lunedì 18 novembre 2024

“Giurato numero 2”, Clint Eastwood (2024)

Justin Kemp (Nicholas Hoult) giornalista in Savannah (Georgia), ex-alcolista, viene convocato come giurato in un processo per l’omicidio di una giovane, Kendall Carter (Francesca Eastwood) di cui è accusato James Sythe (Gabriel Basso) con cui ella aveva una relazione burrascosa. Justin accetta malvolentieri l'incarico essendo sua moglie Allison (Zohey Deutch) alla fine di una gravidanza a rischio. Preoccupazione ed ansia aumentano poi nel corso del processo poiché Justin si rende presto conto di poter essere stato implicato nel caso di omicidio che è stato chiamato a giudicare e qui ci dobbiamo fermare per evitare uno spoiling. 

Tre aspetti ci guidano nell’analisi di questo film: la statua della giustizia che nella sequenza di apertura si presenta con la bilancia squilibrata, il nome di Justin che richiama “justice” (giustizia) e quello del pubblico ministero: Faith (Toni Collette) che significa fede, fiducia, lealtà. E questo perché due sono i problemi che Eastwood solleva: 1) Esiste la possibilità di una vera giustizia? 2) Può un essere umano sacrificare in modo irreversibile se stesso e quanto gli è più caro per far sì che giustizia venga fatta? All’inizio del film Faith è ben convinta che una vera giustizia esista, tant’è che ricorda ad Eric (Chris Messina), suo compagno di corso e avvocato difensore d’ufficio di Sythe, l'aforisma di un loro professore La giustizia è verità in azione e persegue la sua accusa con vigore anche perché, essendo candidata alla carica di procuratore distrettuale, sa bene che una vittoria le garantirebbe il successo alle elezioni. Ma in seguito, valutando la documentazione ottenuta da Harold, un giurato ex poliziotto (J.K. Simmons), inizia a nutrire dubbi sulla effettiva colpevolezza del giovane e si trova a dover decidere fra il successo alle elezioni, garantito dalla condanna di Sythe e la fedeltà (nome omen) al suo mandato ed alla regola aristotelica (Politica III) La legge è ragione senza passione. Ma anche Harold ha dovuto fare la sua scelta. Come giurato infatti non doveva svolgere indagini per suo conto ed invece, fedele al giuramento fatto come poliziotto, ha deciso di procedere per conto suo e per questo verrà allontanato dalla giuria. Ed infine Justin è chiamato alla scelta più difficile: farsi avanti e dire ciò che sa, rischiando grosso per il suo futuro e per quello della sua famiglia o stare zitto e lasciare che un probabile innocente vada all’ergastolo? All’inizio egli sceglie una via di mezzo, cioè cerca di convincere i giurati che le prove della colpevolezza di Sythe non sono adeguate e in questa fase il film ricorda (volutamente, come dichiarato dall’autore dello script J. Abrams in una intervista a GQ) “La parola alla giuria” (William Friedkin, 1997) nello svelare per ogni giurato colpevolista i motivi extragiudiziali che ne influenzano il parere. Ma rendendosi conto di non riuscire a convincere tutti i giurati, Justin cambierà tattica e si adatterà al giudizio della maggioranza. 

Torniamo ai due problemi sollevati dal regista e menzionati in apertura. Al primo, se sia possibile una vera giustizia, la risposta del film è no. D’altro canto, come sottolinea nel finale Eric, al sistema attuale non vi sono alternative migliori (almeno per quel che riguarda il sistema giudiziario americano, va aggiunto). Al secondo, se si debba sacrificare tutto se stesso e la propria famiglia per far trionfare la giustizia, Justin risponde no, contraddicendo l’imperativo categorico di Kant Agisci secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga legge universale. Ma calato nella realtà di Justin questo imperativo risulta ben difficile da seguire e se ci mettiamo nei suoi panni, come Eastwood con la collaborazione di Hoult riesce magistralmente a realizzare, dare una risposta al problema è difficile, se non impossibile. Difficile sì, ma, seppure in condizioni diverse da Nicholas, Faith, come ci mostra l’ultima scena, decide di adeguarsi a Kant e di tener fede al suo nome.


