mercoledì 14 novembre 2018

“Senza lasciare traccia”, Debra Granik (2018)

Will (Ben Foster) e Thom (Thomasin McKenzie) vivono la loro esistenza di padre e figlia in mezzo alla natura selvaggia di un parco nazionale nell’Oregon, utilizzando mezzi di sopravvivenza rudimentali ma efficaci. L’impressione che possiamo avere nei primi 15-20 minuti di proiezione è che il motivo di fondo del film sia l’abbandono della disumana civiltà industriale per ritrovare se stessi nell’habitat primigenio della natura. Dal “Walden, ovvero la vita nei boschi” (Henry Thoreau, 1847) in letteratura a “Into the Wild” (Sean Penn, 2007) nel cinema questo tema è molto diffuso nella cultura statunitense. Ma gradualmente emergono dalla narrazione elementi che ci portano in un’altra direzione. Will ha dentro di sé cicatrici ineliminabili, dalla morte della giovane moglie alle vicende di guerra che ha vissuto. Egli non vuole solo fuggire dalla civiltà industriale, vuole fuggire e basta, vuole correre lontano da questi demoni che lo perseguitano e non lo fanno dormire di notte. Questo suo desiderio di non stare mai fermo ricorda il famoso dialogo di “On the road” (Jack Kerouac, 1957): Sal, dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo. Per andare dove, amico? Non lo so, ma dobbiamo andare. Ma contrariamente a Sal Paradise, Will fugge anche la compagnia dei suoi simili. Per dirla in termini sociologici, rifiuta non sono la Società, ma anche la Comunità (Gemeinschaft und Gesellschaft, F. Tönnies 1887) per rifugiarsi nell'unica compagnia che può attenuare il suo tormento, quella della figlia che egli cresce secondo le leggi della sopravvivenza, ma con attenzione anche all’etica (vedi ad esempio l’ammonimento a non raccogliere subito la medaglietta trovata per strada per dar tempo a chi la ha persa di recuperarla). Thom segue allinizio passivamente il padre a cui è molto attaccata, ma le cose cambiano nelle due occasioni in cui la coppia si trova a vivere una vita se non normale almeno più normale di quella cui sono abituati. Queste esperienze fanno crescere in Thom il desiderio della compagnia dei propri simili, desiderio che in passato non aveva mai potuto sperimentare. E cerca di instillare questo stesso desiderio nel padre con la metafora dell'alveare, dove le api vivono insieme sviluppando calore (equivalente allamore) e non attaccano spontaneamente l’uomo che si fida di loro, anche perché sanno che se lo pungono moriranno (buon motivo per non ucciderci a vicenda!). Ma le cicatrici di Will sono troppo profonde per permettergli di fermarsi e così giungiamo all’epilogo: padre e figlia si separano, cosa che comunque prima o poi nella vita accade, e il film si chiude con il piano-sequenza di Will che abbandona la strada e viene letteralmente inghiottito dal bosco, mentre Thom inizia la sua nuova vita in comunità. In questo suo processo di formazione non dimenticherà però il padre: gli lascerà infatti sempre nel bosco una sacca con generi di prima necessità a testimonianza, oltre che dell’affetto, delladesione al tacito patto etico che lega genitori e figli.   

sabato 3 novembre 2018

“A Star is born”, Bradley Cooper (2018)

In un’epoca di prequel, sequel e remake, chiara espressione di una preoccupante mancanza di ispirazione nel contesto del film business, la comparsa della terza versione di  “E’ nata una stella” (W.A. Wellman, 1937) potrebbe provocare una fastidiosa sensazione di déjà vu; la trama è in effetti identica all’originale, perfino nel cognome del protagonista. Ma non importa, cerchiamo di capire che cosa questa storia, peraltro vecchia come il mondo se la riportiamo al mito di Pigmalione, ci può dire.
Il tema centrale del film, ripreso più volte nei dialoghi fra Jackson Maine (Bradley Cooper) e Ally (Lady Gaga) è che cosa caratterizza una star. Lo svolgersi della storia ci permette di capire gradualmente, seguendo la progressione della carriera di Ally, di cosa si tratti. All’inizio Ally ha paura di salire sul palcoscenico, deve essere spinta a farlo e una volta giuntavi si schermisce, non riesce nemmeno a guardare verso il pubblico. In seguito la vediamo seguire passivamente, dopo un iniziale tentativo di ribellione, i suggerimenti, o meglio le imposizioni, di altri e in particolare del suo agente Rez (Rafi Gavron) in merito a come vestirsi, pettinarsi, ballare. Alla conclusione del film, quando Ally canta “I’ll never love again”, uno struggente addio pieno di rimpianti, questa definizione ci appare con chiarezza: Ally infatti si presenta in scena come se stessa, per esprimere al suo pubblico i suoi sentimenti. Non servono lustrini, vestiti bizzarri, acconciature improponibili e balletti (il che per Lady Gaga non è poco!) sembra dirci il Bradley Cooper regista, poiché essere una star vuol dire saper comunicare al pubblico, grazie ad un talento innato, i propri sentimenti e il proprio modo di vedere la vita. E questo messaggio è sottolineato dal brevissimo primo piano di Ally, seria e composta nel suo dolore, che chiude il film fissando intensamente la macchina da presa. Questo primo piano ci conferma che finalmente, dopo tanta incertezza, paura e dolore, Ally ha imparato a guardare negli occhi il suo pubblico ed è diventata così una vera star, capace di muoversi da sola.
All'uscita dalla sala lo spettatore è preda di sentimenti contrastanti: da una parte la tristezza per il dramma che caratterizza la fine della storia fra Jackson ed Ally, dramma che Cooper anticipa già dalle prime battute del film quando inquadra un'insegna costellata di cappi, e dall’altra la soddisfazione per l’inizio della meritata carriera di Ally. Ma in definitiva non c’è nulla di nuovo sotto il sole, sappiamo bene che tutto deve finire, l’importante è che a una fine segua un nuovo inizio che ci permetta di sperare nel futuro.
In conclusione, è vero che “A Star is born” è la quarta versione cinematografica di questa storia, ma è comunque un remake che vale la pena di vedere per l'ottimo esordio di Bradley Cooper come regista e di Lady Gaga come attrice, accompagnati da una colonna sonora coinvolgente.