A pochi giorni dall’arrivo nelle
sale cinematografiche dell’attesissimo “Blade Runner 2049” vale la pena di analizzare
una delle scene più importanti del “Blade Runner” di Ridley Scott del 1982,
vale a dire l’epilogo del combattimento fra l’ultimo dei replicanti Roy Batty
(Rutger Hauer) e il cacciatore di replicanti Rick Deckard (Harrison Ford). In
essa giunge all’apice il topos fondamentale del film e cioè il desiderio dei
replicanti di essere, non solo sembrare, umani. E’ per questo che
essi tentano di costruirsi ricordi artificiali ed è per questo che Roy chiede
al suo creatore Eldon Tyrrel (Joe Turkel) di eliminare il meccanismo che
determina automaticamente la distruzione dei replicanti dopo un periodo
predefinito e avendone ricevuto una risposta negativa lo uccide in uno scatto
d’ira, emozione tra l’altro tipicamente umana.
Ed è sul tetto di quel Bradbury Building
di Los Angeles, fatto costruire dal milionario Lewis L. Bradbury nel 1893 e che
ricorda Ray D. Bradbury, uno dei grandi della letteratura sci-fi, che questo
desiderio giunge a una piena realizzazione. Questo evento è preceduto da una
serie di segni che prefigurano il passaggio da replicante ad essere umano, già
peraltro in fieri alla luce dello scatto d’ira omicida ricordato in precedenza.
Pensiamo ad esempio al chiodo conficcato nel palmo della mano che richiama la
crocefissione, apice del processo di “umanizzazione” di Gesù Cristo e quindi
anche di Roy. E ancora, la colomba bianca stretta fra le mani di Roy che volerà
verso un cielo finalmente azzurro nel momento della morte, accompagnata dal
passaggio della colonna sonora dal cupo modo minore alla gioia del modo
maggiore, rappresenta l’anima che lascia un corpo finalmente umano. Nel momento
in cui salva Rick dalla caduta dal tetto, Roy dimostra ancora una volta reazioni
molto umane: quando tiene Rick sospeso nel vuoto in condizioni di assoluta
impotenza, ha modo di vendicarsi di quanto ha subito nel corso della sua esistenza
facendogli assaporare l’orrore di una vita da schiavo, perennemente in balia
degli altri, mentre nell’atto di salvarlo compie un gesto di umana compassione.
E veniamo adesso alla celeberrima
parte finale del monologo di Roy, pronunciata sedendosi a terra per essere all’altezza
di Rick steso a terra, una ulteriore dimostrazione di umana capacità empatica. Perfettamente
conseguente al desiderio di dimostrare l’umanità di Roy attraverso il racconto dei
ricordi, la frase finale è stata purtroppo cambiata nella versione italiana facendogli
dire: “Io ne ho visto di cose che voi
umani non potreste immaginare…”, diversamente dalla versione originale: “I’ve seen things you people wouldn’t believe”
dove la differenza sostanziale è che se Roy parla a degli “umani” non può sentirsi parte dell’umanità, mentre se parla a della
“gente” (“people”), si fa parte egli stesso dell’umanità, come è suo
desiderio. Desiderio che si realizza appieno nel momento che immediatamente
precede la sua morte, quando cioè l’espressione del volto passa dalla tristezza
nel parlare della perdita dei ricordi nel tempo “come lacrime nella pioggia” al sorriso finalmente sereno che
precede il reclinarsi del capo e la morte.
In chiusura di questo breve commento
vale la pena di ricordare l’ultima frase del film, affidata a Eduardo Gaff
(Edward J. Olmos), collega di Rick ”Peccato
che lei non vivrà. Sempre che questo sia vivere” riferita alla replicante
Rachael (Sean Young); ancora una volta la versione italiana ci crea qualche
problema, infatti l’originale suona così ”It’s
a shame she won’t live, but then again who does?” la cui traduzione
letterale: ”Peccato che lei non vivrà, ma
in definitiva chi ce la può fare?” è una chiara (e spiazzante) analogia fra
la condizione di vita dei replicanti e quella degli esseri umani.