 

giovedì 24 ottobre 2024

“Joker: folie à deux”, Todd Phillips (2024)

Dopo l’arresto avvenuto in “Joker" (2019, Todd Phillips) Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) è stato chiuso in carcere ad Arkham e qui lo ritroviamo in questo film, in attesa di processo per gli omicidi compiuti. La narrazione ruota intorno ad un aspetto prevalente del suo disturbo psichiatrico e cioè il disturbo di personalità multipla, come già evidente dal cartoon che apre il film dove appare la sua ombra che si svincola da lui a forza e commette una serie di pessime azioni delle quali però è alla fine Arthur a pagare lo scotto. In chiave psicoanalitica Joker rappresenta, secondo il canone di Gustav Jung, il Doppelgänger di Arthur, l’aspetto negativo della personalità che esprime ciò che la coscienza non può o non vuole far affiorare. Perchè in Arthur compare questo scomodo compagno? I motivi nella storia della sua infanzia infelice, caratterizzata da maltrattamenti ed abusi di ogni genere, non mancano, ma forse quello che prevale è la sua sensazione di rappresentare un totale fallimento, un individuo che non è nulla nel mondo materiale, un invisibile. Ed infatti egli cerca l’attenzione e l’apprezzamento altrui raccontando storie umoristiche che però non fanno assolutamente ridere, evocando un ennesimo fallimento cui fa eco la sua risata terrificante che si tramuta in urlo di rabbia e dolore. Grazie al suo Doppelgänger Arthur riesce invece a realizzare il suo desiderio di fama ed attenzione, come già visto nel film precedente, riuscendo a personificare la rabbia feroce di tutti coloro che vivono ai margini della società. Ma il problema di Arthur si disvela nel corso della narrazione ed appare evidente durante la folle arringa che recita in sua difesa in tribunale: egli vuole liberarsi di Joker ed essere se stesso assumendo le sue responsabilità, ma non ci riesce, un po' come il buon Dr Jekill che a un certo punto non riesce più a liberarsi del malvagio Mr Hyde. Arthur non riesce a far prevalere la sua personalità anche perchè ormai è Joker a predominare come vediamo con chiarezza nell’incontro con Harley Quinn (Lady Gaga), nel cui nome risuona il malvagio Hellequin, leader della caccia selvaggia della mitologia nordica, nella cella di isolamento in cui Arthur è rinchiuso. Harley infatti porta con sé il necessario per truccarlo da Joker perchè è lui che essa vuole, lui rappresenta per Harley l’immaginazione, la fantasia, l’intrattenimento (lo dice chiaramente in una delle canzoni che accompagnano il film), Arthur non le interessa e lo dichiara esplicitamente più tardi, nel colloquio sulla famosa scala che porta a casa Fleck. Ancora un fallimento per Arthur che non riesce nemmeno a salire tutta la scala da cui era disceso danzando nel 2019 non raggiungendo quindi il cielo finalmente azzurro (per tutto il film piove) poiché viene ricacciato nel grigio di Arkham dalla polizia. Ed eccoci al finale, tema del quale è chi sarà l’erede di Joker: sarà il figlio del quale Harley Quinn (peraltro mentitrice spudorata) aveva precedentemente accennato di essere in attesa o il detenuto che pone fine alla vicenda e che vediamo a margine dell’immagine tagliarsi gli angoli della bocca per riprodurre il sorriso di Joker? 

lunedì 14 ottobre 2024

“Vermiglio”, Maura Delpero (2024)

