Parafrasando l’incipit del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels (1848) potremmo dire che uno spettro si aggira per il film di Kantemir Balagov e non si tratta del comunismo ma della guerra. Lo spettatore non lo vede in azione, ma ne coglie dolorosamente le terribili conseguenze sulla vita dei sopravvissuti nella semidistrutta Leningrado del 1945.
Fin dall’inizio facciamo la conoscenza di Iya (Viktorija Mirošničenko), una giovane donna altissima, timida e sgraziata (molto opportunamente il titolo originale “Dylda" significa appunto in russo "persona alta e goffa") soprannominata “Giraffa”, che il regista riprende in preda ad uno degli accessi di rigidità e sospensione della coscienza che occasionalmente le causano una sorta di paralisi transitoria; si tratta probabilmente di una manifestazione correlata a un disturbo da stress post-traumatico. Iya è il personaggio chiave del film: in modo indipendente dalla sua volontà ella, non a caso infermiera, si trova infatti a donare la vita e la morte, i due aspetti principali che Balagov mette a fuoco nel suo film. Vita e morte, l’alfa e l’omega del genere umano, sono quotidianamente in giuoco in questa Leningrado spettrale. Seguendo lo snodarsi della vicenda vediamo Iya soffocare involontariamente nel corso di uno dei suoi accessi il piccolo Paška (Timofey Glazkov), figlio dell’amica Maša (Vasilisa Perelygina). E Maša, che era divenuta sterile per le ferite riportate in guerra, impone ad Iya come ricompensa di farsi ingravidare per donarle un altro figlio, quindi una vita in cambio di una morte. E ancora la vediamo seguire senza il coraggio di ribellarsi le istruzioni del primario del reparto in cui lavora, il dott. Nikolaj Ivanovič (Andrej Bikov), somministrando una iniezione letale al povero Stepan (Konstantin Balakirev), tetraplegico a causa delle ferite riportate in guerra, che aveva fatto espressa richiesta dell’eutanasia per non pesare sulla moglie e sui figli. Il colloquio fra Stepan, sua moglie (Alyona Kučkova) e il primario, è una delle scene più toccanti del film. In particolare l’espressione della moglie di Stepan che guarda il primario con occhi vacui e fissi ricorda molto da vicino quella della vedova di guerra ritratta da Archimede Bresciani nel quadro “Attendendo l’Eroe” (1920).
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Stepan e la moglie a colloquio con il primario |
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Attendendo l’Eroe |
Queste figure femminili richiamano alla memoria Andromaca, il prototipo della donna privata di tutto, dell’affetto del marito e del suo sostegno economico, consapevolmente rassegnata al destino di affrontare una vita difficile per far crescere in povertà e da sola le sue creature. Tutto ciò grazie allo spettro orrendo della guerra che i politici cercano nel film (e nella vita reale) di esorcizzare visitando in ospedale i soldati feriti e definendoli eroi (ma uno di essi reagisce con un applauso ironico). Mostrandone le conseguenze, Balagov ci mette in guardia contro questo spettro che si aggira purtroppo non solo nel suo film ma per il mondo intero.