martedì 19 dicembre 2017

La Ruota delle Meraviglie, Woody Allen 2017

Perché Woody Allen ha scelto Coney Island e la sua giostra più famosa, la   Ruota delle Meraviglie, per ambientare e titolare la sua ultima opera? Forse perché Coney Island rappresenta per il regista l’infanzia, il posto dove da bambino in mezz’ora di autobus poteva raggiungere dalla sua abitazione a Flatbush il mare e uscire dalla vita di tutti i giorni per entrare in un mondo fantastico di puro divertimento. Forse però Allen ha visto nella ruota delle meraviglie una metafora della vita, la vita che con tutti i suoi imprevedibili rivolgimenti spesso ci coglie alla sprovvista, portandoci, proprio come se fossimo su una ruota, dalla felicità estrema all'estrema disperazione. Ed è proprio questo l’aspetto della vita che Woody Allen ci illustra attraverso i suoi personaggi, coadiuvato dalla fotografia di Vittorio Storaro che ne sottolinea quasi con violenza gli stati d’animo. In primis Ginny (Kate Winslet) che aveva iniziato una carriera di attrice e si ritrova dopo un matrimonio fallito a fare la cameriera in un bar di Coney, e poi Carolina (Juno Temple), abituata alla gran vita quando era moglie di un ganster e ridotta adesso, senza più un soldo,  a fuggire i sicari del marito e cercare l’aiuto del padre che aveva in precedenza rinnegato. La voce narrante, Mickey (Justin Timberlake), bagnino con aspirazioni di drammaturgo che coltiva con buone letture e colti riferimenti teatrali, si situa invece in una posizione intermedia della ruota: svolge una attività modesta, ma almeno ha la speranza di riuscire nella vita, insomma vive in uno stato di potenzialità che lo induce all’ottimismo, contrariamente a Ginny e Carolina. Ma non c’è proprio nessuno in questo film che non sia al nadir della ruota o che non coltivi speranze nel futuro, speranze che il pessimismo di Allen induce a ritenere che mai si realizzeranno, con buona pace di Mickey? Ebbene sì, questo personaggio esiste ed è Humpty (Jim Belushi), padre di Carolina e secondo marito di Jinny. Per lui alcol, baseball e pesca sono le basi di una vita felice, non cerca e non vuole null’altro e quindi, ci suggerisce Allen, non verrà mai deluso. E d’altro canto i lavori teatrali del mito di Mickey, il grande drammaturgo Eugene O’Neill, riflettono l’idea di fondo che l’uomo sia al mondo per lottare e poi essere fatalmente sconfitto. E come non citare infine a questo proposito un grande pensatore contemporaneo, Homer J. Simpson, che nell’episodio 9 della stagione 9, ”La Donna Immobile”, ci ricorda che: "Tentare è il primo passo verso il fallimento.?
E infine rimane il piccolo Richie (Jack Gore), figlio di primo letto di Ginny. Bambino difficile, marina la scuola per andare al cinema (citazione autobiografica, Woody Allen iniziò infatti ad amare il cinema a 3 anni dopo aver visto “Biancaneve e i sette nani”) ed è un piromane in erba. Vista l’impostazione teatrale del film possiamo forse pensare che Richie svolga il ruolo del coro greco, sottolineando con i suoi incendi come le speranze dei protagonisti siano fatalmente destinate a finire in cenere.


