domenica 25 febbraio 2024

"Past Lives", Celine Song (2023)


Quali sono le Past Lives (Vite Passate) cui allude il titolo del bel film d'esordio di Celine Song? Da ciò che apprendiamo nel corso della narrazione si può trattare delle molteplici vite che il credo buddista prevede con l'incarnazione dell'anima in corpi diversi (il buddismo in realtà preferisce il termine "rinascita" poiché l'anima, immortale, rinasce ogni volta che entra in un nuovo corpo). A questo concetto però la protagonista femminile Nora Moon (Greta Lee) accosta la parola-chiave 인연 (In-Yun) che in coreano significa a grandi linee "destino" indicando però anche il legame che si crea quando due persone anche semplicemente si sfiorano senza nemmeno conoscersi, legame che rimane nel corso delle molteplici rinascite. Ma vi è anche un secondo significato per questa espressione, "Vite Passate", che si riferisce al passato di ogni singolo individuo, passato che costituisce una vita a sé stante. Ce lo dice chiaramente Nora quando, parlando con il protagonista maschile Hae Sung (Teo Yoo), gli chiede e si chiede se la realtà sia quella di quando da bambini erano così strettamente legati oppure quella dell'hic et nunc, del qui ed ora, con lei sposata ed un oceano che li separa. Queste stesse domande se le pone anche Marcel Proust nella sua ricerca del tempo perduto, senza darsi una risposta. Ma il colloquio fra i due si svolge sì nel presente, nel parco del ponte di Brooklyn, avendo però come sfondo il Jane's Carousel, una giostra che rimanda all'infanzia; passato e presente quindi convivono, misteriosamente amalgamandosi e confondendosi, sembra volerci dire la regista, come se la realtà fosse un tutt'uno.

Da queste considerazioni si ricava come questo film, delicato e intelligente, vada al di là della storia dei due protagonisti, narrata con una freschezza e una spontaneità non frequenti, coinvolgendo appunto tematiche di ampio respiro. Pensiamo anche a come risponde la madre di Nora (Ji Hye Yoon) a un'amica che le chiede perché intenda lasciare per sempre la Corea: "Quando lasci qualcosa, trovi qualcosa d'altro" ricordandoci come nella vita non si debba temere il cambiamento. O ancora a come le prospettive della vita cambino: Nora bambina a 12 anni vuole vincere un Nobel, a 24 anni ripiega su un Pulitzer e a 36, scherzando, si accontenterebbe di un Tony, premio dedicato ad artisti di teatro. Ma tornando alla storia personale dei due protagonisti è inevitabile chiedersi, all'uscita dal cinema, quale possa essere il rapporto fra Hae Sung, Nora ed il marito Arthur (John Magaro) dopo la visita del primo a New York. A questo proposito la regista ci lascia dei segni inequivocabili: quando i due da bambini giuocano nel parco del Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Seul li vediamo arrampicarsi sulla statua di Ilho Lee "Un nuovo sguardo sull'essere", dove due profili stilizzati si guardano fissamente; al contrario, quando si incontrano a New York dopo 24 anni al parco di Madison Avenue, fa da sfondo al loro incontro la statua dell'ammiraglio Farragut (Stanford White, 1881) alla base della quale sono presenti in bassorilievo due figure che guardano in direzioni opposte, significando vicinanza nell'infanzia e separazione nell'età adulta. Ma due sequenze, quella in metropolitana (v. manifesto) e quella dell'attesa della macchina che porterà Hae Sung all'aeroporto, ci fanno capire senza necessità di parole il sentimento che li lega, come pure l'abbraccio di Arthur e Nora dopo la partenza di Hae Sung, con lui che la cinge affettuosamente e lei che rimane rigida e piangente con le braccia distese lungo i fianchi. Insomma, l'In-Yun ancora lega Nora e Hae Sung, ma il loro destino terreno è di seguire vie diverse come ci ricorda il flashback del loro addio da bambini a Seul, ognuno per la sua strada.  

giovedì 8 febbraio 2024

“The Holdovers”, Alexander Payne (2023)

