sabato 29 marzo 2025

"The Alto Knights: i due volti del crimine", Barry Levinson (2025)

Frank Costello e Vito Genovese (Robert De Niro), figli di immigrati italiani, sono cresciuti insieme agli inizi del ‘900 nel Lower East Side di Manhattan ed insieme hanno iniziato la loro carriera nell'ambito della malavita organizzata. L'accordo che li aveva da sempre legati si va sfilacciando nel tempo fino a rompersi del tutto quando Vito è costretto ad assentarsi dagli Stati Uniti per evitare l'arresto e, causa il sopravvenire della seconda guerra mondiale, non può ritornarvi prima di 15 anni. Al suo ritorno egli reclama il suo posto di boss della malavita che però Costello non è ben disposto a cedergli.
Una volta tanto il titolo italiano riesce a rendere bene la sostanza del film, il cui svolgersi è diverso dai ganster movies cui siamo abituati, a partire da "La Furia umana" (Raoul Walsh, 1949) con il grande James Cagney, uno spezzone del quale compare non a caso nel corso del film. Il regista pone infatti l'accento più che sulle azioni criminali, sulla diversità con cui il male si manifesta in queste due persone, dimostrando come in effetti questo possa essere non così banale rispetto a come lo ha descritto Hannah Arendt. La narrazione è quindi basata prevalentemente sul parlato più che sull’azione e questo permette sia allo spettatore di “entrare” nella psicologia dei due soggetti che a De Niro di dimostrare la sua bravura nell’interpretare due parti così diverse. Sì perché Costello e Genovese sono agli antipodi, tanto il primo è cauto nel muoversi e preferisce basare la sua azione su trame ordite dietro le quinte utilizzando preferibilmente corruzione e ricatto, quanto il secondo è impulsivo e portato a ricorrere senza esitazione alla violenza il che, a causa degli spunti paranoici del suo carattere, lo porta inevitabilmente ad eccedere. Fanno da contorno a queste personalità drasticamente diverse le due mogli, altrettanto diverse: quieta e razionale Bobbie Costello (Debra Messing), nevrotica ed esplosiva Anna Genovese (Katherine Narducci) ed una serie di compari dai nomi ben noti, Albert Anastasia (Michael Rispoli) e Carlo Gambino (James Ciccone) per citarne due ben conosciuti, personaggi stereotipati che si muovono sempre in accordo con il loro boss, sia esso Costello o Genovese. 
In conclusione, il male può presentarsi con diverse facce; il rischio cui bisogna stare molto attenti è che la sua faccia quieta (Costello) possa ispirare simpatia a confronto di quella violenta (Genovese), mentre in realtà sono entrambe pericolose, con la prima che, seppur in apparenza più tranquillizzante, può essere per questo più difficile da identificare.     

mercoledì 19 marzo 2025

"L'orto americano", Pupi Avanti (2024)

In che categoria si può inquadrare quest'ultimo film di Pupi Avati, tratto dal suo ultimo omonimo romanzo? Lo si vede inserito nell'ambito dei "giallo, thriller, horror" e non si può dire che si tratti di una etichettatura scorretta, visto che certo la suspense non manca. C'è però in questo film ben di più; infatti, oltre all'horror di "La casa con le finestre che ridono"(1976), in questo film Avati ritorna su un altro tema, già affrontato in "Lei mi parla ancora" (2021): il rapporto fra il mondo dei vivi e quello dei morti. 
Protagonista del film è un giovane scrittore (Filippo Scotti) di cui non ci viene reso noto il nome, forse intendendo con questo significare che potrebbe essere ognuno di noi, il quale si innamora perdutamente di un'ausiliaria americana fugacemente vista a Bologna nell'immediato dopoguerra. Trasferitosi per un breve periodo negli Stati Uniti per trovare ispirazione per un nuovo romanzo, si trova come vicina di casa un'anziana signora (Rita Tushingam) che non si rassegna all'idea che la figlia Barbara, ausiliaria dell'esercito dalle cui foto lo scrittore capisce trattarsi della giovane donna vista a Bologna, sia stata data per morta durante la guerra nella zona di Argenta. Iniziamo a questo punto a conoscere meglio lo scrittore ed in particolare la sua capacità di confrontarsi con i morti. Lo vediamo infatti chiedere consiglio ai morti di famiglia le cui fotografie si porta sempre appresso in un album. Inoltre ode lamenti provenienti dall'orto che separa la sua casa da quella dell'anziana signora e scopre che questi provengono da un vaso di vetro ripieno di un liquido opaco, che non riesce ad aprire, dotato di un'etichetta di difficile interpretazione poiché vi sono mescolati versi dell'Epinicio V di Bacchilide con quella che risulta alla fine essere una descrizione dell'effettivo contenuto, vale a dire un verosimile frammento di un corpo umano. Costretto a tornare in Italia per evitare il carcere a causa della violazione di proprietà privata, lo scrittore inizia la sua ricerca di Barbara che lo porta a seguire il processo imbastito contro Glauco (Armando De Ceccon) per l'omicidio di tre giovani donne, e forse anche di Barbara, processo che si concluderà con un'ingiusta sentenza di morte. La sua ricerca, attraverso varie peripezie, lo porterà alla fine in una casa nel delta del Po, dove gli è stato detto esservi una donna che potrebbe sapergli dare notizie di Barbara. E qui il film bruscamente si chiude.
Nella vita del giovane scrittore vi è stato un ricovero in ospedale psichiatrico da cui si potrebbe desumere che egli sia uno dei cosiddetti idiot savant, persone con alterato stato mentale in grado  di vedere e capire cose che ai cosiddetti normali sono interdette, come ad esempio parlare con i morti. Ma siamo sicuri che il ricovero in ospedale psichiatrico fosse giustificato? Forse no se consideriamo che il secondo ricovero di questo tipo cui viene sottoposto lo scrittore è motivato dall'avere egli riferito alla polizia eventi realmente avvenuti cui però nessuno crede. Avati ci chiede quindi di valutare con attenzione prima di applicare etichette di integrità o malattia mentale, come anche di innocenza o colpevolezza. Pensiamo infatti alle popolane che applaudono il plotone militare dopo l'ingiusta fucilazione di Glauco, sullo stile delle tricoteuses della rivoluzione francese, manifestazione che ricorda con chiarezza il sollievo per l'uccisione del. capro espiatorio, non importa se colpevole o innocente, che, come ricorda René Girard, riporta l'equilibrio e quindi il sollievo, all'interno del gruppo sociale. Nel finale assistiamo ad un ulteriore richiamo al rapporto fra mondo dei vivi e mondo dei morti: la casa nel delta del Po si trova infatti in una sorta di mondo di mezzo, là dove le acque del fiume si mescolano con quelle del mare e "gli aironi parlano con gli angeli", a significare appunto ancora una volta la contiguità fra vivi e morti. I film si chiude a questo punto lasciandoci due messaggi che riassumono in metafora quella che Edgar Morin ha definito l'aventure de la vie: incertezza (non sapremo mai se Barbara in effetti sia viva e si trovi in quella casa) e minaccia, nelle vesti di un ghignante Emilio (Roberto De Francesco), fratello del povero Glauco ingiustamente fucilato. Con questo finale Avati ci dice infatti che nella vita non si può mai esser certi di trovare ciò che cerchiamo ed al contempo che siamo perennemente sotto la spada di Damocle di una minaccia che ci attende dietro l'angolo.  
 

