E’ uno sguardo intenso ed enigmatico e dura tanto quanto basta
per chiedersi che cosa significhi, che pensieri si agitino nella mente di Amy,
quale sia il messaggio che il regista ci vuole trasmettere. Lo sforzo empatico
che istintivamente ed inconsciamente ogni spettatore compie durante la
proiezione di un film per “entrare” nella mente dell’attore in questo caso non
ci fornisce alcun indizio. Solo alla fine del film, quando il regista ci mostra
in chiusura la stessa identica scena, lo spettatore, avendo visto quello che
Amy ha potuto fare nel corso delle narrazione cinematografica, è in grado di
vedere in quegli occhi la capacità di concepire e portare a termine freddamente
atti di indicibile violenza, ed è allora che quello sguardo evoca una paura che
all’inizio non si poteva nemmeno lontanamente immaginare. “E la fine di tutto il nostro esplorare /sarà
l’arrivo là da dove eravamo partiti / e conoscere il posto per la prima volta”;
con queste parole T.S. Eliot nell’ultimo dei suoi quartetti, “Little Gidding”
(1942), rende l’dea, come meglio non è possibile, del circolo cognitivo che ci
porta a capire questa immagine.
In termini strettamente cinematografici questa scena è un
esempio di “effetto Kuleshov”, dal nome del regista russo Lev Kuleshov che per
primo descrisse agli inizi del ‘900 l’effetto sulla percezione di una
determinata scena esercitato da scene precedenti o seguenti. Questo effetto,
tipico del cinema, fa capire l’estrema importanza di una componente dell’arte
cinematografica spesso non adeguatamente apprezzata e cioè il montaggio, un
compito che al di là degli aspetti tecnici richiede spiccate doti di sensibilità
nel capire come la sequenza delle scene possa influenzare la percezione della
narrazione nella sua totalità. Forse è per questa caratteristica che nella
tradizione hollywoodiana la maggior parte degli editor (uso l’inglese perché
montatore o montaggista mi sembrano termini orribili) è di sesso femminile.
Anche la psicoanalisi ha sottolineato l’importanza della
sequenza delle scene in un film, come ad esempio nell’opera di Gilles Deleuze e
Felix Guattari “L’anti-Edipo” (1972) in cui viene proposta una interpretazione
diversa da quella freudiana, riassunta nel termine “Inconscio Produttivo”, in
cui si propone che l’inconscio operi attraverso la produzione di diversi tipi
di sintesi. In termini cinematografici hanno grande importanza le sintesi
connettive, che collegano nella mente dello spettatore gli eventi che si
svolgono sullo schermo fra di loro e con memorie ed esperienze del suo vissuto,
e le sintesi disgiuntive, che legano fra di loro, pur mantenendole distinte, le
singole sintesi connettive in un fluire omogeneo. E’ evidente come il montaggio
possa essere cruciale nello sviluppo di questo processo.
Sempre restando nell’ambito dell’inconscio, questa scena rappresenta
una aperta contraddizione della ben nota relazione fra bello e buono (il “kalos
kai agazos” del Timeo di Platone, 360 a.C.) che istintivamente vorremmo vedere
applicato in ogni situazione, come pure, vista dalla prospettiva archetipica di
Carl Gustav Jung, esemplifica in pieno l’archetipo della “Madre Terribile” (in
termini cinematografici “Dark Lady”), diametralmente opposto a quello
rassicurante della “Grande Madre”.
Per finire, va ricordato di questa scena anche il monologo
interiore del marito, Nick Dunne, mentre accarezza delicatamente i capelli di
Amy: nel momento in cui egli immagina di rompere (per la precisione il termine inglese
è “crack”, che rende ancor meglio di “rompere” l’idea dell’osso fracassato)
quell’adorabile cranio per capire quali pensieri vi alberghino, Nick sottolinea
da un lato uno dei temi principali del film e cioè la virtuale impossibilità di
capire quale sia la vera, intima essenza di una persona al di fuori di quanto
dicono le apparenze, ma dall’altro con queste parole crude avalla la violenza
che ha caratterizzato l’agire di Amy nel corso del film, come se il regista ci
volesse ricordare che in ognuno di noi, non importa quanto “belli e buoni”, la
ferocia è sempre pronta ad erompere incontrollata.
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