lunedì 23 maggio 2016

ANATOMIA DI UNA SCENA: “L’Amore Bugiardo” (“Gone Girl”; David Fincher, 2014)




Nella scena iniziale del film il regista ci mostra la nuca di Amy Dunne (Rosamund Pike) e la mano del marito Nick (Ben Affleck) che le accarezza gentilmente i capelli biondi. Dopo qualche secondo Amy si gira bruscamente e fissa un punto in alto a destra rispetto allo spettatore (v. figura)
E’ uno sguardo intenso ed enigmatico e dura tanto quanto basta per chiedersi che cosa significhi, che pensieri si agitino nella mente di Amy, quale sia il messaggio che il regista ci vuole trasmettere. Lo sforzo empatico che istintivamente ed inconsciamente ogni spettatore compie durante la proiezione di un film per “entrare” nella mente dell’attore in questo caso non ci fornisce alcun indizio. Solo alla fine del film, quando il regista ci mostra in chiusura la stessa identica scena, lo spettatore, avendo visto quello che Amy ha potuto fare nel corso delle narrazione cinematografica, è in grado di vedere in quegli occhi la capacità di concepire e portare a termine freddamente atti di indicibile violenza, ed è allora che quello sguardo evoca una paura che all’inizio non si poteva nemmeno lontanamente immaginare.  “E la fine di tutto il nostro esplorare /sarà l’arrivo là da dove eravamo partiti / e conoscere il posto per la prima volta”; con queste parole T.S. Eliot nell’ultimo dei suoi quartetti, “Little Gidding” (1942), rende l’dea, come meglio non è possibile, del circolo cognitivo che ci porta a capire questa immagine.
In termini strettamente cinematografici questa scena è un esempio di “effetto Kuleshov”, dal nome del regista russo Lev Kuleshov che per primo descrisse agli inizi del ‘900 l’effetto sulla percezione di una determinata scena esercitato da scene precedenti o seguenti. Questo effetto, tipico del cinema, fa capire l’estrema importanza di una componente dell’arte cinematografica spesso non adeguatamente apprezzata e cioè il montaggio, un compito che al di là degli aspetti tecnici richiede spiccate doti di sensibilità nel capire come la sequenza delle scene possa influenzare la percezione della narrazione nella sua totalità. Forse è per questa caratteristica che nella tradizione hollywoodiana la maggior parte degli editor (uso l’inglese perché montatore o montaggista mi sembrano termini orribili) è di sesso femminile.
Anche la psicoanalisi ha sottolineato l’importanza della sequenza delle scene in un film, come ad esempio nell’opera di Gilles Deleuze e Felix Guattari “L’anti-Edipo” (1972) in cui viene proposta una interpretazione diversa da quella freudiana, riassunta nel termine “Inconscio Produttivo”, in cui si propone che l’inconscio operi attraverso la produzione di diversi tipi di sintesi. In termini cinematografici hanno grande importanza le sintesi connettive, che collegano nella mente dello spettatore gli eventi che si svolgono sullo schermo fra di loro e con memorie ed esperienze del suo vissuto, e le sintesi disgiuntive, che legano fra di loro, pur mantenendole distinte, le singole sintesi connettive in un fluire omogeneo. E’ evidente come il montaggio possa essere cruciale nello sviluppo di questo processo.
Sempre restando nell’ambito dell’inconscio, questa scena rappresenta una aperta contraddizione della ben nota relazione fra bello e buono (il “kalos kai agazos” del Timeo di Platone, 360 a.C.) che istintivamente vorremmo vedere applicato in ogni situazione, come pure, vista dalla prospettiva archetipica di Carl Gustav Jung, esemplifica in pieno l’archetipo della “Madre Terribile” (in termini cinematografici “Dark Lady”), diametralmente opposto a quello rassicurante della “Grande Madre”.   
Per finire, va ricordato di questa scena anche il monologo interiore del marito, Nick Dunne, mentre accarezza delicatamente i capelli di Amy: nel momento in cui egli immagina di rompere (per la precisione il termine inglese è “crack”, che rende ancor meglio di “rompere” l’idea dell’osso fracassato) quell’adorabile cranio per capire quali pensieri vi alberghino, Nick sottolinea da un lato uno dei temi principali del film e cioè la virtuale impossibilità di capire quale sia la vera, intima essenza di una persona al di fuori di quanto dicono le apparenze, ma dall’altro con queste parole crude avalla la violenza che ha caratterizzato l’agire di Amy nel corso del film, come se il regista ci volesse ricordare che in ognuno di noi, non importa quanto “belli e buoni”, la ferocia è sempre pronta ad erompere incontrollata.