martedì 3 ottobre 2017

ANATOMIA DI UNA SCENA: “BLADE RUNNER”, Ridley Scott, 1982.









A pochi giorni dall’arrivo nelle sale cinematografiche dell’attesissimo “Blade Runner 2049” vale la pena di analizzare una delle scene più importanti del “Blade Runner” di Ridley Scott del 1982, vale a dire l’epilogo del combattimento fra l’ultimo dei replicanti Roy Batty (Rutger Hauer) e il cacciatore di replicanti Rick Deckard (Harrison Ford). In essa giunge all’apice il topos fondamentale del film e cioè il desiderio dei replicanti di essere, non solo sembrare, umani. E’ per questo che essi tentano di costruirsi ricordi artificiali ed è per questo che Roy chiede al suo creatore Eldon Tyrrel (Joe Turkel) di eliminare il meccanismo che determina automaticamente la distruzione dei replicanti dopo un periodo predefinito e avendone ricevuto una risposta negativa lo uccide in uno scatto d’ira, emozione tra l’altro tipicamente umana.
Ed è sul tetto di quel Bradbury Building di Los Angeles, fatto costruire dal milionario Lewis L. Bradbury nel 1893 e che ricorda Ray D. Bradbury, uno dei grandi della letteratura sci-fi, che questo desiderio giunge a una piena realizzazione. Questo evento è preceduto da una serie di segni che prefigurano il passaggio da replicante ad essere umano, già peraltro in fieri alla luce dello scatto d’ira omicida ricordato in precedenza. Pensiamo ad esempio al chiodo conficcato nel palmo della mano che richiama la crocefissione, apice del processo di “umanizzazione” di Gesù Cristo e quindi anche di Roy. E ancora, la colomba bianca stretta fra le mani di Roy che volerà verso un cielo finalmente azzurro nel momento della morte, accompagnata dal passaggio della colonna sonora dal cupo modo minore alla gioia del modo maggiore, rappresenta l’anima che lascia un corpo finalmente umano. Nel momento in cui salva Rick dalla caduta dal tetto, Roy dimostra ancora una volta reazioni molto umane: quando tiene Rick sospeso nel vuoto in condizioni di assoluta impotenza, ha modo di vendicarsi di quanto ha subito nel corso della sua esistenza facendogli assaporare l’orrore di una vita da schiavo, perennemente in balia degli altri, mentre nell’atto di salvarlo compie un gesto di umana compassione.
E veniamo adesso alla celeberrima parte finale del monologo di Roy, pronunciata sedendosi a terra per essere all’altezza di Rick steso a terra, una ulteriore dimostrazione di umana capacità empatica. Perfettamente conseguente al desiderio di dimostrare l’umanità di Roy attraverso il racconto dei ricordi, la frase finale è stata purtroppo cambiata nella versione italiana facendogli dire: “Io ne ho visto di cose che voi umani non potreste immaginare…”, diversamente dalla versione originale: “I’ve seen things you people wouldn’t believe” dove la differenza sostanziale è che se Roy parla a degli “umani” non può sentirsi parte dell’umanità, mentre se parla a della “gente” (“people”), si fa parte egli stesso dell’umanità, come è suo desiderio. Desiderio che si realizza appieno nel momento che immediatamente precede la sua morte, quando cioè l’espressione del volto passa dalla tristezza nel parlare della perdita dei ricordi nel tempo “come lacrime nella pioggia” al sorriso finalmente sereno che precede il reclinarsi del capo e la morte.
In chiusura di questo breve commento vale la pena di ricordare l’ultima frase del film, affidata a Eduardo Gaff (Edward J. Olmos), collega di Rick ”Peccato che lei non vivrà. Sempre che questo sia vivere” riferita alla replicante Rachael (Sean Young); ancora una volta la versione italiana ci crea qualche problema, infatti l’originale suona così ”It’s a shame she won’t live, but then again who does?” la cui traduzione letterale: ”Peccato che lei non vivrà, ma in definitiva chi ce la può fare?” è una chiara (e spiazzante) analogia fra la condizione di vita dei replicanti e quella degli esseri umani.