martedì 14 novembre 2017


Dopo aver affrontato criticamente il tema della responsabilità personale in "Forza Maggiore" (2014), Ruben Östlund mette a fuoco in “The Square” (2017) una serie di tematiche relative alla vita nelle moderne società occidentali. A questo scopo utilizza come filo conduttore le vicende del direttore del museo di arte contemporanea di Stoccolma, Christian, interpretato da Claes Bang, intellettuale di bell’aspetto, dalla parlantina sciolta e molto à la page (guida ad esempio una Tesla, a dimostrare la sua attenzione ai temi ambientali), narrate con un umorismo surreale che ricorda un altro regista scandinavo, il geniale Aki Kaurismäki. L’originalità dell'approccio di Östlund, rispetto alle molte pellicole dedicate soprattutto negli anni 60-70 alla critica della società moderna, risiede nell’evidenziare come ogni aspetto del nostro vissuto possa essere valutato criticamente in modi diametralmente opposti. Un primo esempio è rappresentato, all’esordio del film, dall’ultimo pezzo acquisito da Christian per il museo, l'installazione “The Square” che dà il titolo al film, un quadrato all’interno del quale nell’intenzione dell’autrice "regnano la fiducia e l’altruismo”. Ottima idea, peccato però che il simbolo del quadrato indichi sì inclusione, per chi ci sta dentro e quindi gode di fiducia ed altruismo, ma anche esclusione, per chi ne resta fuori. Ed anche per quanto riguarda il rapporto con gli ultimi della società, cioè mendicanti ed immigrati, tema che affiora più volte nel corso della narrazione, se è vero che nella maggior parte dei casi Östlund parteggia per i reietti, è anche vero che non manca di sottolineare che l’ordine dei fattori nell’equazione mendicante-benestante si può invertire, quando ci mostra una mendicante che chiede in carità un panino con il pollo e lo pretende però senza cipolla, facendoselo anche servire al tavolo da Christian. E ancora, nella conferenza stampa dedicata allo spot volto a propagandare l’installazione del quadrato, che vede protagonista una piccola mendicante, Christian viene bersagliato violentemente da richieste sia di abolire lo spot, a causa dello sfruttamento dell’immagine della povera piccina, che di non abolirlo, per non ledere la libertà di espressione, ed è veramente ironico che entrambe le tesi vengano sostenute da applausi convinti da parte del pubblico! Il pubblico appunto, un altro aspetto affrontato dal regista riguarda ciò che ai nostri giorni viene offerto al pubblico come opera d'arte; che Östlund sia piuttosto scettico sul valore di un certo tipo di arte contemporanea è piuttosto chiaro se pensiamo a come viene gestita l’installazione che rappresenta piramidi di ghiaia o alla scena in cui un artista che espone al museo viene intervistato da una collaboratrice di Christian in merito alle sue opere. Ne deriva un profluvio di affermazioni intellettualoidi totalmente prive di qualsiasi significato. Ebbene, questa intervista è continuamente interrotta dal turpiloquio irrefrenabile di un personaggio affetto da sindrome di Tourette, presente nel pubblico, che con le sue esclamazioni volgarmente spregiative sottolinea l'assurdità di questo teatrino delle vanità vuoto, artificioso ed autoreferenziale. Il ruolo del soggetto psichiatrico, per definizione collocato al di fuori degli schemi sociali, nel rivelare oggettivamente l’essenza delle cose al di là degli abbellimenti formali è stato utilizzato anche in passato nel cinema, come ad esempio con l’autistico John Givings (Michael Shannon) in "Revolutionary Road” (Sam Mendes, 2008) che rivela con crudezza tutto ciò che è nascosto sotto la patina di rispettabilità nel rapporto fra i due protagonisti. Il prototipo di questa figura è però il bimbo innocente (e quindi anche lui fuori dagli schemi sociali, al pari del soggetto psichiatrico) che nella fiaba di Andersen “I vestiti nuovi dell’imperatore” (1837) rivela ciò che tutti vedono ma non possono/vogliono ammettere e cioè che il re è nudo.
Östlund ci ricorda insomma che la vita è difficile, che ogni scelta che facciamo è  criticabile e che, nonostante il senso di controllo su cui crediamo di poter contare, possono apparire minacce insospettate che non siamo in grado di fronteggiare, come ad esempio nel corso della esibizione durante la cena di gala al museo che da pseudo-minacciosa si trasforma inaspettatamente in veramente minacciosa. Questa incertezza è ben espressa dal poeta americano Robert Frost (1874-1963) nell’incipit della sua poesia “La strada non presa”:
Due strade a un bivio in un bosco ingiallito,
Peccato non percorrerle entrambe,
Ma un solo viaggiatore non può farlo,
Guardai dunque una di esse indeciso,
Finché non si nascose al mio sguardo...

