Un'immagine può essere apprezzata per le sue qualità puramente estetiche ("mi piace"), ma in essa esistono anche significati che possono non essere immediatamente colti, soprattutto in un mondo pieno di immagini come quello in cui viviamo. E' quindi necessario prendersi il tempo per entrare nell'immagine (in questo blog in particolare, ma non solo, cinematografica) alla ricerca di questi significati.
venerdì 29 novembre 2019
mercoledì 20 novembre 2019
“Parasite”, Bong Joon-Ho (2019)
Le due famiglie descritte da Bong Joon-Ho sono speculari come composizione ma si trovano agli antipodi della scala sociale: i Park sono ricchi, vivono in una casa lussuosa nei quartieri alti dove la pioggia è solo un piacevole passatempo da guardare alla finestra. I Kim invece sono poverissimi, fanno parte del lumpenproletariat marxista, alloggiano in un seminterrato popolato da insetti e inondato da acqua e liquami di fogna ogniqualvolta la pioggia diviene torrenziale. Si sa però che il bisogno aguzza l’ingegno, di conseguenza i Kim, una volta conosciuta la famiglia Park grazie al figlio che vi si introduce come sostituto dell'insegnante di inglese, decidono di far licenziare con l’inganno governante ed autista e farsi assumere al loro posto, sistemando anche la figlia come insegnante di arte. Ma c’è sempre qualcuno che sta peggio ed ecco che a metà del film compare un povero disgraziato, marito della ex governante dei Park, che vive da anni in un bunker sotterraneo la cui esistenza è ignota agli stessi padroni di casa, nutrito dalla moglie con avanzi di cibo. Abbiamo quindi tre livelli della scala socio-economica, ordinati in senso decrescente di benessere secondo la profondità del luogo in cui vivono, fra i quali il conflitto non può tardare a manifestarsi. L’occhio del regista è spietato, nessuno è risparmiato, né i ricchi con il loro comportamento superficiale e stupidamente appiattito sulle più deteriori abitudini consumistiche delle società occidentali, né i proletari, del tutto incuranti dei danni apportati ai dipendenti di cui essi causano con l'inganno il licenziamento, in ossequio all'aforisma di Plauto Homo Homini Lupus. Un po’ di compassione viene espressa, comprensibilmente, solo nei confronti del poveretto costretto a vivere nel bunker la cui moglie peraltro prima implora umilmente la nuova governante affinché non denunci il marito e continui a nutrirlo e poi, quando un video girato con il telefonino le permette di avere in pugno i Kim, immediatamente veste i panni dell'oppressore. Questo modo di leggere il comportamento sociale, che Thomas Hobbes descrive efficacemente come un Bellum omnium contra omnes, si riflette nel pessimismo di Voltaire quando scrive:”Nell'andarcene lasceremo questo mondo tanto stupido e feroce quanto lo abbiamo trovato al nostro arrivo” e non è nuovo per Bong Joon-Ho se pensiamo al suo “Snowpiercer” del 2013.
Possiamo però provare ad essere meno pessimisti. In definitiva tutti vivono sui bisogni degli altri, come ci ricorda ne "La Ricchezza delle Nazioni” (1776) Adam Smith:"Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del loro interesse. Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo...”. Se non parassiti gli essere umani possono essere quindi considerati dei saprofiti, facenti parte di un sistema che si regge sulle reciproche necessità. Ma naturalmente questo sistema può funzionare solo se vengono osservate delle regole, regole che però siano rispettose delle libertà individuali per non cadere nell’eccesso opposto, come ad esempio con il Leviatano di Hobbes o il Grande Fratello di Orwell.
Rimane da commentare la filosofia del capofamiglia dei Kim (Song Kang-Ho): mai avere un piano poiché il fato è sempre pronto a ribaltare tutto. Una filosofia semplicistica che ricorda nel suo pessimismo quella di Homer Simpson (“Hai fatto del tuo meglio e hai fallito...la lezione è: non provare mai!”) cui fa da contraltare il pensiero di Kim-figlio (Choi Woo-Shik) che chiude il film elaborando un piano per riuscire a liberare il padre, rimasto a sua volta incastrato nel bunker, sulla cui riuscita il regista non si esprime, lasciando libero lo spettatore di trarre le conclusioni.
