sabato 29 giugno 2024

"The Animal Kingdom", Thomas Cailley (2023)

In tutto il mondo si verificano mutazioni senza causa apparente che trasformano gli esseri umani in soggetti mostruosi, di aspetto animalesco. Lena, moglie e madre rispettivamente di François (Romain Duris) ed Émile (Paul Kircher), è ricoverata in un ospedale dedicato al trattamento di queste metamorfosi, ma in occasione di un incidente stradale verificatosi durante il trasferimento in un'altra sede, riesce a fuggire dall'ambulanza insieme ad un numero imprecisato di altri mutanti. François ed Émile si mettono alla ricerca di Lena, il primo più convinto del secondo; nel corso della narrazione Émile inizia a presentare i segni di una lenta metamorfosi, verosimilmente in un lupo. Questa è in sintesi la trama del film che potrebbe far pensare ad un horror-fantasy come tanti, mentre in realtà offre lo spunto per considerazioni interessanti.

In primo luogo consideriamo le metamorfosi nel mondo antico ed in particolare per qual motivo gli dei provocavano questi fenomeni negli esseri umani. I motivi erano in genere due: punizione/invidia o salvataggio da un pericolo; un esempio del primo è la trasformazione della ninfa Callisto in orsa da parte di Artemide poiché era rimasta incinta contravvenendo alle regole imposte dalla sua condizione e del secondo la trasformazione di Dafne, insidiata da Apollo, in cespuglio di lauro. È possibile trovare un rapporto causa-effetto di questo tipo anche nel film? Il regista ce lo suggerisce inserendo nella narrazione frequenti osservazioni di François in merito alla pessima qualità dei prodotti alimentari che consumiamo, spinti da una pubblicità pervasiva. Le mutazioni potrebbero essere correlate agli alimenti che consumiamo e rappresentare quindi una punizione nei confronti del genere umano per i disastri da esso provocati nella catena alimentare dal desiderio di guadagni sempre maggiori.   

Non mancano evidenti allusioni alla paura nei confronti del diverso, in questo caso i mutanti, sempre considerato un potenziale e verosimile pericolo, come già visto molti anni fa sia nel cinema con "Freaks" (Todd Browning, 1932) che in letteratura con "Frankenstein" (Mary Shelley, 1818). Il motivo di questa paura è presto detto: il diverso rappresenta un cambiamento ed il cambiamento è istintivamente contrario alla natura umana, di per sé portata alla conservazione dello status quo che conferisce sicurezza; chi può infatti garantire a priori che un cambiamento sarà sicuramente per il meglio e non per il peggio? Va detto che i mutanti del film non hanno un atteggiamento proprio amichevole nei confronti degli umani, ma questo è dovuto a come essi vengono trattati, cioè rinchiudendoli con la forza e sottoponendoli a trattamenti di dubbia utilità contro il loro volere. In effetti il diverso, si pensi ad esempio agli immigrati dei nostri tempi, si trova molto frequentemente in condizioni di difficoltà economica, di isolamento sociale, di disoccupazione per cui un comportamento non propriamente ortodosso da parte sua non deve stupire.  

Un ultimo commento sul titolo. Si potrebbe essere portati a pensare che il “Regno Animale" sia quello dei mutanti, ma non è così. Esseri umani ed animali fanno infatti biologicamente tutti parte del “Regno Animale" e quindi forse questo titolo è un messaggio di integrazione fra di essi che il regista ci ha voluto dare. Più pessimisticamente potremmo invece pensare che gli animali del titolo siano in realtà gli esseri umani, così definiti per la ferocia che essi dimostrano nei confronti dei mutanti, essendo la ferocia spesso definita un comportamento "da animali".

martedì 4 giugno 2024

“I Dannati”, Roberto Minervini (2024)

Quest'opera di Roberto Minervini si aggiunge ad una lunga lista di film sulla guerra spesso caratterizzati da una particolare prospettiva in merito al tema. Pensiamo ad esempio a “Orizzonti di gloria" (Stanley Kubrick, 1957) che narra la follia delle decisioni prese dagli alti comandi con le relative conseguenze catastrofiche per i soldati, a “Salvate il soldato Ryan" (Steven Spielberg, 1998) che sottolinea l'importanza della vita del singolo individuo nella massa informe della truppa e che va ricordato anche per il terrificante realismo con cui rende lo sbarco in Normandia, o a “1917” (Sam Mendes, 2019) che utilizza la trama bellica per raccontare una storia di formazione, narrando come l'esperienza della guerra cambi radicalmente (in positivo) il modo di un singolo soldato di vivere la vita.

Il film di Minervini narra la storia di un battaglione di soldati confederati (siamo nel 1862, durante la guerra civile americana) mandati ad esplorare territori ad ovest. Un tema rilevante della narrazione è la fatica del "lavoro" quotidiano della guerra, aspetto già evidente nel poster a fianco che ci mostra di spalle soldati in colonna che procedono ingobbiti sotto un cielo grigio e nuvoloso verso un orizzonte senza fine, destinati ad una fatica di Sisifo di cui non è a loro del tutto chiaro il senso. E che il senso non sia chiaro, o comunque non uguale per tutti, è evidente dai dialoghi fra questi soldati, dialoghi scarni ed essenziali, che ci spiegano perché essi, ragazzi e adulti, hanno deciso di arruolarsi. C’è chi cercava un'occupazione, chi ha voluto seguire il padre, chi ritiene di aver fatto una scelta eticamente giusta, chi adduce una motivazione religiosa. Minervini insiste inoltre, ed è anche questa una caratteristica di quest'opera, sul freddo e la sporcizia che questi uomini sembrano dare per scontati, da essi non sentiamo mai infatti un lamento, come se sapessero di essere condannati a questa vita (ma il regista li definisce giustamente dannati cioè destinati a ciò che vivono e non condannati, termine che implicherebbe invece una punizione con conseguente possibilità di redenzione). Insieme a queste tematiche, la guerra anche qui compare, con una lunga sequenza su uno scontro a fuoco della quale vale la pena sottolineare due aspetti. In primo luogo il diverso atteggiamento dei vari soldati: chi si getta all'attacco, chi sta al riparo e da lì spara, chi si rifugia in una buca finché tutto finisce, il tutto per dirci che in condizioni estreme, nonostante la comune appartenenza, riemerga l'individualismo. L’altro aspetto importante è l'anonimità del nemico: i soldati sparano verso fiammate che provengono dai cespugli ma non hanno la minima idea di chi siano le persone cui stanno sparando, un’altra assurdità della guerra: uccidere sconosciuti che nella vita normale potrebbero esserci indifferenti o addirittura essere nostri cari amici. Fortunatamente il regista ci lascia alla fine con una nota di ottimismo, quando in chiusura uno dei due soldati mandati in avanscoperta alza lo sguardo al cielo sotto una nevicata mista ad un tenue raggio di sole ed esclama: "Che serenità!" per farci ricordare che la speranza, ultima dea, non deve mai essere abbandonata poiché anche la guerra, come il tempo gelido e nuvoloso che ha accompagnato i protagonisti per tutto il film, passerà.