La famiglia Graziadei ci viene presentata all’inizio della narrazione come una delle tante famiglie rurali italiane (siamo in una sperduta frazione del Trentino) verso la fine della Seconda Guerra Mondiale: tanti figli, difficoltà economiche, padre-padrone che dirige severamente l’andazzo famigliare, con atteggiamento da semidio che richiede obbedienza indiscussa. Gradualmente però e con l’aiuto dei dialoghi che si svolgono fra le  tre sorelle Ada (Rachele Potrich), Lucia (Martina Scrinzi) e Flavia (Anna Thaler) nel lettone in cui passano le notti insieme, veniamo a scoprire che sotto la patina di questo ambiente stereotipato da piccolo mondo antico ribollono passioni insospettate che coinvolgono buona parte della famiglia. Il padre-padrone (Tommaso Ragno), in apparenza integerrimo, nasconde un album di fotografie pornografiche, la figlia Ada lacerata fra autoerotismo e possibile attrazione verso Agata, la ribelle del paese, da un lato  e l'esigenza di autosomministrarsi punizioni disgustose per questi suoi peccati dall'altro, Lucia che rimane incinta di un soldato siciliano (Giuseppe De Domenico) che i Graziadei nascondono dai tedeschi e lo sposa per poi scoprire che questi era già sposato quando si saprà che è stato ucciso dalla prima moglie, con la conseguenza che Lucia dovrà dare in adozione il figlioletto. Infine il figlio Dino (Patrick Gardener), unico che osa ribellarsi apertamente al padre ed annega le sue frustrazioni in un bicchiere di vino. Solo una figura, apparentemente in retroguardia per tutto il film, rappresenta l'elemento di stabilità della famiglia: la madre (Roberta Rovelli) che, seppure massacrata da una decina di gravidanze con il correlato di neonati che non riescono a sopravvivere, mantiene lucidamente le redini dell’organizzazione famigliare e addirittura osa rimproverare al marito l’acquisto di dischi costosi quando ella stessa fatica a far quadrare il bilancio famigliare. E quanto suona melensa la risposta di quest’ultimo: ”La musica è il cibo dell’anima”..., quando è stato proprio lui a negare ad Ada per motivi economici, nonostante il parere contrario della moglie, la possibilità di continuare gli studi, cosa che la ragazza ardentemente desiderava. La madre è quindi il punto di equilibrio della famiglia e non a caso tocca a lei porre la parola fine alle vicende famigliari cui abbiamo assistito quando nella splendida scena finale del film la vediamo rassettare la stanza con il lettone dove avevano dormito Ada, Lucia e Flavia, accarezzare furtivamente la coperta sul letto e chiudere le finestre e la porta facendo calare il buio nella stanza, a significare che ciò che doveva avvenire è avvenuto ed ora bisogna riprendere in mano le redini della famiglia e guardare al futuro.

venerdì 27 settembre 2024

"Campo di battaglia", Gianni Amelio (2024)

Quale è il campo di battaglia di cui ci parla Amelio in questo film? È forse uno dei tanti campi in cui si è combattuto nel corso della Prima Guerra Mondiale, verso la fine della quale si svolge la narrazione? Ebbene no, il campo di battaglia è un ospedale militare del Friuli Venezia Giulia dove si combatte per due visioni opposte del modo di praticare la professione di medico e di concepire il valore della vita. Da una parte il capitano medico Stefano (Gabriel Montesi), discendente di una importante e ricca famiglia, strenuo difensore del senso del dovere e quindi convinto di dover a tutti i costi rimandare al fronte i feriti che giornalmente giungono dai campi di battaglia veri e propri, convinto che la maggior parte di essi siano dei simulatori procuratisi le lesioni per sfuggire alla guerra. Dall'altra Giulio, ufficiale medico del cui passato conosciamo solo l'amicizia d'infanzia con Stefano, che arriva a procurare, con il loro consenso e di nascosto durante la notte, lesioni anche gravi ai soldati per assecondare il loro desiderio di non tornare al fronte. Entrambi sono innamorati della stessa donna, Anna (Federica Rosellini), infermiera che non ha potuto proseguire gli studi per diventare medico.  