Con questo film Alexander Payne riprende l’analisi a lui cara della vita di tutti i giorni di persone comuni ed anche questa volta, come in “Election” (1999) ed in “Nebraska" (2013), decide di utilizzare un microcosmo, questa volta decisamente claustrofobico, composto da tre personaggi costretti a passare soli soletti due settimane delle vacanze natalizie al college Barton nel New England. Paul Hanham (Paul Giamatti), insegnante, e Mary Lamb (Da’Vine Joy Randolph), cuoca, sono in veste di custodi e Angus Tully (Dominic Sessa), studente, in veste di ospite forzato. Ciò che accomuna questi tre soggetti (ben definiti dal titolo, azzeccato ma non facilmente traducibile, forse “I lasciati indietro” riesce a rendere l’idea) è una vita tragica: il primo ha avuto la carriera irrimediabilmente rovinata per una falsa accusa di plagio durante gli studi ad Harvard ed ora insegna storia antica avendo come superiore un suo ex-allievo, la seconda ha appena perso il figlio ventenne Curtis verosimilmente in Vietnam (siamo alla fine del 1970), il cui cognome, Lamb (agnello in inglese), lo caratterizza come innocente vittima sacrificale di quella guerra, e l’ultimo abbandonato dalla madre che preferisce andare in vacanza con il neo-marito, mentre il precedente, padre di Angus, è ricoverato in una struttura psichiatrica per una grave psicosi schizofrenica. 
Come reagiscono questi personaggi a queste sventure, come riescono ad arrampicarsi sulla scala da pollaio della vita, per usare una metafora cara a Paul? 
Quest’ultimo si rifugia nello studio e nutre un non celato disprezzo nei confronti degli allievi, considerati tutti ricchi, aristocratici ed ignoranti (proprio come colui che lo accusò falsamente ad Harvard e fu creduto grazie al suo status economico-sociale); non a caso ha un particolare interesse per il pessimismo stoico di Marco Aurelio, di cui regala ai colleghi di reclusione il libro “Colloqui con se stesso”, summa del pensiero dell’imperatore-filosofo. 
La seconda esibisce un cinismo sarcastico che non le appartiene e si nasconde dietro una nuvola di fumo e whisky con la quale cerca di nascondersi la verità: se fosse stata benestante come i genitori dei ragazzi del college avrebbe potuto iscrivere Curtis all’università evitandogli la partenza per il Vietnam e quindi lo avrebbe ancora con sé. 
Il terzo invece, da buon adolescente, sfoga apertamente la sua rabbia nei confronti del mondo. 
E il miracolo che Payne riesce a compiere nel corso della narrazione, svolta come sua abitudine senza usare toni alti o effetti speciali un po’ come un quadro di Edward Hopper, è quello di riuscire a trasformare questi tre iceberg che sembrano appunto destinati a distruggersi cozzando l’un contro l’altro in esseri umani che si aiutano a vicenda, che soffrono e ridono insieme, che si capiscono e in definitiva, finalmente, si amano. Certo, è un’operazione faticosa per questi piccoli ma grandi uomini (+ una donna) cui il regista dedica appunto uno spezzone dell’omonimo film di Arthur Penn del 1970. Tutti e tre quindi escono trasformati da queste due settimane: Paul rompe il guscio di algida dignità che si era costruito e ricorre metaforicamente al suo occhio buono (ha un forte strabismo) mentendo per salvare Angus dall’espulsione dal college, Mary ritrova la gioia di vivere pensando al nipotino in arrivo, per il quale mette da parte il corredino che era stato del figlio, e Angus riprende la sua carriera scolastica, grato a Paul del salvataggio e pronto ad affrontare la scala da pollaio della vita con la dovuta fermezza ed energia.  

sabato 3 febbraio 2024

“Povere creature!”, Yorgos Lanthimos (2023)

 

Per sviluppare le tematiche trattate nel suo ultimo film Yorgos Lanthimos utilizza una triade di personaggi che impersona il diverso modo dell’Umanità di atteggiarsi nei confronti della vita e del mondo. 
Il dott. Godwin Baxter (Willem Defoe) vive per la scienza e la ricerca, si situa quindi all’estremo più razionale del modo di vivere. 
A Bella Baxter/Victoria Blessington (Emma Stone) Godwin ha trapiantato nel cranio il  cervello del feto che essa portava in grembo, dopo averla ripescata quasi morta dal fiume dove si era gettata per un assoluto rifiuto della maternità; Bella rappresenta quindi l’estremo emotivo ed irrazionale della Weltanschauung umana, anche perché si comporta ovviamente in tutto e per tutto come un bambino, al cui sviluppo mentale, con conseguente modificazione comportamentale, assistiamo nel corso della narrazione. 
Ed infine, fra i due estremi si situa il dott. Max McCandles (Ramy Youssef), allievo di Godwin, in cui convivono le passioni e quindi l’amore in particolare per Bella e l’interesse per la scienza e quindi la razionalità. 
Collateralmente abbiamo altri personaggi che impersonano particolari atteggiamenti nei confronti della vita, ad esempio Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), dedito esclusivamente ai piaceri del sesso e della buona tavola, e Harry Astley (Jerrod Carmichael), cinico e pessimista in merito alle possibilità di redenzione dell’Umanità. 
Nel descrivere questa Comedie Humaine il regista focalizza l’attenzione sul progressivo sviluppo mentale di Bella che si trasforma da bambina capricciosa incapace di sentir ragioni e dedita senza scrupoli ai piaceri del corpo (mangiare e, più tardi, autoerotismo) a un essere raziocinante, interessato alla cultura  e alle pratiche scientifiche di Godwin, in cui ella vede sia un Dio vincente (God-win) che un padre, piegandole alle sue necessità ed ai suoi voleri. Ecco quindi che in Bella, una volta maturata sul piano cerebrale, compaiono tutti gli aspetti che abbiamo visto descritti negli altri personaggi, ad evidenziare il mix di atteggiamenti nei confronti della vita e del mondo che caratterizza gli esseri umani. Un mix in cui possono prevalere aspetti negativi, ad esempio la vendetta che Bella esercita nei confronti del marito (Christopher Abbott), con un intervento di trapianto cerebrale da una capra. E che il mondo sia fatto a scale (chi le scende e chi le sale) è anche dimostrato dall’atteggiamento sprezzantemente imperioso della domestica Prim (Vicki Pepperdine) nei confronti di Felicity (Margaret Qualley), anch’essa vittima di un trapianto di cervello ad opera di Godwin, quando alla fine del film le ordina di andare a prendere l’acqua per l’uomo-capra. A conti fatti dobbiamo dare quindi ragione al cinismo di Harry Astley.
Per completezza va citato anche il tema per cui questo film è universalmente acclamato e cioè la libertà, libertà di liberarsi del marito tirannico e di annientare Wedderburn, libertà di emanciparsi attraverso la lettura (non a caso Bella legge Ralph Waldo Emerson) e di iscriversi alla facoltà di Medicina. Libertà letta quindi al femminile, un tema molto (forse troppo) trattato, probabilmente anche per correttezza politica.