Il film di Mann abbraccia un periodo di due mesi del 1957, forse il peggiore della tormentata vita di Enzo Ferrari, un periodo che inizia e finisce con la morte: inizia con quella di Eugenio Castellotti all’autodromo di Modena il 14 marzo e finisce con quella di 11 persone, fra cui Alfonso de Portago (Gabriel Leone), il suo co-pilota e 9 spettatori di cui 5 bambini, il 12 maggio durante la “Mille Miglia”. Ma non finisce qui, questi mesi terribili erano stati preceduti nel 1956 dal più terribile dei drammi: la morte (sì, ancora lei) per distrofia muscolare del figlio Dino di 24 anni. La morte è quindi protagonista di quest’opera; oltre a quanto detto la sentiamo infatti ripetutamente menzionare da Ferrari quando ricorda gli amici Campari e Borzacchini morti a Monza nel 1933 e quando, durante una conversazione a tavola con i suoi piloti, ricorda loro la necessità di non considerare il rischio di morire durante una corsa e quindi di non frenare mai prima che lo faccia l'avversario. Ragionamento duro e spietato questo, ma la spietatezza sfuma poi nell’umanità quando Ferrari a chi, all’indomani della fatale "Mille Miglia", gli ricorda che il pensiero della morte è costantemente presente nella mente degli esseri umani, egli risponde che sì, è vero, ma ciò non vale per i bambini. Ed il pensiero dei bambini ci riporta al Ferrari-uomo, al suo vivere un’esistenza divisa fra la moglie Laura (Penélope Cruz) e l’amante Lina (Shailene Woodley) che gli ha dato il piccolo Piero (Giuseppe Festinese), un’esistenza che, oltre alle inevitabili crisi di una simile situazione famigliare, è tormentata anche dal pensiero del possibile disastro finanziario che minacciava la Ferrari in quel periodo. Se pensiamo alla filmografia di Mann non possiamo non ricordare a questo proposito il personaggio di un altro suo film, anch'egli tormentato ed in preda ad una crisi esistenziale che travolse lavoro e vita famigliare, il Jeffrey Wigand (Russel Crowe) di “Insider” (1999). Se poi consideriamo anche i protagonisti di “Heat” (1995), anch’essi tormentati dalle scelte imposte da vite private complesse e lavori rischiosi, arriviamo al nocciolo della filosofia filmografica di Mann, e cioè quello di rappresentare con esempi epici, adatti al mezzo cinematografico, e in una prospettiva decisamente pessimista le difficoltà che la vita impone in definitiva a tutti noi esseri umani.
Un’ultima considerazione personale. Sentir menzionare i nomi dei piloti di allora e vederli sfidare la morte in maglietta a maniche corte con una sigaretta in bocca, usando in scioltezza “doppietta” e “punta-tacco” e ricercando la miglior traiettoria con continue correzioni dello sterzo, riporta alla mente, non senza emozione, il romanticismo di quell'epoca.