La decisione fra obbedire al dovere e tutelare la vita, seppure a prezzo di menomazioni, non è certo facile e presenta sfumature soggettive che giustamente Amelio registra nel presentarci un soldato che, invece di voler evitare ad ogni costo il ritorno alla guerra, chiede con insistenza di essere rimandato al fronte perché i suoi commilitoni sono la sua famiglia. Un giudizio fra queste due opzioni non viene quindi espresso. Ciò che ci mostra con chiarezza il film è che la visione rigida di Stefano, ligio al dovere, gli permette di vivere e lavorare se non tranquillo (la sua preoccupazione è l'epidemia di spagnola che inizia a diffondersi e rischia dal suo punto di vista non tanto di mietere vite umane, ma di sottrarre carne da cannone ai generali) almeno senza nutrire dubbi. La visione umanitaria di Giulio lo porta invece a dubitare delle sue azioni, soprattutto dopo che un soldato cui egli aveva procurato lesioni oculari per risparmiargli il fronte viene per questo fucilato come traditore. Nella scena della fucilazione è ben visibile la scritta "Per la Patria e per l’Umanità”, ispirata alla concezione mazziniana dei doveri dell’uomo, concezione cui si ispira Stefano nel compiere il suo lavoro. I dubbi di Giulio diventano sempre più pressanti dopo questo episodio e certo non lo aiuta il trasferimento in un forte dove sono ricoverati i soldati affetti dalla spagnola. A questo punto il carico emotivo diviene per lui intollerabile fino a rendergli impossibile continuare a vivere, nonostante la vicinanza di Anna.  

“Campo di battaglia” non è un film di guerra, ma un film sulla guerra, cioè sugli effetti che questa evoca in chi la vive, effetti che in definitiva sono una amplificazione nel singolo individuo di idee e concetti, frutto della genetica e dell’ambiente, già in esso presenti. 

sabato 24 agosto 2024

"Civil War", Alex Garland (2024)

 

Gli Stati Uniti d'America sono in preda ad una guerra fra stati dell'occidente e governo federale. Due fotografe, Jessie Cullen (Cailee Spaeny) giovane alle prime armi, e Lee Smith (Kirsten Dunst) famosa ed esperta fotografa di guerra, e due giornalisti, Joel (Wagner Moura) e Sammy (Stephen McKinley Henderson), decidono di recarsi da New York a Washington D.C. per tentare di ottenere un'intervista in esclusiva dal Presidente. Garland utilizza la narrazione di questo viaggio che si svolge in una terra devastata dalla guerra per sviluppare due tematiche. La più evidente è il rischio cui anche una grande democrazia si espone nel momento in cui si verifica una polarizzazione eccessiva del dibattito politico, con conseguente spaccatura in due del paese, incapacità di dialogo fra i due poli opposti, mutazione dello status dell'avversario politico a nemico da combattere fino alla morte. Tema questo estremamente attuale in un momento in cui la polarizzazione sembra essere il minimo comun denominatore di tante democrazie da entrambe le parti dell'Atlantico. Il secondo tema, di carattere più personale, riguarda il percorso di formazione della giovane Jessie sotto la tutela dei colleghi più anziani.  È interessante in particolare vedere il mutamento che interviene con il tempo nell'atteggiamento delle due fotografe. Lee è inizialmente cinica e concentrata esclusivamente sul lavoro, senza pagare la minima attenzione ai drammi che va ritraendo con la sua macchina fotografica. Jessie al contrario non riesce a non vedere il lato umano, la sofferenza di coloro che fotografa e ne è fortemente scossa. Ma più ci si addentra nel contesto bellico più appare evidente che la sicurezza di Lee è di facciata, si capisce da alcuni flashback che gli orrori che ha fotografato nel corso della sua carriera la hanno segnata profondamente fino a provocare una crisi di panico nel momento cruciale dell'ingresso nella Casa Bianca al seguito dei soldati del Fronte Occidentale. Al contrario Jessie diviene sempre meno emotiva e sempre più concentrata nell'ottenere immagini efficaci senza badare all'aspetto umano. Questa inversione di atteggiamenti giunge al suo apice quando, nei corridoi della Casa Bianca e sotto il fuoco incrociato delle parti in lotta, Lee salva la vita di Jessie gettandola a terra e tutto quello che Jessie sa fare in cambio è fotografare da terra Lee che si accascia colpita alle spalle, senza nemmeno tentare di aiutarla. Al termine della vicenda quindi Jessie è diventata una fotografa di guerra formata, ma questo obiettivo è stato raggiunto a discapito della sua umanità.
Le considerazioni che si possono trarre da questo film sono in definitiva esclusivamente negative? Con un piccolo sforzo si potrebbe trovare un qualcosa di non così negativo, vale a dire l'ambientazione di questa guerra negli Stati Uniti, cioè in un paese che fra il 1861 e il 1865 è stato effettivamente preda di una feroce guerra civile (50.000 morti solo nei tre giorni della battaglia di Gettysburg, un dato impressionante se paragonato ad esempio ai 58.000 morti americani nel corso dei vent'anni della guerra in Vietnam). Ebbene nonostante questo macello la nazione è riuscita a rimettersi in piedi diventando la più potente del mondo. Forse Garland ha voluto dirci che anche in una condizione così disperata ed apparentemente priva di vie d'uscita vi possono essere le risorse per rialzare la testa.

