“Il Filo Nascosto” è un film sull’amore, con parecchi spunti di analisi che meritano attenzione.
Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis) è un dispotico sarto inglese di altissimo livello, da cui si serve l’alta società europea. La sua durezza è però una maschera: nella realtà è un uomo fragile, ossessionato dal ricordo di una madre verosimilmente dominante (del padre sappiamo solo che era precocemente mancato) cui doveva essersi morbosamente legato anche a causa dell’abilità nell’arte sartoriale da lei appresa: possiamo infatti pensare che un ragazzo di 16 anni che passa i giorni a cucire vestiti possa avere uno sviluppo sociale normale? Che cerchia di amici poteva avere? La madre rappresentava quindi il suo unico riferimento e tale è rimasta anche dopo la morte, un esempio di amore filiale deviante rivolto a un fantasma (il titolo originale è infatti “Phantom Thread”, Filo Fantasma) che aleggia, condizionandola, sulla vita di Reynolds. Condizionandola a tal punto che l’unico modo che gli rimane per dare sfogo ai sentimenti è cucire dei bigliettini nella stoffa dei vestiti delle sue clienti, convinto che nessuno mai li leggerà. I rapporti di Reynolds con le donne sono prevedibilmente temporanei e superficiali, anche grazie agli interventi della sorella Cyril (Lesley Manville) austera e inflessibile organizzatrice della vita del fratello (basta vedere la decisione con cui apre l’atelier al mattino) che mal tollera i suoi legami con altre donne. Un altro amore, questa volta sororale, anch’esso deviante nella sua possessività. In questa situazione, cristallizzata anche grazie alle ossessioni di Reynolds (addirittura beve il the ogni mattina con gli stessi identici gesti) che rappresentano un evidente meccanismo di difesa verso qualsiasi cambiamento, si inserisce Alma, giovane cameriera di cui Reynolds sembra infatuato come in precedenza di altre donne. Ma le cose questa volta cambiano. Alma ama Reynolds, come ci dice apertamente nel corso dei colloqui con il giovane dott. Hardy (Brian Gleeson) che costituiscono il filo (un altro!) della narrazione, e questo può sembrare un altro amore, questa volta finalmente normale. Ma per P.T. Anderson nulla è sicuramente normale: Alma infatti ama un Reynolds che esiste solo nei suoi desideri, che non corrisponde al vero Reynolds, essa vorrebbe sradicarlo dalle sue abitudini e ossessioni maniacali come la passeggiata che si fa solo il giovedì plasmandolo a suo piacimento, convincendolo (orrore!) ad andare a ballare. E’ questo vero amore? O è una espressione della volontà di correggere una situazione che non risponde ai propri criteri di normalità? O forse entrambi? Una risposta potrà forse essere data solo dopo l’epilogo della vicenda. Come reagisce Reynolds all’agire di Alma? All’inizio con l'usuale durezza, ma il cambiamento è in arrivo. Il punto di svolta è rappresentato dall’avvelenamento da funghi che Alma escogita per poter avere Reynolds solo per sé. E’ qui che in preda al delirio egli ha una visione della madre e la comparsa di Alma sulla porta, affiancata alla figura della madre, determina una sorta di trasferimento, un transfert del dominio su Reynolds dalla prima alla seconda figura femminile. Quando Alma infatti nella scena clou del film, per sopire un suo tentativo di ribellione propina di nuovo a Reynolds i funghi velenosi, egli, pur essendosi accorto del sotterfugio, consuma, dopo qualche titubanza ben presto vinta, la pietanza, con l’espressione fra sfida e resa del bambino che assume la medicina amara per compiacere la mamma, forse inconsciamente lieto di assoggettarsi al dominio di un essere in carne ed ossa in sostituzione del fantasma della madre.
Un'immagine può essere apprezzata per le sue qualità puramente estetiche ("mi piace"), ma in essa esistono anche significati che possono non essere immediatamente colti, soprattutto in un mondo pieno di immagini come quello in cui viviamo. E' quindi necessario prendersi il tempo per entrare nell'immagine (in questo blog in particolare, ma non solo, cinematografica) alla ricerca di questi significati.
martedì 27 febbraio 2018
domenica 18 febbraio 2018
"La Forma dell’Acqua” Guillermo del Toro, 2017
A una prima valutazione “La Forma dell’Acqua” può essere letto come una storia d’amore atipico che si snoda sullo sfondo di una critica sociale relativa alla oppressione delle minoranze (diversi, neri, omosessuali, portatori di handicap) da parte del potere costituito. Si può cercare di approfondire però l’analisi, partendo dal titolo: cosa significa la forma dell’acqua? L’acqua ha una forma? Ebbene sì, l’acqua può avere una forma ed è quella di due gocce che si inseguono sul finestrino di un autobus che corre sotto la pioggia, due gocce impersonate dalla Creatura anfibia (Doug Jones) e da Elisa Esposito (Sally Hawkins). Contrariamente al noto modo di dire, si tratta di due gocce assai diverse, sia nell’aspetto fisico che per altre caratteristiche: la Creatura è dotata di capacità taumaturgiche per le quali viene considerato nel suo habitat un Dio, Elisa è invece in fondo alla scala sociale: abbandonata da neonata sulla scalinata di una chiesa, muta (forse per un non ben definito trauma nell’infanzia), priva di affetti se non per la burbera collega Zelda (Octavia Spencer) e l’emarginato disegnatore Giles (Richard Jenkins) che non possono però supplire al suo intimo desiderio di amore. Catalizzatore involontario dell’incontro fra Elisa e la Creatura è il colonnello Strickland (Michael Shannon) che rapisce la Creatura dal suo habitat nel Rio delle Amazzoni per utilizzarne le capacità in ambito militare e a questo scopo la porta a Baltimora nell’istituto in cui lavora come inserviente Elisa. Inizialmente Elisa prova curiosità e compassione per la Creatura, maltrattata da Strickland, ma in seguito questo sentimento sfocia nell’amore, ricambiato, che supera ogni diversità (Amor Vincit Omnia...sembra ricordarci del Toro). La situazione precipita quando Strickland decide di portare agli estremi lo studio della Creatura sottoponendola a vivisezione e di conseguenza Elisa si trova costretta ad organizzarne la fuga, una fuga rocambolesca che si conclude con un tuffo dei due, apparentemente feriti a morte, in un canale che sfocia nell’Atlantico. Solo apparentemente però, perché la vicenda segue il ciclo mitologico nascita-morte-rinascita, rappresentato dall’uovo, simbolo di nascita per eccellenza, con cui Elisa nutre la Creatura, e dall’acqua stessa, incubatrice della vita non solo in ambito mitologico ma anche scientifico. E quindi Elisa morirà alla sua triste vita terrena per rinascere subito a una felice vita subacquea (dove le scarpe non le serviranno più) cui forse era predestinata: sono infatti le cicatrici sul collo che funzionando da branchie le permettono di respirare sott’acqua. Mentre la Creatura ed Elisa rinascono quindi a nuova vita come due gocce nell’oceano, il peggio tocca a due personaggi antipodici, il cattivo Strickland e il buon dott. Hofstetler, alias Mosenkov (Michael Stuhlbarg), emissario dello spionaggio russo, accomunati dal fatto di rimanere stritolati negli ingranaggi del potere politico-militare che, come Sansone nel tempio, distrugge tutto ciò che tocca.
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