno egli reclama il suo posto di boss della malavita che però Costello non è ben disposto a cedergli.
Una volta tanto il titolo italiano riesce a rendere bene la sostanza del film, il cui svolgersi è diverso dai ganster movies cui siamo abituati, a partire da "La Furia umana" (Raoul Walsh, 1949) con il grande James Cagney, uno spezzone del quale compare non a caso nel corso del film. Il regista pone infatti l'accento più che sulle azioni criminali, sulla diversità con cui il male si manifesta in queste due persone, dimostrando come in effetti questo possa essere non così banale rispetto a come lo ha descritto Hannah Arendt. La narrazione è quindi basata prevalentemente sul parlato più che sull’azione e questo permette sia allo spettatore di “entrare” nella psicologia dei due soggetti che a De Niro di dimostrare la sua bravura nell’interpretare due parti così diverse. Sì perché Costello e Genovese sono agli antipodi, tanto il primo è cauto nel muoversi e preferisce basare la sua azione su trame ordite dietro le quinte utilizzando preferibilmente corruzione e ricatto, quanto il secondo è impulsivo e portato a ricorrere senza esitazione alla violenza il che, a causa degli spunti paranoici del suo carattere, lo porta inevitabilmente ad eccedere. Fanno da contorno a queste personalità drasticamente diverse le due mogli, altrettanto diverse: quieta e razionale Bobbie Costello (Debra Messing), nevrotica ed esplosiva Anna Genovese (Katherine Narducci) ed una serie di compari dai nomi ben noti, Albert Anastasia (Michael Rispoli) e Carlo Gambino (James Ciccone) per citarne due ben conosciuti, personaggi stereotipati che si muovono sempre in accordo con il loro boss, sia esso Costello o Genovese. 
In conclusione, il male può presentarsi con diverse facce; il rischio cui bisogna stare molto attenti è che la sua faccia quieta (Costello) possa ispirare simpatia a confronto di quella violenta (Genovese), mentre in realtà sono entrambe pericolose, con la prima che, seppur in apparenza più tranquillizzante, può essere per questo più difficile da identificare.