    

giovedì 15 agosto 2024

"La Sala Professori", Ilker Çatak (2023)

Una giovane insegnante di una scuola media di Amburgo, Carla Nowac (Leonie Benesch), si rende conto che nel suo istituto si verificano piccoli furti. Decide quindi di procedere a un'indagine personale e, attraverso un video da lei stessa girato, ritiene di aver identificato almeno uno dei responsabili. Il confronto con la sospetta autrice del furto ritratta nel video ed il successivo interessamento delle autorità scolastiche, di alunni e genitori causa un effetto-valanga da cui Carla rimane psicologicamente travolta.
Nel corso della narrazione vengono affrontati alcuni aspetti interessanti ed attuali quali il razzismo strisciante fra gli alunni e l'atteggiamento assurdamente inquisitorio del personale insegnante nei confronti dei rappresentanti di classe, indici di una inadeguatezza formativa dei ragazzi (non certo responsabilità unica della scuola, ma in modo importante anche della famiglia) e di una inadeguatezza del personale scolastico nell'affrontare tematiche piuttosto delicate come quella descritta. Ma un altro aspetto significativo è espresso dal personaggio di Carla. Già dalla telefonata fra lei ed uno sconosciuto interlocutore, che apre il film, emerge un aspetto del suo carattere e cioè la volontà di rappresentare sempre la soluzione e non il problema, di caricarsi di responsabilità e di impegnarsi in prima persona pur di risolvere ogni questione nella giusta maniera. In merito a questo atteggiamento emergono due problemi importanti: la capacità, una volta intrapresa un'azione, di condurla fino in fondo e come si possa definire la giusta maniera per farlo. A prima vista Carla appare sicura di sé, lo si capisce da come cammina decisa e spedita nei corridoi della scuola. Ma quando iniziano le difficoltà, vedi ad esempio durante il difficile colloquio con i genitori, tutta la sua sicurezza crolla, interrompe bruscamente il colloquio e corre in bagno a vomitare. E sulla stessa linea si svolge l'altrettanto difficile intervista con i ragazzi che curano il giornale della scuola. Va detto per completezza che in entrambe le occasioni gli interlocutori non si dimostrano certo amichevoli nei suoi confronti. Cosa ci ha voluto comunicare il regista attraverso il personaggio di Carla? In primo luogo che prima di intraprendere un'azione ci si dovrebbe domandare se si hanno le risorse per portarla a termine. In secondo luogo che non esiste il bianco e nero, ogni situazione ha tante sfaccettature che vanno esaminate prima di prendere una decisione. Non è quindi il caso di ergersi a giudice monocratico in base alle sole proprie opinioni, le decisioni vanno condivise. Carla avrebbe dovuto parlare almeno con la preside prima di girare il video, trattandosi oltretutto di un'azione illecita se i possibili protagonisti non sono preavvertiti ed hanno dato il loro consenso, eccetto ovviamente nelle indagini di polizia. In terzo luogo, mai compiere un'azione senza averne prima soppesato le conseguenze: anche dalle azioni condotte a fin di bene possono infatti scaturire esiti imprevisti e possibilmente negativi, come dimostra il film. In definitiva l'aforisma attribuito al ministro francese Talleyrand (1754-1838) "Surtout pas trop de zèl" (Soprattutto non troppo zelo) è l'avvertimento che Carla avrebbe dovuto tener presente nell'organizzare la sua caccia al ladro. 

