sabato 14 maggio 2016

MONEY MONSTER (regia Jodie Foster, anno 2016, 98 minuti)



Lee Gates (George Clooney, perfettamente a suo agio nella parte) è l‘istrionico conduttore di una trasmissione televisiva sul mondo della finanza diretta non agli addetti del settore bensì al “parco buoi”, cioè ai piccoli investitori che vengono indotti da Lee ad acquistare azioni con toni e metodi da avanspettacolo. Lo show pacchiano e volgare di Lee viene però presto interrotto dall’ingresso in studio di Kyle Budwell (il bravo Jack O’Connell) armato di pistola e giubbotto esplosivo, che fa subito indossare a Lee minacciando di farlo esplodere, inferocito per aver perso l’eredità della madre a causa dell’acquisto di titoli consigliati da Lee ed in seguito rivelatisi spazzatura. A questo punto Jodie Foster cambia il registro del film, passando dalla commedia al thriller claustrofobico condito però con digressioni in Africa, Islanda, Corea (il mondo della finanza non ha limiti) per poi giungere significativamente a termine nella Federal Hall di Manhattan, al 26 di Wall Street.
Di questo film non interessa tanto il tema della opacità dei metodi dell’alta finanza (non a caso la ditta che ha causato la rovina di Kyle si chiama “IBIS Clear Capital”, dove “clear” è ovviamente l’opposto di opaco e IBIS ricorda l’uccello del poemetto di Callimaco di Cirene che usava cibarsi di qualsiasi animale) e delle conseguenze che essi possono avere sui piccoli investitori. Fin dai tempi del crack di Lehmann Brothers nel 2008 passando per Indignados spagnoli e Occupy Wall Street americani questo tema è stato già ripetutamente trattato. Più interessante il ruolo dei media e in particolare della televisione. All’inizio del film è complice (involontaria si direbbe) della grande finanza nel turlupinare gli investitori, in seguito, dopo lo shock iniziale dell’arrivo in studio di Kyle, riprende gradualmente l’iniziativa organizzando con grande professionalità uno show sulla vicenda, per prendere alla fine le parti del piccolo investitore contro Walt Camby (Dominic West), amministratore delegato della famigerata IBIS. Certo, ciò avviene con sfumature diverse: mentre la regista dello show Patty Fenn (Julia Roberts), logica e razionale, conduce il divenire imprevisto della trasmissione con mano strettamente professionale, Lee si avvicina gradualmente a Kyle sul piano umano non tanto per una manifestazione della sindrome di Stoccolma quanto a causa della combinazione di due eventi: da un lato la simpatia per Kyle che, oltre ad avere un lavoro sottopagato ed aver perso recentemente sia la madre che la sua eredità nel  giuoco della azioni, ha una compagna (incinta) che, messa in diretta TV dalla polizia nel tentativo di convincerlo ad arrendersi, non esita invece a rovesciargli addosso una montagna di contumelie indicandolo al mondo come il peggiore dei falliti. Dall’altro Lee ha modo di constatare la propria pochezza: tre divorzi e una figlia di cui non sa nemmeno l’età, alimenti da pagare e per di più, quando cerca sempre in diretta di convincere il mondo a porre mano al portafogli ed acquistare azioni della IBIS per rimborsare gli azionisti e soprattutto per salvargli la vita (iniziativa apparentemente geniale del capitalismo finanziario che riesce a rinascere dalle sue ceneri) si rende conto sia di non essere capace di fare il suo mestiere sia che nessuno vuole spendere un centesimo per salvargli la vita. Le due miserie quindi si incontrano.
E che dire del mondo, che fino ad ora abbiamo visto apparire come comprimario delle vicende che si snodano sullo schermo? Anche qui Jodie Foster ha molto da dirci dei tanti mondi che ci mostra: quello dei geni di Internet, gli hacker di Reykjavik e i programmatori di Seul che forniscono alla finanza (ma anche all’informazione) gli strumenti necessari, quello dei minatori sudafricani, povera gente che sciopera non avendo la minima idea che il loro sciopero è manovrato dall’alta finanza per investimenti da centinaia di milioni di dollari (800 per l’esattezza) ed infine quello della gente che guarda la TV, ragazzi, pensionati, casalinghe, broker in giacca e cravatta che a casa o al bar seguono sugli schermi televisivi la vicenda di Lee e Kyle. Quali sono le reazioni di queste persone? Dopo i primi momenti di incredulità, apprensione, preoccupazione scatenate dai colpi d’arma da fuoco sparati nello studio da Kyle, ben presto la vicenda assume agli occhi degli spettatori caratteristiche da reality show, almeno fino all’epilogo. Per qualche secondo allora tutto si ferma, come se finalmente ci si fosse resi conto che quello che si andava dipanando sugli schermi coinvolgeva persone vere, fatte di carne e sangue e dotate di sentimenti ed emozioni. Ma tutto ciò dura appunto solo qualche secondo, gradualmente i giocatori di bigliardino riprendono la loro partita, gli avventori del bar a chiacchierare e a maneggiare i cellulari e la vita riprende il suo corso, come se niente fosse, come se nulla potesse fissarsi nella mente e nell’anima di una umanità apparentemente condannata all’effimero.
E infine, quali sono le motivazioni che hanno spinto il povero Kyle ad organizzare e realizzare la sua impresa? Nel corso del film gli vengono offerti soldi a più riprese sia da Lee che dalla IBIS, ma lui non li vuole, anzi queste proposte lo innervosiscono di più. Quello che vuole lo vedremo verso la fine del film e si tratta semplicemente di una ammissione da parte dell’amministratore delegato di IBIS di aver fatto qualcosa di sbagliato nel manipolare disonestamente i soldi degli investitori, una motivazione disarmante nella sua umana semplicità, in netto contrasto con la lotta per il potere e il denaro che rappresenta l’unica regola di vita nell’ambiente finanziario.  Solo questo voleva Kyle e questo otterrà, per quanto ad un prezzo assai alto.
In chiusura, mentre il ritorno al “business as usual” è confermato dalla trasmissione al telegiornale delle notizie di borsa accompagnate da un vago accenno a indagini in corso sulla IBIS Clear Capital, la regia ci suggerisce l’unica nota positiva del film, e cioè l’inizio di una intesa affettuosa fra Patty e Lee, a significare che solo nei rapporti privati questa umanità riesce ancora ad essere veramente umana.

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