sabato 20 maggio 2023

“Creature di Dio”, Saela Davis e Anna Rose Holmer (2022)

La vita nel paesino di pescatori sperduto sulla costa dell’Irlanda dove si svolge la narrazione, è dura. Sotto un cielo perennemente plumbeo gli uomini lavorano sul mare, plumbeo anch'esso, e le donne alla catena di montaggio nell’industria di trasformazione del pesce, gli uni esposti ai rischi della natura (per una curiosa tradizione non viene loro insegnato a nuotare), le altre in mezzo al puzzo di pesce da mattina a sera. Unico momento di svago è costituito dalla serata al pub, fra birra, whisky e battute fra amici. È questa in effetti la classica triade lavoro, pub, casa (in ordine decrescente di frequentazione) che abbiamo visto in altri film irlandesi, come ad esempio ultimamente ne “Gli Spiriti dell’Isola” (Martin McDonagh, 2022). In questo contesto seguiamo la vicenda dei tre personaggi principali: Aileen (Emily Watson), il figlio Brian (Paul Mescal) e Sarah (Aisling Franciosi).
Siamo tutti creature di Dio nel buio dice Sarah ad Aileen durante una breve interruzione dal lavoro, intendendo dire con queste poche, semplici parole che danno il titolo al film che buoni o cattivi gli esseri umani, seppur tutti figli di Dio, si trovano spesso e volentieri a brancolare nel buio nel tentativo di fare le giuste scelte. E presto abbiamo un esempio di questo concetto, quando Sarah viene violentata da Brian dopo una serata al pub. A questo punto Aileen deve scegliere fra mentire alle autorità, fornendo al figlio un falso alibi, e dir loro la verità, permettendo alla giustizia di fare il suo corso. Essa sceglie la prima opzione e la denuncia di Sarah all’autorità giudiziaria cadrà di conseguenza nel vuoto. È stata quella di Aileen una giusta scelta? Il suo sguardo (vedi il manifesto del film) ci fa capire con chiarezza sia il tormento che accompagna questo dubbio che non riesce a sciogliere che la rabbia che cova nei confronti del figlio per averla con il suo comportamento messa in una situazione così difficile. Ed alla fine Aileen, anche se in preda alla disperazione, decide che la giustizia debba prevalere e lo fa a modo suo, sulla traccia di un dramma shakespeariano o di una tragedia greca. Durante un'uscita in barca con il figlio che lavora in un allevamento di ostriche, lascia infatti che l’arrivo dell’alta marea abbia la meglio sull'incapacità di nuotare di Brian non facendo nulla in risposta alle sue disperate richieste di aiuto. L’ultimo e doveroso atto di Aileen è una visita a Sarah, per chiederle, in modo indiretto, scusa del falso alibi fornito a Brian. Quest’ultima aveva già deciso di lasciare per sempre il paese non tanto, o non solo, per la vicenda dello stupro, ma per l’incapacità di scrollarsi di dosso i ricordi, che come il vento di notte le tolgono il sonno, nessuno dei quali è piacevole, a partire da quello del pianto della madre dopo aver messo a letto il marito ubriaco fradicio. Ed il film si chiude sul profilo di Sarah al volante della sua auto che si allontana sotto un cielo non più plumbeo ma finalmente sereno, mentre lentamente affiora sul suo volto un timido sorriso. Evidentemente, ci suggeriscono le registe, riuscirà ad applicare la formula greca della riconciliazione promulgata dagli Ateniesi dopo la deposizione dei Trenta Tiranni (403 a.C.): mé mnesikakéin, “Non ricordare il male”.
 
 

venerdì 19 maggio 2023

“La quattordicesima domenica del tempo ordinario”, Pupi Avanti (2023)

Ancora una volta, dopo “Lei mi parla ancora” (2020), Pupi Avati ritorna sul tema dell’amore e della memoria e lo fa scegliendo come sfondo la sua amata Bologna negli anni che vanno dal 1950 ad oggi. 
La struttura del film è basata sull’eterno triangolo: lei è Sandra (Camilla Ciraolo da giovane, poi Edwige Fenech) e loro sono Marzio (Lodo Guenzi da giovane, poi Gabriele Lavia) e Samuele (Nick Russo da giovane, poi Massimo Lopez), due amici per la pelle, fondatori del duo musicale i “Leggenda” che tentano di partecipare a Sanremo con la loro canzone il cui titolo è quello del film. 
Avati indaga con abilità, come se usasse il bisturi del chirurgo, le sfaccettature di questa relazione a tre, i meccanismi attraverso i quali da un lato Sandra prima sposa Marzio e poi lo lascia cedendo alla corte di Samuele e come si svolge il rapporto fra i due amici. A questo proposito una frase in particolare rimane impressa ed è quella che viene rivolta a Marzio per spiegargli perché Samuele si innamorò di Sandra (che Marzio aveva sposato) portandogliela via: Samuele si è innamorato di lei perché è innamorato di te. Cosa ci dice la sceneggiatura con questa frase? Non che Samuele nutrisse una attrazione sessuale per Marzio, ma semplicemente che la profondità dell’amicizia fra i due uomini è tale che ciò che ama l’uno è amato anche dall’altro (non dimentichiamo che l’etimologia della parola amicizia è la stessa di amore) a tal punto che non deve stupire che due (veri) amici amino la stessa donna. 
Questo per ciò che attiene il rapporto fra Marzio e Samuele, cosa possiamo dire di Sandra? Perché decide di lasciare Marzio? L’interpretazione è qui più lineare. Marzio e Samuele sono come i due cavalli della biga alata nel mito platonico: Marzio è il cavallo nero, teso alla pura emozione, e Samuele il cavallo bianco, teso alla razionalità delle idee. È evidente che il cavallo nero può essere più divertente di quello bianco per un po’, ma la convivenza a lungo termine è tutt’altra cosa e qui il cavallo bianco può giuocare bene le sue carte. 
Finisce tutto qui? No, Avati ci porta ai giorni nostri e fa incontrare di nuovo, dopo l’uscita di scena di Samuele, Marzio e Sandra, invecchiati e delusi dalle rispettive esistenze, lasciandoci, con l’ultima sequenza, con la speranza che essi possano ritrovare da anziani il rapporto che persero da giovani. È solo una speranza perché se Sandra lo vorrebbe, come testimoniato dalla sua decisione di tinteggiare la casa di Marzio di blu come quando erano novelli sposi, l’espressione di lui nel vedere il colore rimane indifferente e non sapremo mai se è così perché Sandra non gli interessa o per gli esiti del recente importante trauma cranico che aveva da poco subito.