domenica 4 agosto 2024

“Utama”, Alejandro Loayza Grisi (2022)

Sisa (Luisa Quispe) e Virginio (José Calcina), anziani coniugi Quechua, vivono in un altipiano delle Ande, isolati nella loro fattoria. La loro fonte di reddito è una mandria di lama che giornalmente Virginio porta a pascolare, mentre Sisa pensa alle faccende domestiche ed a procurare l’acqua, compito quest’ultimo sempre più problematico perché una grave siccità sta trasformando l’altopiano in un arido deserto. Virginio è malato ma non vuole dare ascolto al nipote Clever (Santos Choque) che vorrebbe portare i nonni a vivere in città per poterne aver cura e fornire a Virginio cure adeguate.

“Utama” è un film importante perché attira l’attenzione sul cambiamento climatico e sui disastri irreversibili che la penuria di acqua da esso derivante può comportare. C'è però un altro aspetto altrettanto importante del film che va sottolineato e cioè l’amore, amore che ha diverse sfaccettature. Vediamo il rapporto fra Virginio e Sisa. Egli ha un atteggiamento patriarcale, ma il rapporto fra i due è di una dolcezza commovente ed è soprattutto espresso con maestria con sguardi e gesti semplici come prendersi la mano o scambiarsi una fugace carezza; le parole non servono in questo contesto. E poi l’amore per la propria terra e per le proprie tradizioni, testimoniato dalla incrollabile volontà di Virginio di non andare a vivere in città e farsi curare (non a caso "utama" significa in lingua quechua"la nostra casa"). Vi è poi l'attaccamento alle tradizioni, evidente nel ricorso al sacrificio di animali per implorare l'arrivo della pioggia, nonostante segni evidenti di adesione ad un credo cristiano. L'amore si manifesta anche fra generazioni, ce lo dimostra il nipote Clever che si stabilisce nella casa dei nonni per aiutarli e per cercare di convincere, invano, Virginio a curarsi. Mentre Sisa esprime apertamente l'affetto per il nipote, lo stesso non si può dire di Virginio che inizialmente ha nei suoi riguardi un atteggiamento piuttosto duro, forse perché gli ricorda la decisione di suo figlio di abbandonare l'altopiano per andare a vivere in città. Ma quando viene a sapere che Clever diventerà padre, Virginio gli dimostra a modo suo tutto il suo affetto regalandogli i suoi beni più preziosi: una scatoletta con alcune vecchie foto di famiglia e alcuni frammenti d'oro nonché il suo cappello. Dopo l'incontro con un vecchio condor, ulteriore richiamo alle tradizioni, Virginio muore tranquillo nel sonno e viene seppellito nel piccolo cimitero locale. Il film si chiude come si era aperto: all'inizio infatti avevamo visto l'immagine folgorante, degna di un'opera di Anselm Kiefer, di Virginio che cammina verso uno sfondo montuoso apparentemente infinito ed alla fine lo stesso tipo di inquadratura ci mostra Sisa che conduce al pascolo i lama mentre tuoni rimbombano in cielo. Ed è difficile non pensare che la morte di Virginio possa aver rappresentato l'estremo sacrificio che ha convinto la divinità a far venire la tanto attesa pioggia.