Possiamo però provare ad essere meno pessimisti. In definitiva tutti vivono sui bisogni degli altri, come ci ricorda ne "La Ricchezza delle Nazioni” (1776) Adam Smith:"Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del loro interesse. Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo...”. Se non parassiti gli essere umani possono essere quindi considerati dei saprofiti, facenti parte di un sistema che si regge sulle reciproche necessità. Ma naturalmente questo sistema può funzionare solo se vengono osservate delle regole, regole che però siano rispettose delle libertà individuali per non cadere nell’eccesso opposto, come ad esempio con il Leviatano di Hobbes o il Grande Fratello di Orwell.
Rimane da commentare la filosofia del capofamiglia dei Kim (Song Kang-Ho): mai avere un piano poiché il fato è sempre pronto a ribaltare tutto. Una filosofia semplicistica che ricorda nel suo pessimismo quella di Homer Simpson (“Hai fatto del tuo meglio e hai fallito...la lezione è: non provare mai!”) cui fa da contraltare il pensiero di Kim-figlio (Choi Woo-Shik) che chiude il film elaborando un piano per riuscire a liberare il padre, rimasto a sua volta incastrato nel bunker, sulla cui riuscita il regista non si esprime, lasciando libero lo spettatore di trarre le conclusioni.
sabato 9 novembre 2019
“Ma cosa ci dice il cervello”, Riccardo Milani (2019)
A prima vista “Ma cosa ci dice il cervello” potrebbe essere considerato semplicemente una commedia divertente e ben costruita. In realtà, esso presenta anche parecchi spunti di riflessione su cui vale la pena di soffermarsi.
Il titolo per primo solleva una domanda: a chi parla il cervello? Chi è il suo interlocutore? Verosimilmente si tratta del nostro corpo che necessita di istruzioni in merito a come comportarsi. Il regista sposa quindi una visione dualista del rapporto Mente-Corpo che richiama la Res cogitans e la Res extensa di Cartesio, dove Mente e Corpo sono nettamente separate, seppure colloquianti attraverso la ghiandola pineale. La storia in sé necessita proprio di questo approccio concettuale nel momento in cui affronta gli aspetti educativi che ne rappresentano una parte consistente. A questo punto è necessario un breve riassunto della trama: Giovanna (Paola Cortellesi) è una anonima impiegata ministeriale; è separata dal marito e vive con la madre e la figlia bambina. Quest’ultima si vergogna del grigiore della vita della madre, a paragone con le attività avventurose dei parenti dei compagni di scuola: astronauta, pompiere, mangiatore di fuoco...Ma in realtà Giovanna non è una semplice impiegata, è un agente segreto di altissimo livello, una 007 utilizzata in rischiose missioni internazionali. Questo ruolo le permette di reagire ad una serie di torti subiti da quattro suoi ex-compagni di scuola, vittime nel loro lavoro della tracotanza anempatica, dell’aggressività bullesca e dell’ignoranza crassa che dominano il modus vivendi della nostra società. Questa reazione non va però intesa come una pura e semplice vendetta ma come una forma di educazione del prossimo, diretta al cervello, inteso come entità a sé stante, affinché modifichi i messaggi che manda al corpo. Ma qui sorge un problema: ha diritto Giovanna ad ergersi a giudice degli altri e a modificarne il comportamento? Probabilmente no poiché questo atteggiamento comporta il rischio di sconfinare in una indebita invasione della sfera personale che può ricordare gli eccessi dello stato etico, come ben raccontato da Woody Allen ne “Il dittatore del libero stato di Bananas” (1971) dove il dittatore appunto ordina che la popolazione indossi le mutande sopra i pantaloni per essere certo che vengano cambiate ai giusti intervalli. Giovanna dovrebbe limitarsi ad esortare gli amici a reagire in modo corretto alle provocazioni, come essa stessa farà nella scena finale il cui esito però il regista non ci mostra, facendoci capire di non essere proprio certo della efficacia di questo approccio.