Se potessimo percorrere in anticipo entrambe le strade non avremmo dubbi su quale scegliere, la nostra condizione umana ci permette però, per restare nella metafora di Frost, di cercare di scrutarle il più a fondo possibile e poi scegliere quale percorrere, consapevoli della nostra fallacia.

martedì 3 ottobre 2017

ANATOMIA DI UNA SCENA: “BLADE RUNNER”, Ridley Scott, 1982.









A pochi giorni dall’arrivo nelle sale cinematografiche dell’attesissimo “Blade Runner 2049” vale la pena di analizzare una delle scene più importanti del “Blade Runner” di Ridley Scott del 1982, vale a dire l’epilogo del combattimento fra l’ultimo dei replicanti Roy Batty (Rutger Hauer) e il cacciatore di replicanti Rick Deckard (Harrison Ford). In essa giunge all’apice il topos fondamentale del film e cioè il desiderio dei replicanti di essere, non solo sembrare, umani. E’ per questo che essi tentano di costruirsi ricordi artificiali ed è per questo che Roy chiede al suo creatore Eldon Tyrrel (Joe Turkel) di eliminare il meccanismo che determina automaticamente la distruzione dei replicanti dopo un periodo predefinito e avendone ricevuto una risposta negativa lo uccide in uno scatto d’ira, emozione tra l’altro tipicamente umana.
Ed è sul tetto di quel Bradbury Building di Los Angeles, fatto costruire dal milionario Lewis L. Bradbury nel 1893 e che ricorda Ray D. Bradbury, uno dei grandi della letteratura sci-fi, che questo desiderio giunge a una piena realizzazione. Questo evento è preceduto da una serie di segni che prefigurano il passaggio da replicante ad essere umano, già peraltro in fieri alla luce dello scatto d’ira omicida ricordato in precedenza. Pensiamo ad esempio al chiodo conficcato nel palmo della mano che richiama la crocefissione, apice del processo di “umanizzazione” di Gesù Cristo e quindi anche di Roy. E ancora, la colomba bianca stretta fra le mani di Roy che volerà verso un cielo finalmente azzurro nel momento della morte, accompagnata dal passaggio della colonna sonora dal cupo modo minore alla gioia del modo maggiore, rappresenta l’anima che lascia un corpo finalmente umano. Nel momento in cui salva Rick dalla caduta dal tetto, Roy dimostra ancora una volta reazioni molto umane: quando tiene Rick sospeso nel vuoto in condizioni di assoluta impotenza, ha modo di vendicarsi di quanto ha subito nel corso della sua esistenza facendogli assaporare l’orrore di una vita da schiavo, perennemente in balia degli altri, mentre nell’atto di salvarlo compie un gesto di umana compassione.
E veniamo adesso alla celeberrima parte finale del monologo di Roy, pronunciata sedendosi a terra per essere all’altezza di Rick steso a terra, una ulteriore dimostrazione di umana capacità empatica. Perfettamente conseguente al desiderio di dimostrare l’umanità di Roy attraverso il racconto dei ricordi, la frase finale è stata purtroppo cambiata nella versione italiana facendogli dire: “Io ne ho visto di cose che voi umani non potreste immaginare…”, diversamente dalla versione originale: “I’ve seen things you people wouldn’t believe” dove la differenza sostanziale è che se Roy parla a degli “umani” non può sentirsi parte dell’umanità, mentre se parla a della “gente” (“people”), si fa parte egli stesso dell’umanità, come è suo desiderio. Desiderio che si realizza appieno nel momento che immediatamente precede la sua morte, quando cioè l’espressione del volto passa dalla tristezza nel parlare della perdita dei ricordi nel tempo “come lacrime nella pioggia” al sorriso finalmente sereno che precede il reclinarsi del capo e la morte.
In chiusura di questo breve commento vale la pena di ricordare l’ultima frase del film, affidata a Eduardo Gaff (Edward J. Olmos), collega di Rick ”Peccato che lei non vivrà. Sempre che questo sia vivere” riferita alla replicante Rachael (Sean Young); ancora una volta la versione italiana ci crea qualche problema, infatti l’originale suona così ”It’s a shame she won’t live, but then again who does?” la cui traduzione letterale: ”Peccato che lei non vivrà, ma in definitiva chi ce la può fare?” è una chiara (e spiazzante) analogia fra la condizione di vita dei replicanti e quella degli esseri umani.

