sabato 15 novembre 2025

"Cinque secondi", Paolo Virzì (2025)

Adriano (Valerio Mastandea), una volta titolare di un prestigioso studio legale, vive solitario in affitto nelle scuderie ristrutturate di una villa abbandonata nella campagna toscana. Il suo desiderio è di evitare nel modo più assoluto i contatti con altri esseri umani (esige addirittura che il postino firmi le raccomandate pur di non incontrarlo). L’unica persona che accetta di vedere è una ex socia, Giuliana (Valeria Tedeschi), che mantiene i suoi contatti con il mondo. È facile quindi capire che l'arrivo di un gruppo di giovani chiassosi decisi ad installarsi nella villa e a rimettere artigianalmente in opera la vigna accanto alle ex-scuderie è per lui inizialmente un vero e proprio “tsunami”; nel tempo però vediamo Adriano farsi sempre più vicino ai ragazzi fino a difenderli quando la polizia cerca di sgomberare la villa. 

L'analisi di questo film corre su due linee principali. Da un lato l'aspetto umano, cioè la figura di Adriano, che ha voluto ritirarsi dal mondo, oppresso dall'evento più tragico che possa avvenire ad un padre e cioè la morte per annegamento della figlia (affetta da una grave malattia degenerativa cerebrale), aggravato dall'essere accusato per questa vicenda di omicidio colposo e vedere per sovrappiù nel banco dell'accusa l'ex moglie ed il figlio. Adriano non teme un'eventuale condanna, anzi vuole essere punito, cerca in questo modo una redenzione per una colpa che però non è quella di cui viene accusato in tribunale. Egli si ritiene colpevole di aver aspettato volutamente i 5 secondi del titolo prima di soccorrere la figlia per ragioni che chi ha visto il film conosce, ragioni che la legge non è in grado di giudicare, o che può giudicare in astratto in base ai suoi codici; chi giudica in questo caso è il singolo spettatore che il regista chiama in causa. E quindi capiamo perché, sempre per redimere la colpa che lo opprime, Adriano manifesta un attaccamento quasi morboso ad una dei giovani, Matilde (Galatea Bellugi), che egli vede come se fosse una sua figlia e cerca di tutelarla in ogni modo, giungendo ad aiutarla a far nascere la bambina che essa portava in grembo, come se il portare alla luce una vita potesse compensare la colpa che riteneva di portare sulle spalle. Che le cose stiano così lo capiamo nell'inquadratura finale che vede Adriano guidare verso il sole nascente all'uscita dall'ospedale dove aveva portato Matilde e la neonata, a testimoniare una sua rinascita dopo il periodo di esilio volontario.

Il secondo aspetto riguarda il rapporto dell'umanità con la natura ed è imperniato sull'allegro, se vogliamo fin troppo allegro, gruppo di ragazzi. Questa raffigurazione oleografica in stile New Age può sembrare sopra le righe ma in realtà è funzionale alla narrazione. Vediamo infatti che, nonostante l’apparente goliardica uguaglianza, il gruppo ha in realtà un capo e un capo anche piuttosto severo; si tratta di Matilde, forse non a caso discendente della nobile famiglia che in passato possedeva la villa. Cade quindi il mito dell’allegra uguaglianza, seguito a ruota dal mito del ritorno idilliaco alla natura poiché il vino prodotto artigianalmente pestando (sempre allegramente) l’uva con i piedi risulta imbevibile. Infine, Matilde, nemica della modernità e quindi dei medici e degli ospedali, vuole a tutti i costi partorire nella villa con l’aiuto di Adriano il quale però si trova costretto a portare di forza lei e la neonata in ospedale per il rischio che entrambe perdano la vita. Tutto ciò significa un richiamo alla moderazione, al non ritenere che, se è vero che il rispetto per la Natura e la tutela dell’ambiente sono sacrosanti, ciò non significa che sia opportuno tornare a vivere come nel Neolitico, periodo storico nel quale tra l’altro dubito che non esistessero i capi. 



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