giovedì 6 marzo 2025

"A real pain", Jesse Eisenberg (2024)

Il dolore ("pain") è il nucleo centrale della narrazione in questo film, un dolore evocato spesso e con toni e coloriture emotive diverse. Va inoltre definito quale sia il vero ("real") dolore.

David (Jesse Eisenberg) e Benji (Kieran Culkin), primi cugini ebrei americani, sono totalmente agli antipodi: mentre il primo è tanto metodico da sconfinare nella nevrosi (e in effetti assume farmaci per un problema ossessivo-compulsivo) il secondo sembra vivere la vita in modo spensierato, senza orari e programmi e con zero organizzazione. Peraltro, questa coppia improbabile è saldamente unita grazie ai legami famigliari ed anche grazie al fatto che l'uno vorrebbe essere un po' come l'altro e viceversa. Il loro legame è quindi dovuto anche ad una sorta di invidia, intesa nel senso buono del termine. Quando la loro adorata nonna Dory muore, lascia un gruzzoletto da destinare loro per un viaggio della memoria in Polonia, nei luoghi di origine e di sofferenza della famiglia e nel corso di questo viaggio, intrapreso insieme ad un piccolo gruppo di persone accomunate da storie famigliari dolorose, emergono le diverse sensibilità individuali nei confronti del dolore. Benji ad esempio non sopporta che parte del viaggio in Polonia si svolga in vagoni di prima classe poiché i suoi famigliari avevano percorso gli stessi itinerari stipati in carri-bestiame senza cibo né acqua. Ecco che il dolore morale e fisico dei deportati si traduce nel dolore morale di Benji. E ancora, egli trova intollerabile che nel cimitero di Lublino, di fronte alla più vecchia lapide mortuaria della Polonia la guida del gruppo si perda in descrizioni storiche invece di raccogliersi nella dolorosa memoria di chi vi è sepolto, facendone testimonianza con un tocco materiale: un sasso posato sulla lapide in segno di ricordo. E che dire di David? Dietro la sua nevrosi si cela un malessere che emerge con chiarezza durante un monologo in presenza dei compagni di viaggio. In questa occasione egli riconosce le sue angosce e preoccupazioni legate al mantenere il lavoro, far crescere il figlio e tenere unita la famiglia, il tutto in una realtà complessa come quella di New York. Queste angosce sono per lui ancor più dolorose e difficili da tollerare e da esprimere perché gli sembrano cose da nulla se paragonate a quanto hanno sofferto i suoi famigliari nei campi di sterminio. E un'altra fonte di dolore per David è proprio Benji che, nonostante l'apparente allegria, sei mesi prima aveva tentato il suicidio. A David sembra ingiusto avere un lavoro, una famiglia ed una casa mentre il cugino non ha lavoro, vive ancora con la madre e arriva a tentare di togliersi la vita. Questo sentimento di ingiustizia ricorda il dolore di alcuni sopravvissuti alla Shoah che ritenevano ingiusto essere ancora vivi mentre tanti loro amici e parenti erano deceduti nei campi di sterminio. 
Volendo fare un bilancio di sofferenza fra David e Benji, ne emerge che il secondo indubbiamente soffre di più, come dimostra anche metaforicamente il grosso zaino che si porta sulle spalle paragonato al bagaglio agevole di David. Un'ulteriore conferma la troviamo nella sequenza finale. David e Benji sono sbarcati dall'aereo che li ha riportati a New York, David invita Benji a cena ma lui declina l'invito perchè, dice, mi piace stare qui, è pieno di gente fuori di testa. Segue un lungo primo piano del volto di Benji che guarda la gente seduta nella sala d'aspetto intorno a lui, cercando a tratti di abbozzare un sorriso che subito si spegne. Questa sequenza, che da sola merita il film, ci fa capire quale è il vero dolore, quello di vivere.