mercoledì 27 settembre 2017

“L’Inganno”, Sofia Coppola 2017

Virginia 1864, penultimo anno della guerra di secessione. In un collegio femminile cinque allieve, la direttrice e una insegnante svolgono la loro vita ordinata fatta di lezioni di francese e calligrafia, lavori di casa, giardinaggio e preghiere, isolate dall’inferno che le circonda, a tratti evocato dal rombo dei cannoni e da pennacchi di fumo all’orizzonte. In questo idillio irreale la cui staticità è ripetutamente sottolineata dall’inquadratura sempre uguale delle colonne al tramonto, irrompe un ospite inaspettato ed ecco iniziare l’inganno e il dramma.
Definito da più parti un film noioso, “L’Inganno” è girato secondo la teoria dell’Immagine-Tempo di Gilles Deleuze, quindi camera fissa, occasionalmente posizionata in basso rispetto ai personaggi sulla scia di Yasujiro Ozu, tempi lunghi, inquadrature prolungate sui dettagli. Evidentemente a un pubblico drogato dal dinamismo ipercinetico delle regie attuali, e quindi incapace di lasciarsi andare al flusso del tempo cogliendo i dettagli che danno significato a un film, quest’opera non può non risultare “noiosa”.
Fatta questa doverosa premessa, chiediamoci cosa ci vuol dire e come ce lo dice Sofia Coppola con questo suo film, tratto da un romanzo di Thomas Cullinan già portato sullo schermo da Don Siegel nel 1971 con lo stesso titolo originale, “The Beguiled”.
L’incipit, un lungo piano sequenza lungo un viale ombreggiato da alberi enormi in cui una delle allieve, la piccola Amy (Oona Laurence), si aggira canticchiando e raccogliendo funghi, ci introduce alla maestosità della natura, spettatrice indifferente della guerra e degli affanni umani e procacciatrice di vita, intesa come nutrimento, ma anche di morte e sottolinea l’innocenza di Amy, banalmente ma efficacemente paragonabile a Cappuccetto Rosso che invece del lupo troverà nel bosco un soldato nordista ferito, John McBurney (Colin Farrell). Trasportato all’interno del collegio, John viene curato e accudito dalla direttrice Miss Martha, una statuaria Nicole Kidman, dall’insegnante Edwina (Kirsten Dunst), un vulcano di emotività appena intuibile sotto una gelida ed amara corazza, e dalle allieve. Tutte queste donne gradualmente manifestano uno spiccato interesse per questo soldato, sotto forma di ingenua curiosità nel caso delle più giovani e di attrazione sessuale più o meno manifesta nel caso delle meno giovani. In questo clima di disordine emozionale, che contrasta con l’ordine precedente, inizia l’inganno che dà il titolo al film. A questo proposito è interessante notare che il titolo originale ha un respiro più ampio di quello italiano:”The Beguiled” significa infatti sia l’ingannato che l’ingannata e sia al singolare che al plurale, come a sottolineare la molteplicità e la diffusione dell’inganno nei rapporti umani. Martha inganna infatti gli ufficiali sudisti non menzionando la presenza di un nordista in casa, John inganna Edwina dicendosi perdutamente innamorato di lei, ma comportandosi in realtà diversamente, Alicia (Elle Fanning) inganna le altre accusando falsamente John di violenza e così via in una spirale diabolica che porta all’esito drammatico, dopo il quale assistiamo ad una ripresa dello status quo ante, efficacemente espressa dallo statuario piano-sequenza finale.
Sofia Coppola ci dice quindi che la guerra è solo l’espressione più eclatante degli aspetti più neri dell’animo umano, l’orrore alberga infatti ovunque e può esplodere in qualsiasi momento in modo del tutto inatteso. A sottolineare questo aspetto basterebbe il fatto che sia proprio la giovane, angelica ed innocente (almeno all’inizio del film) Amy che saprà suggerire il modo più diabolico ed efficace per concludere il dramma.