E un altro messaggio è quello di guardare oltre le apparenze. Giovanna, un pò come l’Atticus Finch del “Buio oltre la siepe” (Harper Lee, 1960), sembra un essere grigio ed insignificante, ma nasconde doti del tutto inaspettate che sicuramente entusiasmerebbero la figlia. E ancora, Roberto (Stefano Fresi), bellissimo ragazzo di cui Giovanna era innamorata a scuola, è oggi tutt’altro che un Adone, il suo aspetto delude Giovanna e le sue amiche, ma questo aspetto nasconde doti che porteranno Giovanna ad innamorarsi ancora di lui.
In conclusione, “Ma cosa ci dice il cervello” non solo castigat ridendo mores ma educa nel modo più efficace, e cioè divertendo.
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Il titolo per primo solleva una domanda: a chi parla il cervello? Chi è il suo interlocutore? Verosimilmente si tratta del nostro corpo che necessita di istruzioni in merito a come comportarsi. Il regista sposa quindi una visione dualista del rapporto Mente-Corpo che richiama la Res cogitans e la Res extensa di Cartesio, dove Mente e Corpo sono nettamente separate, seppure colloquianti attraverso la ghiandola pineale. La storia in sé necessita proprio di questo approccio concettuale nel momento in cui affronta gli aspetti educativi che ne rappresentano una parte consistente. A questo punto è necessario un breve riassunto della trama: Giovanna (Paola Cortellesi) è una anonima impiegata ministeriale; è separata dal marito e vive con la madre e la figlia bambina. Quest’ultima si vergogna del grigiore della vita della madre, a paragone con le attività avventurose dei parenti dei compagni di scuola: astronauta, pompiere, mangiatore di fuoco...Ma in realtà Giovanna non è una semplice impiegata, è un agente segreto di altissimo livello, una 007 utilizzata in rischiose missioni internazionali. Questo ruolo le permette di reagire ad una serie di torti subiti da quattro suoi ex-compagni di scuola, vittime nel loro lavoro della tracotanza anempatica, dell’aggressività bullesca e dell’ignoranza crassa che dominano il modus vivendi della nostra società. Questa reazione non va però intesa come una pura e semplice vendetta ma come una forma di educazione del prossimo, diretta al cervello, inteso come entità a sé stante, affinché modifichi i messaggi che manda al corpo. Ma qui sorge un problema: ha diritto Giovanna ad ergersi a giudice degli altri e a modificarne il comportamento? Probabilmente no poiché questo atteggiamento comporta il rischio di sconfinare in una indebita invasione della sfera personale che può ricordare gli eccessi dello stato etico, come ben raccontato da Woody Allen ne “Il dittatore del libero stato di Bananas” (1971) dove il dittatore appunto ordina che la popolazione indossi le mutande sopra i pantaloni per essere certo che vengano cambiate ai giusti intervalli. Giovanna dovrebbe limitarsi ad esortare gli amici a reagire in modo corretto alle provocazioni, come essa stessa farà nella scena finale il cui esito però il regista non ci mostra, facendoci capire di non essere proprio certo della efficacia di questo approccio.
E un altro messaggio è quello di guardare oltre le apparenze. Giovanna, un pò come l’Atticus Finch del “Buio oltre la siepe” (Harper Lee, 1960), sembra un essere grigio ed insignificante, ma nasconde doti del tutto inaspettate che sicuramente entusiasmerebbero la figlia. E ancora, Roberto (Stefano Fresi), bellissimo ragazzo di cui Giovanna era innamorata a scuola, è oggi tutt’altro che un Adone, il suo aspetto delude Giovanna e le sue amiche, ma questo aspetto nasconde doti che porteranno Giovanna ad innamorarsi ancora di lui.
In conclusione, “Ma cosa ci dice il cervello” non solo castigat ridendo mores ma educa nel modo più efficace, e cioè divertendo.
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