sabato 13 maggio 2023

“The Fabelmans”, Steven Spielberg (2022)

 

In questo film Steven Spielberg  si narra e narra il suo rapporto con il cinema. Rapporto complesso, come viene ribadito sia dallo zio Boris (Judd Hirsch) che dal grande regista John Ford (cameo di David Lynch) che spiegano al giovane Sam (Gabriel Labelle), alter ego di Spielberg, che l’Arte gli spezzerà il cuore e manderà in crisi il suo rapporto con gli altri ed in particolare con la famiglia. E qui sta il nocciolo di questo film: la separazione cartesiana fra Anima e Corpo, fra res cogitans e res extensa e quindi in senso lato fra Anima, cioè  l’amore per l’Arte e specificamente il cinema, e Materia, cioè la vita di tutti i giorni. Probabilmente lo stesso titolo del film ce lo vuole suggerire: Fabel si pronuncia in inglese come Fable cioè “Favola” e Man significa “Uomo" (la s finale indica il nucleo familiare e non un plurale). È difficile pensare che non fosse nelle intenzioni più o meno consce di Spielberg il rappresentare già nel titolo questo contrasto fra Anima (la Favola) e il Corpo (l’Uomo). Ma non finisce qui. Guardiamo i genitori di Sam: la madre Mitzi (Michelle Williams) vive in una realtà che ha poco di reale, ama seguire i suoi sogni e, nonostante quanto dice, poco si cura di coloro che la circondano, non esita molto infatti a lasciare il marito e i figli (per il vero le tre figlie la seguono, solo Sam resta con il padre) per seguire zio Bennie (Seth Rogen), amico di famiglia. E si badi, quando spiega i motivi del divorzio a Sam, Mitzi usa questa frase "Bennie ha bisogno di me...ed io di lui" cioè antepone l’interesse di Bennie al suo proprio, come se stesse compiendo una buona azione nei suoi confronti. Per spiegare questo comportamento è facile, e probabilmente giusto, invocare il vecchio topos "genio e sregolatezza" (Mitzi è in effetti una pianista di successo, come la madre di Spielberg che era anche pittrice) però si può avere l’impressione che di fondo vi sia in questo personaggio una patologia psichiatrica sul tipo del disturbo narcisistico di personalità. Il padre di Sam, Burt (Paul Dano), è l'opposto di sua moglie: ingegnere elettronico con i piedi saldamente piantati a terra, indirizza la vita della famiglia secondo le necessità del suo lavoro e si ostina a definire l’amore di Sam per il cinema un “hobby”, cosa che disturba molto il ragazzo. Viene spontaneo alla fine del film chiedersi che influsso possa aver avuto sulla formazione di Sam (e quindi di Spielberg) questa drastica differenza fra madre e padre nel modo di vedere e vivere la vita. Si può pensare che egli riesca nel corso della sua vita ad operare una sintesi (aristotelica) fra Anima e Corpo che gli permetta di vivere felicemente la sua esistenza. E in effetti, che anche il cinema stesso rappresenti una sintesi di aspetti contrastanti emerge chiaramente nel corso della narrazione: Sam vede il cinema inizialmente come un sogno che egli realizzerà da bambino nel suo primo film, The Last Train Wreck, che Spielberg effettivamente girò a 11 anni, poi si rende conto di come esso possa svelare situazioni reali che nella realtà non sono riconoscibili (il rapporto sentimentale fra sua madre e Bennie) e come infine possa far vedere la realtà in un  modo diverso a seconda dello spettatore, come emerge dal dialogo con il compagno di scuola Logan (Sam Rechner) in merito al film girato alla fine dell’anno scolastico con il quale Sam voleva fare un piacere a Logan il quale invece lo interpreta come un’offesa. Ed è questa la vera magia del cinema.