mercoledì 27 settembre 2017

“L’Inganno”, Sofia Coppola 2017

Virginia 1864, penultimo anno della guerra di secessione. In un collegio femminile cinque allieve, la direttrice e una insegnante svolgono la loro vita ordinata fatta di lezioni di francese e calligrafia, lavori di casa, giardinaggio e preghiere, isolate dall’inferno che le circonda, a tratti evocato dal rombo dei cannoni e da pennacchi di fumo all’orizzonte. In questo idillio irreale la cui staticità è ripetutamente sottolineata dall’inquadratura sempre uguale delle colonne al tramonto, irrompe un ospite inaspettato ed ecco iniziare l’inganno e il dramma.
Definito da più parti un film noioso, “L’Inganno” è girato secondo la teoria dell’Immagine-Tempo di Gilles Deleuze, quindi camera fissa, occasionalmente posizionata in basso rispetto ai personaggi sulla scia di Yasujiro Ozu, tempi lunghi, inquadrature prolungate sui dettagli. Evidentemente a un pubblico drogato dal dinamismo ipercinetico delle regie attuali, e quindi incapace di lasciarsi andare al flusso del tempo cogliendo i dettagli che danno significato a un film, quest’opera non può non risultare “noiosa”.
Fatta questa doverosa premessa, chiediamoci cosa ci vuol dire e come ce lo dice Sofia Coppola con questo suo film, tratto da un romanzo di Thomas Cullinan già portato sullo schermo da Don Siegel nel 1971 con lo stesso titolo originale, “The Beguiled”.
L’incipit, un lungo piano sequenza lungo un viale ombreggiato da alberi enormi in cui una delle allieve, la piccola Amy (Oona Laurence), si aggira canticchiando e raccogliendo funghi, ci introduce alla maestosità della natura, spettatrice indifferente della guerra e degli affanni umani e procacciatrice di vita, intesa come nutrimento, ma anche di morte e sottolinea l’innocenza di Amy, banalmente ma efficacemente paragonabile a Cappuccetto Rosso che invece del lupo troverà nel bosco un soldato nordista ferito, John McBurney (Colin Farrell). Trasportato all’interno del collegio, John viene curato e accudito dalla direttrice Miss Martha, una statuaria Nicole Kidman, dall’insegnante Edwina (Kirsten Dunst), un vulcano di emotività appena intuibile sotto una gelida ed amara corazza, e dalle allieve. Tutte queste donne gradualmente manifestano uno spiccato interesse per questo soldato, sotto forma di ingenua curiosità nel caso delle più giovani e di attrazione sessuale più o meno manifesta nel caso delle meno giovani. In questo clima di disordine emozionale, che contrasta con l’ordine precedente, inizia l’inganno che dà il titolo al film. A questo proposito è interessante notare che il titolo originale ha un respiro più ampio di quello italiano:”The Beguiled” significa infatti sia l’ingannato che l’ingannata e sia al singolare che al plurale, come a sottolineare la molteplicità e la diffusione dell’inganno nei rapporti umani. Martha inganna infatti gli ufficiali sudisti non menzionando la presenza di un nordista in casa, John inganna Edwina dicendosi perdutamente innamorato di lei, ma comportandosi in realtà diversamente, Alicia (Elle Fanning) inganna le altre accusando falsamente John di violenza e così via in una spirale diabolica che porta all’esito drammatico, dopo il quale assistiamo ad una ripresa dello status quo ante, efficacemente espressa dallo statuario piano-sequenza finale.
Sofia Coppola ci dice quindi che la guerra è solo l’espressione più eclatante degli aspetti più neri dell’animo umano, l’orrore alberga infatti ovunque e può esplodere in qualsiasi momento in modo del tutto inatteso. A sottolineare questo aspetto basterebbe il fatto che sia proprio la giovane, angelica ed innocente (almeno all’inizio del film) Amy che saprà suggerire il modo più diabolico ed efficace per concludere il dramma.